lunedì 28 aprile 2008

VI Domenica di Pasqua

Giovanni 14, 15-21

“Non vi lascerò orfani”: è forse questa la parola più toccante del discorso-testamento con cui Gesù dà l’addio ai suoi discepoli.
L’orfano è l’uomo privo di sostegni affettivi e perciò costretto a vivere in una condizione di solitudine.
E’ la condizione di molte persone che, pur disponendo di molti legami e conoscenze, si trova a patire l’assenza di un vero rapporto di amore.
Mi viene in mente la confessione terribile che uno scrittore famoso (C.Pavese) ha lasciato nel suo diario: “Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia”.
Anche senza toccare questi limiti estremi, la condizione di orfano fa soffrire molte persone.
Il credente dovrebbe essere sottratto a questa esperienza dolorosa, perché quel Dio in cui crede gli assicura la sua presenza e la sua protezione.
Ma perché questo avvenga, bisogna che la fede abbia una valenza mistica, si traduca cioè in un’esperienza animata dallo Spirito che è stato promesso da Cristo.
Qual è precisamente la funzione dello Spirito?
Lo Spirito, come consolatore, ci dice parole di inenarrabile dolcezza parlandoci di Gesù Cristo così che ciascuno non può che sentirsi innamorato.
E attraverso questo legame profondo si entra in rapporto di familiarità con il Padre, si dialoga con lui, lo si ascolta, lo si rende partecipe di tutto ciò che rappresenta la fatica e lo stupore del nostro vivere.
Questa è la dimensione mistica della fede, che purtroppo è poco conosciuta e poco praticata.
Potrà sembrare strana questa affermazione, se si pensa che oggi si vanno moltiplicando forme di religiosità che valorizzano molto il rapporto con il mistero e la sacralità della vita.
E’ un tempo, il nostro, in cui si parla spesso dell’azione dello Spirito, della presenza di fatti soprannaturali, di apparizioni e di rivelazioni private, di santi e di miracoli.
E ci sono tante persone che vivono una sorta di nomadismo spirituale, alla ricerca di emozioni forti che non riescono a trovare nei recinti della propria chiesa.
Come giudicare questi tentativi di cercare, sia pure su sentieri errabondi, un rapporto più stretto con il sacro e il divino?
Per capire, prendiamo ancora le mosse da quella condizione di solitudine di cui si parlava all’inizio.
Molte sono le persone che, pur avendo tutto, soffrono di tristezza e di depressione.
E c’è chi pensa di poter offrire una spiegazione: la scienza e la tecnica, che sembrano governare in modo esclusivo l’organizzazione di questo mondo, hanno provocato una spaventosa aridità emotiva e spirituale.
L’uomo iperrazionale e ipertercnologico soffre di un grande vuoto interiore.
Come potrebbe salvarsi?
Sembra che la via migliore, al di là del ricorso a psicofarmaci o a trattamenti di ordine psicologico, sia ancora quella di alzare il capo verso il cielo.
Ecco perché si assiste oggi alla ricerca di una spiritualità fatta di credenze e di devozioni, con un interesse particolare riservato a prodigi e miracoli.
E’ una spiritualità che per i fervore che talvolta esprime può indurre a pensare che abbia una forte connotazione di carattere mistico.
Ma è importante a questo punto chiarire la differenza che passa tra la vera dimensione mistica della fede la quale –sia chiaro – dovrebbe appartenere all’esperienza di ogni credente, e certe forme di spiritualità vagamente misticheggianti.
E’ la stessa differenza che passa tra ciò che è autentico e ciò che rappresenta solo un surrogato.
Il vero credente o, se preferite, il vero mistico, sa che il rapporto con Dio non deve essere conquistato attraverso iniziative personali, ma deve essere accolto con gioioso stupore perché si tratta di un dono dovuto a una ragione di pura benevolenza.
Ricordo che un grande scrittore, William Golding, ha detto: ”Trovo difficile non credere in Dio. ma non sta qui il nocciolo del problema. La mia preoccupazione è che Dio creda in me”.
Questa preoccupazione il vero credente l’ha superata tanto che può dire: “Io so che il Signore crede in me perché ne sento la presenza, come ha promesso Gesù: Voi in me e io in voi”.
C’è da aggiungere che la dimensione mistica della vita non chiude in un’interiorità di tipo narcisistico, come succede a tante persone che si rifugiano in una spiritualità tranquillante, antidolorifica, appagante, senza che questa pretenda nulla in cambio.
“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” ha detto Gesù.
Se si pensa che i comandamenti per Gesù si condensano nell’unico comandamento dell’amore, il senso è chiaro: “Se vi sentite amati, dovete a vostra volta dispensare amore”.
Il mistico è perciò colui che entra in questo dinamismo di amore, si sente amato ed pronto ad amare i fratelli o, come dice l’apostolo Pietro, a rendere conto della speranza che è in lui.
Potrà scegliere a volte la via del silenzio (meraviglioso ascoltare il silenzio di certe persone), altre volte sentirà il dovere di scendere in piazza a protestare a favore dei più deboli.
E’ certo il fatto che la vera esperienza mistica non diserterà mai il campo della fraternità.
E’ lo Spirito che nella vita di ciascuno può suggerire i diversi atteggiamenti da seguire, quello Spirito che ci è dato per renderci sempre più persuasi che Dio si ostina credere in noi e ad abitare dentro di noi.

domenica 20 aprile 2008

V Domenica di Pasqua


Giovanni 14, 1-12

Il vangelo di questa domenica è di una ricchezza straordinaria.
Già l’affermazione centrale di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita” basta a dare il senso della pregnanza del testo.
A me pare che sia importante avviare la riflessione dalla prima di queste tre parole. “Io sono la via”.
Questa parola suggerisce l’idea di cammino, di movimento, di dinamismo, di apertura verso ciò che è inedito e sconosciuto.
Se questa parola viene associata alla verità, essa ci offre della verità un’immagine non usuale.
Noi siamo soliti pensare che la verità possa essere racchiusa dentro un sistema di pensiero, fatto di concetti e di parole.
Se valesse questa idea, allora si potrebbe parlare di verità in termini di possesso e dire: “Io ho la verità”.
Ma quando io penso di possedere la verità, allora in quel preciso momento sono esposto alla pericolosa tentazione di usare la mia verità contro gli altri, contro quelli che non l’hanno o hanno una verità diversa dalla mia.
La presunzione di possedere la verità diventa motivo di arroganza e di divisione.
Se questo atteggiamento è fatto proprio da una religione,è facile che questa religione pecchi di integralismo, che è la pretesa di possedere una verità totalitaria, in grado di risolvere tutti i problemi dell’esistenza, di dire come stanno le cose e come dovrebbero essere.
Ma per Gesù la verità non è qualcosa di statico, di conchiuso, di definito, che possa essere oggetto di possesso.
La verità è un percorso. La verità è lui, Gesù, che è sempre in cammino.
Solo chi è disposto a camminare al seguito di Gesù può entrare in rapporto con la verità, con quella verità che offre il senso ultimo delle cose e la meta ultima della nostra umana avventura.
Perciò mi sembra particolarmente felice l’affermazione di un vescovo francese (Mons. Rouet, vescovo di Poitiers), il quale in una sua omelia ha detto: “La fede comincia dai piedi, perché bisogna andare, bisogna muoversi”.
Se è vero che Gesù è l’immagine assoluta e pura di Dio che si è incarnata in un’immagine pura e assoluta dell’umano, noi la verità la possiamo riconoscere se ci muoviamo, passo dopo passo, verso la contemplazione del volto di Gesù.
Perciò è importante tenere gli occhi fissi su Gesù.
Ogni volto è un libro aperto.
Giustamente è stato detto che “un volto veramente umano è al tempo stesso il più bel foglio e la più bella scrittura del mondo” (C.Bobin).
Sul volto di Gesù, presente in mezzo a noi, sono principalmente due le verità più importanti che possiamo leggere.
Il volto di Gesù ci parla di un Dio che è Padre e ci ama.
Sentirsi amati da una persona è già qualcosa di immenso e di inesprimibile.
Sentirsi amati da Dio è come sentire che il proprio cuore si innalza
nella leggerezza e nell’immensità della luce.
Ma c’è un’altra parola che possiamo leggere oggi sul volto di Gesù, questa più severa, ma non meno luminosa.
La verità della vita, ci dice Gesù mentre sta per lasciare i discepoli (sente infatti avvicinarsi i giorni della passione), non è soltanto l’amore che si riceve, ma anche l’amore che si dona.
A tutti coloro che pensano di possedere la verità, soprattutto se teologi, biblisti, specialisti della parola di Dio, Gesù ricorda che la verità, l’alta verità, porta sempre le stimmate dell’amore.
Se non porta queste stimmate, se non è passata attraverso il frantoio della sofferenza affrontata per amore, non è una verità vitale.
Ecco dove ci ha portati l’idea di cammino applicata alla verità.
E se questa idea di cammino l’applicassimo anche alla parola vita?
Anche la vita non è mai completamente sperimentata e posseduta,ma è sempre da attendere e da sperare.
A guidarci verso la pienezza della vita è ancora lui, il Cristo, il quale ci invita a guardare avanti, a contemplare il posto che per ciascuno è preparato nella dimora del Padre
Gesù usa un linguaggio elementare, si direbbe infantile per parlare della vita che ci attende.
D’altra parte come sarebbe possibile esprimere un’esperienza che partecipa della vita stessa di Dio?
Ci basti sapere che c’è un posto preparato per ciascuno perché c’è un Padre che ama ciascuno in modo particolare.
Come arrivarci?
Seguendo Gesù il quale ci fa capire che tutto ciò che rappresenta una vittoria sull’egoismo, sul potere, sull’orgoglio, tutto ciò che esprime un amore reale è già un modo di conoscere e di sperimentare la vita che ci sarà data in pienezza.
E’Cristo che ci sostiene in questo cammino, il Cristo che oggi è voluto entrare in rapporto con noi come la via che conduce verso un orizzonte aperto, affascinante e promettente di verità e di vita.

domenica 13 aprile 2008

IVDomenicadiPasqua

Giovanni 10, 1/10

Nel testo di Giovanni Gesù si presenta di volta in volta come pastore, custode dell’ovile e anche la porta dello stesso ovile.
E queste diverse immagini si intrecciano tra loro, si sovrappongono, vengono abbandonate e poi riprese.
E’ possibile trovare un ordine all’interno di questo quadro che presenta una struttura compositiva molto complessa (e si direbbe molto moderna), ma che, proprio per questo, crea qualche difficoltà a chi lo voglia interpretare?
Potremmo seguire i movimenti che si snodano attraverso le varie immagini, a partire da quello che vede i pastori avviarsi al mattino all’ovile alla ricerca del proprio gregge.
Bisogna premettere che in uno stesso recinto erano ospitati durante la notte diverse greggi, affidate a un solo custode.
Al mattino ogni pastore viene a riprendersi il suo gregge.
Se è un pastore vero, entrerà per la porta del recinto, se invece è un ladro o un brigante, tenterà di entrare da qualche altra parte.
Già questo è un particolare che fa riflettere.
Tanti personaggi che in passato si erano presentati al popolo come veri pastori mentre nascondevano un animus predatorio, sono presenti anche nella nostra storia.
Chi sono oggi i ladri e i briganti travestiti da pastori?
Sono quelli che, per l’autorità di cui dispongono, possono rubare non solo soldi o privilegi, ma anche, manipolando certi strumenti (si sa quale importanza abbia oggi il mezzo televisivo), ti possono privare della tua libertà, della tua capacità critica, della tua gioia e della tua speranza.
Le vittime di questi ladri e briganti sono tante: forse neppure sanno di chi è la colpa, ma intanto si trovano defraudate della loro dignità di persone responsabili e di quella fiducia nella vita che è il bene più grande di cui si possa godere.
Guai a consegnarsi ciecamente a un capo carismatico, a idolatrarlo, a farne un dio, sia esso un capo politico o una star del mondo culturale.
Il vero pastore, al contrario, non è quello che cerca di esercitare la sua autorità con l’inganno o con la forza, ma quello che si presenta in piena luce, senza intenzioni predatorie.
C’è una nota che lo distingue: “Chiama le sue pecore una per una”.
Non alza la sua voce per imporre la sua volontà, ma chiama; non tratta il suo gregge come una massa informe, ma come un organismo vivente in cui ogni pecora (fuor di metafora: ogni persona) ha una sua distinta, irriducibile dignità.
Gesù Cristo è il buon pastore perché, invece di imporci la legge del gregarismo e del conformismo, ci vuole interlocutori responsabili, capaci cioè ( come dice la parola “responsabile”) di rispondere liberamente alla sua voce.
Il cristianesimo è un fatto di libertà.
Ciascuno deve poter dire con fierezza: “Se io sono cristiano, non è perché abbia subito qualche imposizione.
E’ una questione di fiducia tra me e Gesù Cristo.
Egli mi chiama per nome e io sento che per me è importante seguire la sua voce e rispondere al suo amore”.
Questa esperienza di libertà è presente anche nel secondo movimento richiamato dal testo di Giovanni.
Prima avevamo visto il pastore avvicinarsi al recinto delle pecore, ora lo vediamo uscire con il suo gregge.
Il fatto di uscire è significativo.
L’ovile non può diventare una prigione, un luogo di reclusione.
Ci sono cristiani che vorrebbero essere come pecore che non escono mai dall’ovile.
Sono quei cristiani che vedono pericoli dappertutto e amano perciò rinchiudersi dentro recinti ben protetti, chiedendo aiuto anche alla legislazione e alle istituzioni laiche.
Invece di impegnare la coscienza su un cammino di libertà, preferiscono vivere di tutele per sentirsi al riparo dal mondo.
Ma Gesù si sente soffocare dentro spazi troppo chiusi.
Le sue pecore, dopo averle chiamate, le conduce fuori.
E se fuori ci sono pericoli?
“Quando ha condotto fuori tutte le sue pecore - fa notare il Vangelo - cammina innanzi a loro”.
Se ci sono pericoli, è lui il primo a rischiare.
E ha talmente rischiato che ha dato la vita per le sue pecore.
A questo modo ha aperto un passaggio attraverso la valle oscura della morte.
Al cristiano timoroso, complessato, sempre sulla difensiva nei confronti di ogni novità, si dovrebbe ricordare: “Ma tu credi veramente in Cristo Buon Pastore?
E credi che Cristo è Buon Pastore perché cammina sempre davanti a noi?”
Ci rimane un ultimo movimento da osservare.
Il vangelo ci riconduce davanti all’ingresso dell’ovile e ci fa sostare per dirci. “Io sono la porta”.
Non è una porta, ma la porta, la porta essenziale, la sola porta che permetta di accedere alla salvezza.
Sono molti oggi i cristiani che senza negare che Gesù sia una porta, pensano che si possano trovare altre porte.
Non è forse vero che esiste una specie di supermercato del sacro e che molti ritengono, come succede al supermercato, che un “prodotto” vale l’altro e che tutte le religioni si equivalgono?
Gesù ci dice che lui è l’unica porta.
Non si tratta di voler escludere qualcuno dalla salvezza, ma di ritrovare tutta la originalità, la bellezza, la forza della nostra fede; di non appiattirla su un generico appello ad amare (tutte le religioni sono d’accordo nel dirci che dobbiamo volerci bene), ma di capire che Gesù ha potuto dire questa parola: “Io sono la porta”, perché solo lui, come figlio di Dio, può mettere in comunicazione l’umano e il divino.
Gesù è l’unico mediatore tra l’uomo e Dio.
Questo ce lo dobbiamo ricordare soprattutto noi che , frequentando le chiese, siamo portati ad attribuire alla chiesa un ruolo eccessivo rispetto a quello che una sana teologia è pronta a riconoscere.
E’ certamente importante onorare i santi come padre Pio o valorizzare la parola dei fondatori dei vari movimenti ecclesiali, presenti nella chiesa, ma non va dimenticato che essi non vivono di una luce propria, ma di una luce riflessa, che è quella di Cristo.
Dobbiamo perciò tenere gli occhi fissi su di lui e sul suo vangelo.
È lui infatti la porta che si apre sul mondo dell’umano e sul mondo del dvino.
E è anche la porta (vogliamo ricordarlo ancora in questo tempo pasquale) che si apre sulla risurrezione, sulla vita oltre la morte, sulla grande famiglia dei nostri fratelli defunti che, in comunione con noi, vivono sotto lo sguardo dell’unico pastore divino e ci incoraggiano a seguirlo perché anche noi, secondo la promessa di Cristo, possiamo avere vita in abbondanza.

III Domenica di Pasqua


Atti 2, 14.22-28
Salmo 15
1Pietro 1 17-21
Luca 24, 13-35

L’episodio che abbiamo ascoltato è uno dei più consolanti del vangelo.
Osserviamolo nel suo svolgimento, nel succedersi dei diversi momenti.
Da ciascuno di essi potrà venire a noi un richiamo, un’indicazione, una suggestione importante per il nostro cammino di fede.
Il primo elemento è quello del viaggio.
Protagonisti due discepoli di Gesù.
Di uno conosciamo anche il nome: Cleopa.
Discepoli malinconici, dalla faccia triste.
Stanno vivendo un’esperienza molto amara dopo gli eventi drammatici che hanno segnato la morte di Gesù e la fine dei loro sogni.
Forse stanno rientrando nel loro villaggio per ritrovare, lontano da Gerusalemme, un po’ di pace e di tranquillità che medicasse le ferite lasciate da un’esperienza così tormentosa.
”Avevamo sperato”: quanto sconforto c’è in questo verbo coniugato al passato!
Vien fatto di pensare a quante cose anche noi abbiamo sperato, legittimamente sperato, senza poi trovare un riscontro positivo alle nostre attese.
Sembra che la storia vada avanti facendosi beffa di chi si ostina a sperare.
Chi non ha sperato, per esempio, un tipo di politica più trasparente e più attenta al bene comune?
Chi non ha sperato in una società meno violenta, in un costume civile meno corrotto o in una convivenza più pacifica?
E per quanto riguarda la chiesa chi non ha sperato ,dopo gli anni del concilio, in una primavera della chiesa, gioiosamente aperta a tutti i fermenti evangelici che nascono dal cuore dei credenti?
La tentazione nei momenti di stanchezza, nella caduta delle speranze, è anche per noi, come per i due discepoli, quella di rientrare nelle nostre case, di chiuderci nei nostri piccoli problemi, di non guardare in faccia agli altri.
“Avevamo sperato”
“E ora si fa sera”: come è moralmente suggestiva questa parola!
Entriamo in una condizione crepuscolare, quando la luce viene meno e contorni delle cose si confondono.
Abbiamo l’impressione che l’oscurità abbia il sopravvento e cancelli la luce.
In certi momenti, come i nostri, quando si incrociano tesi opposte su ciò che è lecito e ciò cre non è lecito, su ciò che è morale e su ciò che è immorale, su ciò che salva veramente l’uomo e su ciò che lo rovina, si ha l’impressione di non saper più giudicare.
Di avere perso il metro di giudizio. Di essere continuamente esposti alla parola più scaltra, più promettente o meno inquietante.
Chi ha ragione? Vorremmo capire di più.
Soffriamo di non riuscire a capire di più.
E può essere anche che incolpiamo il Signor per questa nostra confusione.
Dove si trova il Signore, il Risorto?
Crediamo che sia ancora lui a condurre la storia?
Forse siamo nella situazione dei due discepoli che dicevano: ”Veramente delle donne sono venute a dirci che egli è vivo”.
Chissà, forse è vivo, ma è un’ipotesi remota, una diceria poco credibile,.
E non ci accorgiamo che il Signore è talmente vivo che sta percorrendo la stessa strada che facciamo noi.
Così è avvenuto per i due discepoli.
Che cosa ha fatto il Signore per liberarli dalle loro paure?
Ha compiuto gesti molto semplici, elementari, umanissimi.
Il Signore incontra gli uomini, ma non li convoca a palazzo o in chiesa.
Li incontra lungo la strada che essi stanno percorrendo.
Il Signore viene a a cercarci sulle nostre strade e noi non dobbiamo cercare il Signore altrove, abbandonando il sentiero umano.
In altre parole, non dobbiamo credere che per incontrare il Signore sia necessario appartarsi, separarsi dagli altri, innalzare stendardi come segni di riconoscimento.
Il cammino che Dio ci indica è il cammino della vita lungo il quale siamo chiamati a vivere le speranze, le angosce, le pene, i sogni degli altri.
Ed è bello osservare anche lo stile con cui Gesù accosta le persone: uno stile fatto di discrezione, di estremo rispetto, di colloquialità aperta e cordiale.
E’il dialogo che salva.
Ho trovato un testo di un autore belga (Gabriel Ringlet) intitolato: Il vangelo di um libero pensatore, e che porta come sottotitolo questa domanda: “Dio sarebbe laico?”.
Le considerazioni svolte finora ci permettono di osservare che Gesù per tanti aspetti si comporta da laico, se essere laico vuol dire amare il confronto aperto con gli altri, senza pregiudizi, ma ascoltando piuttosto domande e problemi che ciascuno può custodire lungo i percorsi della propria vita..
Vorrei chiudere questa riflessione ricordando un bellissimo aforisma che ho trovato citato in una pagina di uno scrittore francese, Michel Tournier:”Il caso è Dio che passa in incognito”.
A me pare che questa affermazione interpreti molto bene il senso del racconto che abbiamo trovato nel vangelo.
Il caso è rappresentato dall’incontro dei due discepoli con un misterioso personaggio.
Ad un certo punto capiscono che sotto le apparenze di un comune viandante si nasconde la presenza del risorto.
Da che cosa lo capiscono?
Dal fatto di sentirsi raggiunti da una parola capace di accendere i loro cuori e dai gesti della più toccante convivialità.
In altre parole, dall’esperienza di Dio, che è verità e amore.
Capita anche a noi di incontrare persone e situazioni per caso.
E può essere che da questi incontri ci rimanga nel cuore un’emozione particolare, per avere ascoltato una parola che ci ha dischiuso una verità profonda o per avere goduto del gesto inatteso di una grande amicizia.
Vuol dire che il caso era abitato dalla presenza misteriosa del Cristo pellegrino sulle nostre strade.
Tenere gli occhi fissi su di lui, come hanno fatto Cleopa e il suo compagno, ci permette di coniugare il verbo sperare non solo al passato, ma di di essere gioiosamente pieni di speranza
Per questo continueremo a sperare e a fare sperare.