venerdì 16 gennaio 2009

II dopo l'Epifania


Giovanni 2, 1-11

A Cana – ci dice il vangelo – Gesù manifestò la sua gloria.
Dove si rende visibile la gloria di Dio?
Si manifesta in occasione di un pranzo di nozze, nel fervore di una festa chiassosa, smodata, eccessiva come succedeva normalmente in quei tempi quando si celebrava un matrimonio
E’lì che Gesù, secondo Giovanni, ha compiuto il suo primo miracolo convertendo l’acqua in vino.
Ma il miracolo più sorprendente è stato quello d’aver fatto capire che Dio non solo non è geloso della gioia degli uomini, ma anzi la favorisce e la condivide.
La gloria di Dio è che l’uomo viva, dirà S. Ireneo.
Purtroppo sulla nostra religione pesa sempre questo sospetto: che sia una religione avara di gioia.
A certi giovani che ancora pensano a un cristianesimo fatto solo di doveri, divieti tabù e noia, tanta noia ( la colpa è soprattutto nostra, di noi adulti che abbiamo trasmesso loro questa impressione) verrebbe voglia di chiedere: “Avete mai letto il racconto del miracolo di Cana?
Perché guardate alle giare piene di acqua (era l’acqua che serviva per le abluzioni rituali, segno quindi di un formalismo religioso che voi condannate) e non vedete che ora sono piene del vino di una gioia sovrabbondante?”
Cerchiamo di entrare anche noi oggi nella vitalità di questa festa per vederne le diverse espressioni che Geù ha benedetto con la sua presenza.
La parola piacere, nel vocabolario cristiano, è vista ancora con sospetto: sembra evocare infatti qualcosa di disordinato o di troppo istintivo, soprattutto nella sfera della sessualità.
Ma il piacere non merita tutta questa diffidenza.
Il piacere esprime un consenso a tutto ciò che è al servizio della vita.
Chi avrebbe il coraggio di riprendere ogni mattina le stesse faticose incombenze se non ci fosse anche la speranza di poter assaporare le cose buone che la vita può offrire?
Qualcuno potrà dire che questo è un discorso troppo umano.
Ma non bisogna dimenticare che il cristianesimo è la religione di un Dio che si è fatto uomo e che pertanto condivide tutto ciò che è costitutivo del nostro essere.
Ritorniamo al pranzo di Cana dove c’è una sovrabbondanza di piaceri semplici e naturali, che sono goduti come segno della amabilità del nostro Dio.
Un piacere è senza dubbio quello offerto dal vino che da Noè in poi è la creatura più celebrata nella Bibbia.
“Che vita è quella di chi è privato del vino?”si legge nel libro del Siracide (31, 27).
E motivo di godimento – sempre nel corso di questo pranzo di nozze - è poter fare un confronto tra un vino e l’altro e dir poi allo sposo: “Però, sei stato davvero bravo!
Ci hai fatto una bella sorpresa riservando il vino più pregiato alla fine”.
Dobbiamo dunque avere il coraggio di pensare e di affermare che quando si parla di piacere Dio non è lontano.
Ma il piacere, che in sè è cosa buona, appartiene pur sempre all’ordine del provvisorio e dell’effimero per cui qualcuno è costretto a dire: “Non hanno più vino”.
A un livello superiore si pone la felicità che nel vangelo è rappresentata dalla festa di nozze e dal godimento dell’amicizia.
La felicità è più del piacere.
Una persona che dice:“Voglio essere felice” non invoca solo un appagamento dei sensi, ma un benessere profondo, un’armonia interiore, un calore che nasce dall’esperienza dell’amicizia.
Però anche la felicità si rivela fragile.
Che si possa vivere felici e contenti per tutta la vita si legge solo nelle favole.
C’è invece una felicità che può resistere a ogni forma di usura, e si chiama gioia.
Il vangelo di oggi celebra soprattutto la gioia.
La gioia trova la sua ragione più profonda nella presenza di Gesù, il quale fa sentire e rende visibile l’amore del Padre.
Che cosa conta di più nella vita?
E’ sapere che Dio ci ama.
A darci questo vino generoso è venuto Gesù.
E’ lui il vero sposo delle nozze di Cana.
E’ lui al centro del racconto.
”Venite, venite! È Dio che si sposa” scrive un autore francese, Jean Debruynne, commentando questo racconto.
Il vino ch’egli ci serve bisogna consumarlo senza moderazione, perché viene a placare quella sete di amore che da sempre ci fa soffrire.
Che cosa fare per godere di questa gioia?
“Fate tutto quello che egli vi dirà” ci dice la madre di Gesù.
La gioia sta nel credere che tutto quello che il Signore ci dirà avrà una tonalità nuziale, come una parola che venga da un cuore innamorato.
E il Signore, parlando della sua “ora” ( allude all’ora in cui avrebbe offerto il vino del banchetto ultimo, il sangue versato per amore) ci fa capire che la gioia è strettamente legata alla capacità di donare.
E la gioia cresce se ci si mette al servizio della gioia dei fratelli.
E’ significativo il fatto che i primi e forse gli unici testimoni del miracolo siano stati gli umili addetti al servizio della tavola.
Chi può accogliere l’invito di Gesù?
E’un invito che richiede molta docilità interiore come quella di Maria che all’angelo aveva detto: “Si faccia di me secondo la tua parola”o, quanto meno, quella capacità di auscultazione del proprio cuore che appartiene ai grandi poeti come Tagore il quale ha scritto::
“Dormivo e sognavo che la vita non fosse altro che gioia.
Mi svegliai e vidi che la vita non era altro che servizio.
Mi misi a servire e capii che il servizio era la gioia”.

lunedì 5 gennaio 2009

Solennità dell'Epifania

Matteo 2,1 - 12

Che cosa rappresenta per noi l’Epifania?
Ne abbiamo fatto la leggenda di un viaggio favoloso, da collocare in una cornice di folclore.
Bisogna restituire all’epifania, almeno all’interno di una celebrazione liturgica, la sua densità teologica e salvifica.
Per questo è necessario aprirsi allo stupore rileggendo con attenzione il testo di Matteo.
Lo scenario evocato dal racconto ha dimensioni cosmiche tanto è vasto non solo in estensione ma anche in altezza.
Comprende infatti il limite estremo del mondo (“venuti dall’Oriente” si dice dei Magi) e la sommità più alta del cielo, là dove si affacciano le stelle.
E vasto è pure lo scenario di ordine storico, con la presenza di una città, Gerusalemme, carica di memorie e con il rimando alle scritture in cui sono custoditi secoli di tradizioni religiose.
Questo vasto, immenso scenario ha un punto unificante, che vale cioè come centro di attrazione e di convergenza di tutti gli elementi che abbiamo richiamato.
Questo centro non è né in alto né in oriente e neppure a Gerusalemme.
Il centro di tutto ciò che esiste è Betlemme:”E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda”.
Che senso hanno gli astri e i pianeti su cui un giorno si è interrogato il grande Leopardi: “Che fai tu, luna, in ciel?”?
Che senso hanno le scienze astronomiche e quelle religiose?
E le ricerche smaniose degli uomini che scrutano i cieli e scrutano i libri?
Ci sono tante luci disseminate nel mondo, ma la luce vera, il vero Oriente, è quel bambino che è nato a Betlemme.
Dio si è rivelato e come luogo rivelativo per tutta l’umanità, per gli uomini dell’Oriente e dell’Occidente, per le persone colte e per quelle semplici, ha scelto l’umile condizione di un neonato.
Questo è il messaggio teologico dell’Epifania.
Insieme a questo messaggio, l’Epifania ne esprime un altro che riguarda le nostre risposte, cioè il cammino per arrivare fino a Gesù.
A questo proposito, bisogna considerare come esemplare e normativo il comportamento dei Magi e, prima ancora, quello della stella..
“E le stelle stanno a guardare” aveva detto anni fa uno scrittore denunciando l’impassibilità del cielo nei confronti di tutto ciò che vivono e soffrono gli uomini.
Ma le stelle, ci dice oggi Matteo, non sono impassibili: sono vivaci, partecipi, in movimento, docili a quella gravitazione che viene esercitata dal mistero di Betlemme.
Nel solco luminoso tracciato da una stella si muovono gli uomini venuti dall’Oriente, modellando la loro docilità sulla docilità della stella che li guida.
E’ una docilità a quell’attrazione misteriosa che da Betlemme si è trasmessa alla stella e dalla stella al loro cuore.
I magi diventano perciò dei cercatori dell’assoluto, uomini delle lunghe distanze e delle pazienti interrogazioni, sempre pronti a interpretare ogni segno della creazione e il volto di ogni viandante.
I Magi sono quello che noi non siamo capaci di essere.
Abbiamo davanti una lunga teoria di persone – e tra queste possiamo essere anche noi – che non ha più domande da fare, ma solo risposte da dare, certezze da affermare, con una perentorietà che non ammette obiezioni.
E’ gente che non legge e non pensa, non ama il silenzio e non prega.
Gente che possiede quel piccolo sapere specialistico che riempie di presunzione e non sa mettersi in sintonia con la verità più vasta e più profonda, quella che brilla nella luce di una stella o negli occhi di un bambino.
Ma torniamo ai Magi.
A me piace immaginarli con grandi occhi, occhi dilatati, capaci di vedere anche nella notte, occhi come di uccelli notturni.
Sapete che la civetta è l’animale simbolo dei monaci, degli uomini cioè amanti delle solitudini, capaci di vedere nelle tenebre l’approssimarsi dell’aurora..
Ma i Magi, nonostante i loro grandi occhi, non sarebbero ancora riusciti a vedere nell’oscurità di Betlemme se il loro guardare e interrogare non fosse stato accompagnato da altri gesti.
“Prostratisi, lo adorarono” dice il vangelo.
E poi offrirono doni.
La lezione è trasparente.
Una sapienza senza amore, che luce potrebbe dare?
La sapienza che permette di vedere è solo quella che si nutre di umiltà e di tenerezza.
Gli occhi vedono solo se il cuore è capace di amare.
Chi è capace di vedere la luce fino a contemplare la luce vera che illumina ogni uomo?
Chi è capace di servire, di abbassarsi di fronte ad ogni creatura che soffre, fosse pure un piccolo animale.
I Magi, davanti a Gesù, si sono abbassati in un gesto di donazione e di offerta.
Si sono fatti piccoli, sulla misura del bambino.
E da quel momento – c’è da crederlo - hanno avuto l’impressione di essere sollevati: sollevati dalla oscurità di tante domande senza risposta, sollevati dalla paura per i tanti Erode che ci sono nel mondo, sollevati dalla schiavitù delle cose che catturano lo spirito.
Ritornando nella loro regione non avrebbero più trovato, a guidarli, una stella, ma la luce oramai la portavano dentro, dopo aver contemplato il bambino.
Se abbiamo celebrato bene questo Natale per aver cercato la verità e interrogato la parola di Dio e, soprattutto, per avere scelto di abbassare il nostro orgoglio e il nostro egoismo davanti a qualche piccolo, immagine viva del piccolo di Betlemme, anche noi questa luce la custodiremo dentro come un dono prezioso.
E che il Signore ce la conservi sempre, anche nei giorni difficili.

Domenica dopo l'ottava di Natale


Luca 4, 14-22

Non abbiamo ancora celebrato la solennità dell’epifania e già la liturgia ci distoglie dall’immagine del bambino Gesù.
Ce lo presenta infatti non più come infante, cioè come un essere che non parla (tale è il senso primo della parola infante), ma come profeta, come uno che parla in nome di Dio, consapevole della missione che gli è stata affidata.
Ma lo strappo, se così si può dire, è solo apparente.
Perché, come avremo modo di sottolineare nel corso di questa riflessione, sono molte le affinità che avvicinano questo racconto al vangelo dell’infanzia che ci è stato dato dallo stesso evangelista, Luca.
Già è significativo il fatto che Luca faccia partire la missione pubblica di Gesù da Nazaret, da questa terra di nessuno che aveva fama di non sapere produrre nulla di buono.
Contrariamente agli uomini di potere, Gesù non cerca un luogo prestigioso, un luogo che oggi potremmo chiamare mediatico, per lanciare il suo messaggio.
Come non vedere una certa parentela di significato nella scelta di Betlemme per nascere e di Nazaret per iniziare la sua missione profetica?
Ma seguiamo ora Gesù a Nazaret.
Siamo nella sinagoga.
La sinagoga dl villaggio era un modesto luogo di preghiera e di ascolto della parola di Dio.
Gli occhi di tutti sono fissi su di lui.
Il momento è solenne.
Gesù fa scorrere il rotolo del profeta Isaia..
Si sa, dai manoscritti scoperti a Qumran, che il profeta Isaia era uno dei più utilizzati al tempo di Gesù.
Il manoscritto più antico del mondo è precisamente un rotolo di pergamena (trovato non molti anni ani fa in una grotta a Qumran e conservato ora nel museo del libro di Gerusalemme) sul quale è riprodotto a mano proprio il testo di Isaia.
Si può immaginare la commozione dei presenti nell’ascoltare parole così ricche di fiducia e di speranza.
Vien fatto di pensare alla commozione dei pastori quando furono i primi a ricevere dagli angeli l’annuncio della salvezza che Dio aveva preparato per il suo popolo.
Il vangelo, non va dimenticato, è un lieto annuncio soprattutto per la povera gente e per tutti coloro che si riconoscono poveri e vanno mendicando con umile cuore un senso alto del vivere.
Gesù lascia cadere lentamente le sue parole, facendo proprio il linguaggio del profeta.
C’è una parola buona per tutti i poveri, c’è una liberazione per tutti i prigionieri, c’è una luce nuova per gli occhi di coloro che sono rimasti ciechi.
C’è da piangere di commozione seguendo le parole con cui Gesù preannuncia un anno di grazia del Signore.
Ma l’omelia di Gesù ottiene, diremmo oggi, il picco di ascolto quando Gesù osa dire : “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”.
Oggi il compimento delle promesse si avvera.
Luca usa dodici volte nel suo vangelo questo misterioso e solenne oggi, da “Oggi vi è nato un Salvatore”, a Natale” a “Oggi sarai con me in paradiso”, sulla croce.
Gesù è l’oggi di Dio.
In lui si concentra tutta l’avventura degli uomini con Dio.
Con Gesù la buona novella non è più soltanto una promessa: è forza e luce che possono cambiare già da oggi la nostra vita.
Ma per noi che leggiamo la parola di Dio da molto tempo, sembra talvolta che sia sempre la stessa cosa: non cambia niente.
Non è forse questa del resto l’impressione di tanti giovani usciti da famiglie cristiane, i quali si tengono lontano dalla chiesa perché ritengono che ci sia un clima di chiusura che impedisce di vivere pienamente?
Fortunatamente ci è dato lo Spirito che ci riscatta da questa rassegnata passività.
Anche per Gesù, nel vangelo di Luca, è lo Spirito la sorgente delle sue ispirazioni e delle sue decisioni.
È lo Spirito Santo che lo porta a Nazaret, nella sinagoga, per cui può dire con le parole del profeta: “Lo Spirito è su di me”.
Perciò dovremmo pregare lo Spirito Santo dicendo:”Apri le nostre orecchie per ascoltare la voce di Gesù. Apri il nostro cuore alla sua parola vivente”.
Se leggessimo il vangelo come un giovane legge la lettera della propria fidanzata (l’immagine è di Kierkegaard), quali lezioni di vita ci verrebbero date dal vangelo di oggi?
Si parlava dell’oggi di Dio, di quel tempo di grazia annunciato da Gesù, che però non trova riscontri concreti nella esperienza che abbiamo di tutti i giorni.
I poveri continuano a rimanere oppressi dalla loro condizione rattristante e perfino disperante.
Sarebbe stata dunque, quella di Gesù, una promessa vana e ingannevole?
Ma forse siamo noi, i discepoli, colpevoli di non realizzare la profezia di Gesù.
ll card. Martini nel suo ultimo libro ci ha ricordato che “nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo in diversi modi tutti gli uomini”.
E noi che cosa facciamo per liberare i nostri fratelli che hanno bisogno della nostra solidarietà?
Facciamo poco o nulla, quando addirittura non ci mettiamo a criticare i vescovi più coraggiosi, tra cui il nostro, colpevoli unicamente di richiamare alla nostra coscienza le responsabilità che nascono dalla nostra appartenenza a Cristo.
E c’è una seconda indicazione di percorso suggerita dal vangelo.
Quando parliamo di buona novella, dovremmo sempre saper accendere i cuori con parole che abbiano dentro una vibrazione gioiosa , mentre tante volte non ci accorgiamo di indugiare con una certa indulgenza su frasi amare, su una rattristante e deprimente denuncia del male.
Se si confronta il testo di Isaia citato da Gesù con la pagina da cui è tratto, si rimane sorpresi nel vedere che manca la parte finale, dove si parla di “un giorno di vendetta del nostro Dio”.
Sarebbe bello pensare che Gesù abbia intenzionalmente “censurato” il testo perché l‘annuncio della salvezza fosse totale, senza riserve di alcun genere.
Se saremo capaci di non mortificare le parole meravigliose che Gesù ha pronunciato all’inizio della sua vita pubblica e di dare visibilità all’anno di grazia annunciato dal Signore, potremo essere testimoni dell’oggi di Dio, di quel Dio che si è fatto uomo per essere pienamente solidale con la nostra condizione di mendicanti alla ricerca di una possibile salvezza.