mercoledì 26 novembre 2008

II Domenica di avvento

Matteo 3, 1-12
Credo che Giovanni Battista possa trovare tanti ammiratori anche oggi, pur essendo un personaggio non facile da accettare.Senza dubbio è un personaggio ruvido, aspro, tagliato, si direbbe, con l’accetta,Tra lui e Gesù la differenza è enorme.Il Battista, per convertire il mondo, fugge nel deserto, Gesù invece va a incontrare le folle nei villaggi e nelle città;il primo è un asceta nel senso tradizionale della parola, si nutre di niente, considera il mondo cattivo e l’uomo perverso, (lo immaginate il Battista a un pranzo di nozze come quello di Cana?),l’altro, Gesù, ha molte amicizie, anche con persone dalla riputazione non proprio limpida e sta volentieri a tavola tutte le volte che gode dell’ospitalità di qualcuno;il Battista sembra un profeta di sventure, mentre Gesù predica la buona notizia del regno di Dio.Sarebbero tante le ragioni per negare la nostra simpatia a Giovanni.Eppure, per certi aspetti, è una figura che suscita approvazione e ammirazione.Quali sono le ragioni per cui ottiene il consenso di molti?Anzitutto lo si ammira perché è uno che parla chiaro.In un altro passo del vangelo è detto che il Battista ricordava a ogni categoria di persone, con precisione, le responsabilità specifiche e i doveri da affrontare.Sono molti oggi a rimpiangere questa chiarezza che forse nella predicazione esisteva in passato e ora non si ritrova più.Sono persone che ai predicatori sembrano rivolgere questa richiesta:“Diteci quello che dobbiamo fare. Come il Battista. Abbiamo bisogno di sapere esattamente su che cosa saremo giudicati”.C’è un’altra ragione per cui il Battista può ottenere la simpatia di molti: è uno che ha il coraggio di metterti addosso un po’di paura.Un po’ di paura, si pensa, farebbe bene anche oggiNessuno parla più dell’inferno e le conseguenze di questa colpevole amnesia sarebbero sotto gli occhi di tutti.Questo è il pensiero di molte persone nel giudicare la figura del Battista.Queste stesse persone però andrebbero in crisi se riflettessero bene su une parola di Giovanni, detta ai farisei e ai sadducei: “Non crediate di poter dire tra voi: Abbiamo Abramo per padre.Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”.E’ come se il Battista dicesse ai farisei e ai sadducei di oggi, cioè a noi, credenti e praticanti:“Non crediate di sentirvi tranquilli soltanto perché osservate in modo scrupoloso tutte le norme rituali e morali.Se manca una vera conversione interiore, non avete diritto di proclamarvi figli di Abramo e della chiesa.. Figli di Abramo e della chiesa Dio li potrebbe far sorgere anche dai sassi e dai rovi, cioè da miscredenti e peccatori.Perché lo Spirito di Dio non si attiene ai registri parrocchiali e al diritto canonico-C’è una chiesa più vasta che soltanto lui conosce, perché è libero e soffia dove vuole”.Abbiamo cercato di definire qual è il nostro rapporto con Giovanni il battezzatore.Può essere interessante, a questo punto, immaginare quale dovesse essere il giudizio di Gesù.Che cosa pensava Gesù di questo profeta che sulle rive del Giordano attirava folle di penitenti?Gesù doveva avere una grande ammirazione, tanto che pare sia stato suo discepolo prima di farsi battezzare da lui.Certamente Gesù è rimasto impressionato dal suo vigore fisico e spirituale, dalla sua forza profetica, dalla passione e dal coraggio con cui chiamava le folle alla penitenza per prepararsi alla venuta del Messia.Anche lui, Gesù, avrebbe iniziato la predicazione riprendendo da Giovanni il tema della conversione. “Convertitevi e credete al vangelo”.C’è però, a creare un sensibile distacco dalle posizioni di Giovanni, che pure continuava ad ammirare, proprio questa parola: vangelo.Mentre Giovanni si appellava a un Dio vendicatore, Gesù si proponeva di parlare della buona notizia di un Dio misericordioso e perdonante, che accoglie tutti e a tutti offre l’attestazione del suo amore.Non vuol dire che in Gesù vengono cancellate tutte le responsabilità morali che avevano un grande rilievo nella predicazione di Giovanni.Solo che esse non sono più la condizione per incontrare Dio (Gesù non impone condizioni all’incontro), ma sono la risposta che nasce dopo aver conosciuto la sua infinita benevolenza..Anche per Gesù la conversione richiede un mutamento radicale di pensieri e di comportamentiMa sappiamo anche che la conversione, prima che una conquista nostra, è una iniziativa di Dio.All’inizio non c’è un compito da svolgere, ma l’accoglienza di un incontro.Il principio creativo di ogni vera conversione è il Signore che viene a noi con il suo immenso amore, la sua fiducia, la sua pace.In questo tempo di avvento dovremmo, come chiesa, sentire la passione di annunciare a tutti questa bella notizia.Non associamoci al coro di quanti sono sempre pronti a recriminare, a deplorare, a denunciare le debolezze e le stoltezze degli uomini.L’azione del Battista è importante, ma ancora più importante è quella di Gesù.Il vangelo è la storia meravigliosa dell’amore folle di Dio che non cessa di stupirci.“E’ inimmaginabile”siano tentati di dire.Appunto. Si tratta di qualcosa che mai avremmo potuto immaginareE’da questo stupore che nasce la conversione.Si può anzi dire che la misura del nostro stupore segna anche la misura della nostra conversione.

Tutti i santi

Apocalisse 7, 2-4.9-14
Salmo 231
Giovanni 3, 1-3
Matteo 5, 1-12

Perché questa festa è molto sentita e molto amata?Anzitutto perché ci parla di beatitudine, di una gioia piena, di una felicità incommensurabile.Noi siamo tutti mendicanti di gioia.Questo anelito è la ragione del nostro esistere.Anche chi sceglie un percorso sbagliato, dimostra comunque di essere mosso da questo anelito che, se rimane inappagato, è motivo di grande sofferenza.Ecco perché oggi ascoltiamo il discorso delle beatitudini con particolare commozione.Qui c’è l’annuncio di una possibile felicità.Ed è un annuncio ben diverso da quello che ci viene dispensato dai soliti imbonitori alla moda che promettono l’impossibile facendo leva sulla nostra credulità.Qui l’annuncio viene da molto lontano, ha attraversato i secoli e si presenta senza orpelli o lustrini accattivanti.Anzi ha il coraggio di coniugare paradossalmente felicità e povertà, felicità e lacrime, felicità e persecuzioni.Ma il cuore deluso da tante proposte ingannevoli si fa attento a questo annuncio.Se fosse vero che è vangelo, cioè la buona notizia tanto attesa e invocata?C’è una seconda ragione che ci porta ad amare questa festa.E’ la memoria dei santi.I santi sono vangelo vissuto, vangelo incarnato.Il vangelo non è una dottrina o una teoria.Noi purtroppo ne abbiamo fatto una teoria, una dottrina da acquisire, da difendere, da esibire in certe occasioni.Che tristezza quando il vangelo viene usato strumentalmente per difendere la civiltà occidentale contro altre forme di civiltà, oppure per stabilire un codice di comportamento in questa nostra società che ha visto frantumarsi le certezze del passato.Ora il vangelo è soprattutto un modo nuovo di essere, di vivere.Questo ci ricordano oggi i santi. Loro il vangelo non lo hanno semplicemente conosciuto, commentato, posseduto come una verità religiosa, ma lo hanno incarnato. Sono diventati vangelo nei loro gesti, nei loro sorrisi e nelle loro lacrime, nella loro capacità di amare e di sperare.Sono diventati vangelo perché hanno conosciuto la gioia.Immaginare un santo triste è impossibile.Vorrebbe dire immaginare un santo che non abbia conosciuto Dio, che non sia entrato in rapporto con GesùLe beatitudini infatti, prima che un codice di comportamenti, sono l’immagine del nostro Dio, sono il volto di Cristo.Ma c’è un terzo motivo per amare questa festa.Essa ci porta a contemplare la moltitudine immensa dei santi.La prima lettura, presa dall’Apocalisse, si parla di 144.000 eletti, segnati con il sigillo che, come è facile immaginare, è quello della croce.144.000: sono tanti? sono pochi?È certo che non si tratta di un numero riduttivo, come se indicasse una minoranza rispetto alla massa, ma di un numero che evoca l’universalità.144.000 è infatti il risultato di 12 x 12 x 1000.Se è vero che nella cultura ebraica il numero 12 era il simbolo della pienezza, qui abbiamo la pienezza moltiplicata per la pienezza moltiplicata per mille.Che si tratti di un richiamo all’universalità è confermato anche dal fatto che poi si parla di una folla immensa che nessuno avrebbe potuto contare, di tutte le razze, nazioni, popoli e lingue.I santi dunque non sono soltanto un numero incalcolabile, ma nella visione dell’Apocalisse formano una grande famiglia, una comunione di intenti e di sentimenti, una coralità.Tra parentesi: io rimpiango le litanie dei santi di una volta, lunghe, interminabili, con tanti nomi strani, presi da chissà quale almanacco.Rimpiango queste litanie perché, a differenza di quelle di oggi, davano il senso della coralità.Se questa folla di santi ci parlasse oggi ad una voce sola, che cosa ci direbbe?Non ci parlerebbero né di miracoli né di congregazioni religiose da essi fondate né di altre cose che occupano tanto spazio nelle biografie dei santi.Io penso che canterebbero in coro il discorso delle beatitudini.Parlerebbero cioè della santità non come il frutto di un impegno volontaristico riservato a pochi eletti, a certe persone superdotate nella pratica dell’ascesi, ma ne parlerebbero con accenti tali da renderla amabile e contagiosa.Che cosa è la santità?È povertà che diventa pienezza.È l’offerta di due mani cave in attesa di essere colmate.È invocazione che attende di essere esaudita.C’è una parola di Gesù che dice a Santa Caterina da Siena: «Fatti capacità, io mi farò torrente».Dove c’è il vuoto, lì si rivela la prodigalità di Dio.La santità è un fatto di stupore nel vedere che il proprio vuoto è colmato dalla sovrabbondanza dell’amore di Dio che si riversa in noi sotto forma di benedizione, di fiducia, di perdono, di incoraggiamento a coltivare il gusto della vita.Per questo, nella folla dei santi onorati oggi dalla chiesa possiamo ricordare anche la presenza di santi anonimi, che mai arriveranno agli onori dell’altare.E possiamo immaginare anche qualche persona che abbiamo conosciuto, qualcuno della nostra famiglia o dei nostri amici.Potremmo – dovremmo - immaginare anche noi nel numero dei 144.000 raccolti un giorno attorno a Gesù a celebrare il miracolo di una povertà trasformata in pienezza nella piena rivelazione di quella parola che c’è in Giovanni: «Fratelli, …»

Commemorazione di tutti i defunti


Parleremo della morte e parleremo dei nostri morti.
Con molta sobrietà, quasi con una sorta di pudore, come si conviene quando si toccano argomenti che superano di molto le nostre conoscenze e coinvolgono troppo la nostra emotività.
Della morte la saggezza umana ha detto tutto quello che è possibile dire.
Ma noi vogliamo metterci nella prospettiva della fede.
La morte non è solo una porta che si chiude, ma è anche una porta che si apre.
Non è solo una fine, ma un inizio.
La morte, come dicevano i primi cristiani, è il dies natalis, il giorno della nuova nascita.
C’è nn’altra immagine che di solito viene richiamata quando si riflette sul vivere e il morire.
Si pensa all’esistenza come fosse un libro. Cosa rappresenta la vita di quaggiù?
Per molti rappresenta la storia principale del libro, mentre la vita futura, sempre che esista, sarebbe solo un’appendice.
Per il vero credente le cose stanno diversamente.
Questa vita è solo una prefazione che introduce nella storia principale.
Su che cosa si regge questa convinzione?
Sul fatto che Dio, attraverso la morte e la risurrezione di Cristo, ha forzato le porte della morte e si rivelato come amante della vita.
E’ bene che ancora una volta ci diciamo con chiarezza e con forza che Dio non vuole la morte.
Io non riesco a comprendere come, in certe partecipazioni funebri, si possano scrivere ancora parole come queste: “Dio ce lo ha dato, Dio ce lo ha tolto”.
Non è Dio che riprende la vita di quelli che amiamo.
Al contrario Dio è la forza che fin dalle origini del tempo lotta contro la morte.
E il Cristo, risuscitato dai morti, chiama i cristiani a condividere la sua risurrezione.
Come confessiamo nel Credo, noi attendiamo “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.
Perciò il nostro rapporto con la morte, per quanto possa essere per molti aspetti lacerante, custodisce in sé questo segreto: noi andiamo verso la vita, noi ci prepariamo a una pienezza di vita.
Questa vita, è vero, noi non siamo in grado di immaginarla..
Come un bambino, ancora nel grembo della madre, non sa che cosa voglia dire uscire da quella condizione, così noi ci troviamo in una condizione analoga, in attesa del dies natalis, della nuova nascita.
Che cosa possiamo sapere?
Ci basti sapere, come ci è stato rivelato, che noi saremo nel cuore della vita di Dio, respireremo nel’amore di Dio, godremo della tenerezza riservata a ciascuno di noi.
Perciò ora, dentro l’angoscia che il pensiero della morte non manca di procurare, c’è spazio anche per una profonda pace.
E’ quella pace di cui ha parlato anche il vecchio Simeone: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola”.
E’quella pace che un popolo pigmeo, sepolto nel cuore dell’Africa equatoriale, ha espresso in un canto in cui si dice:
“Che cosa è la morte?
La morte è dire al Padre. Eccomi!”.
Fossimo capaci di coltivare la memoria mortis con questo spirito, di rinnovarla tutte le volte che ci inoltriamo nella notte, che ci affidiamo al sonno che con la notte è immagine della morte:
vuol dire consegnare la propria vita nelle mani del Signore, mani buone, mani calde di tenerezza e di benevolenza.
E’ quello che un poeta catalano, Joan Maragall, ha voluto esprimere in una sua poesia in forma di preghiera:
“E quando verrà l’ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani
aprimene, Signore, altri più grandi
e la morte mi sia un più grande nascere”.
Dopo questa riflessione sulla morte, che cosa possiamo dire dei nostri morti?
Anzitutto che sono vivi, non solo perché vivono nella nostra memoria e nel nostro affetto, ma perché respirano associati all’eterno respiro di Dio.
Che i morti siano vivi dentro di noi, può essere un’esperienza che si rinnova facilmente in diversi momenti delle nostre giornate: il loro ricordo ci accompagna; il meglio di quello che hanno vissuto resta in noi come un fermento vitale; ci sembra, a volte, di conoscerli più di quando erano con noi.
Ma noi parliamo del loro essere vivi in altro modo: vivi perché viventi in Dio, vivi al punto che, parlando con loro, non dovremmo mai usare i verbi al passato, ma al presente.
E poiché siamo tutti uniti in Cristo a formare un’unica famiglia e tutti posiamo ritrovarci attorno all’altare di Dio, è possibile comunicare con loro oltre la frontiera dell’invisibile.
Possiamo perciò dire loro quel grazie che non abbiamo saputo dire o dissipare quel malinteso che la morte ci ha impedito di sciogliere o domandare quel perdono che non si è avuto il tempo di chiedere.
A volte questi problemi irrisolti sono motivo di profondo malessere.
Può capitare di rimandare la rappacificazione con qualche amico e di dover rimpiangere, una volta sopraggiunta la morte, l’occasione perduta: “Ormai – si pensa – è troppo tardi. Non c’è più niente da fare”.
In realtà la possibilità rimane perché con i nostri morti c’è un dialogo sempre aperto che ci permette di cancellare le ombre del passato…
Questo perciò è un momento di profonda pace se riusciamo a vedere la morte come un passaggio verso quella pienezza di vita che ci è stata promessa da Cristo e a capire che i nostri morti sono vivi, uniti a noi in un rapporto di trepida e sollecita collaborazione per realizzare insieme il grande sogno di Dio: di poterci accogliere tutti nella sua dimora come figli benedetti dal suo amore infinito.

sabato 8 novembre 2008

Cristo re


Ezechiele 34, 11-12. 15-17
Salmo 22
1 Corinzi 15, 20-26.28
Matteo 25, 31-46

La parola regno allude al potere.
E questo potere noi sappiamo a chi appartiene.
Di certi personaggi potenti che dominano sulla scena politica sarebbe facile fare i nomi, richiamare i volti, delineare per sommi tratti la storia della loro inarrestabile ascesa.
Tra questi alcuni li ammiriamo, altri li odiamo: rimane comunque il fatto che nella considerazione comune rappresentano il vertice della grandezza dal punto di vista umano.
Ma c’è una verità nascosta che porta a capire come il potere dei grandi della terra non abbia niente di assoluto.
Del resto, per esserne persuasi, basterebbe pensare alla morte.
La morte è il massimo dell’ingiustizia, ma al tempo stesso è il massimo della giustizia, perché pareggia le sorti di tutti, piccoli e grandi.
E’un’idea, questa, che è stata efficacemente illustrata nelle cosiddette danze macabre dove il corteo, in cui ciascuno dei personaggi si muove avendo la morte al fianco, è aperto solitamente dalle massime autorità civili e religiose.
Oggi però dalla liturgia ci viene presentato qualcuno la cui forza è più forte della morte stessa.
La verità è questa: la pienezza della regalità appartiene a Cristo.
E’ lui che ha il potere di vincere la morte.
E’ lui che riconsegna al Padre un’umanità completamente rinnovata.
Ma per capire meglio quale forza liberante abbia questa verità, bisogna pensare che la signoria di Cristo non è destinata a rivelarsi solo dopo la signoria degli uomini, come se ci fossero due grandi stagioni, quella degli uomini, che stiamo vivendo, a cui seguirà quella di Cristo.
Se così fosse, dovremmo rassegnarci a subire l’arroganza, la prepotenza, la cialtroneria di certi poteri con l’unica consolazione che dopo verrà il regno di Dio.
Va detto invece con molta forza che il regno di Dio è già all’interno della storia che stiamo vivendo.
Dove si afferma oggi questa signoria di Cristo?
Ci hanno educati a pensare che deve essere riconosciuta soprattutto là dove ci sono le grandi manifestazioni religiose, con folle osannanti (chi ha una certa età può ricordare ancora il pathos che si provava nel cantare a voce spiegata Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat).
Questa prospettiva nelle parole di Gesù viene completamente rovesciata.
Gesù rivela la sua regalità nei poveri e il suo regno cresce attraverso i piccoli gesti di bontà.
Fermiamo l’attenzione su qualche aspetto rilevante di questa rivelazione, così ricca di suggestioni di ordine morale e spirituale.
Si narra in certe leggende che un re, volendo conoscere i sentimenti dei sudditi nei suoi confronti, si traveste da mercante e, senza farsi riconoscere, attraversa in lungo e in largo il suo regno facendo tesoro di tutto quello che osserva e ascolta.
Una lettura superficiale di questa pagina di Matteo potrebbe indurci a pensare che Gesù si comporta
come il re di una di queste leggende.
In realtà Gesù non si limita a travestirsi da povero, da malato, da prigioniero, da straniero, ma si identifica pienamente con ciascuno di essi.
Non dice infatti: “Essi hanno avuto fame, hanno avuto sete,….” ma “Io ho avuto fame, ho avuto sete…”
Questo significa che la signoria di Cristo non sta dalla parte del potere. ma dalla parte di coloro che sono emarginati dal potere.
Sono i poveri che, uniti a Cristo, giudicano il mondo.
E sono anche coloro – è un’altra indicazione importante del racconto di Matteo – che si dimostrano capaci di compiere gesti di pietà a favore dei poveri.
‘Penso in particolare a quelli che non si limitano a dare l’elemosina, ma sono dalla parte dei poveri quando si tratta di difendere il loro posto di lavoro,, di denunciare le ingiustizie, di protestare contro coloro che assegnano il primato alle leggi del mercato invece che ai diritti della persona.
Non importa che essi non riconoscano il volto di Gesù.
Importa solo il fare concreto nel segno della pietà.
Perché è certo che esso raggiunge comunque il Signore.
D’altra parte c’è un modo di agire che rinnega non formalmente, ma concretamente la regalità di Cristo.
Se non ti metti dalla parte dei poveri, non incontri il Cristo.
O meglio lo incontri e lo ignori.
La colpa non consiste nel fare determinate cose sbagliate, ma nel non farne altre (un tempo si parlava di peccati di omissione) secondo la legge dell’amore.
E’’ un discorso, questo, che giudica le coscienze, le ideologie, i partiti, le politiche nazionali e internazionali.
Sì, è anche questione di scelte politiche, perché è importante, per esempio, visitare i malati, ma è altrettanto se non più importante fare in modo che ci sia un sistema di assistenza pubblica che sia al servizio di tutti e non penalizzzi i più deboli, come spesso avviene.
E’ certo che per appartenere a Cristo non bastano gli atti di culto, le pratiche religiose, le devozioni personali.
Tu puoi anche passare un’ora in adorazione davanti al santissimo sacramento esposto sull’altare, ma se non ti inginocchi davanti al fratello che soffre, che è l’ostensorio più vicino della presenza di Cristo, tu non appartieni a Cristo..
Un giorno ad attenderci ci sarà una duplice forma di stupore.
“Quando mai ti abbiamo visto…?” diranno quelli alla sua destra.
“Quando mai ti abbiamo visto….?”diranno quelli alla sua sinistra.
Preghiamo perché ci sia dato di conoscere lo stupore benedetto dal Signore, lo stupore che salva.