domenica 8 novembre 2009

II domenica dopo la dedicazione

Luca 14, 1a.15-24


Ci saremmo aspettati la liturgia della solennità di tutti i santi.

Avremmo riascoltato, con profonda commozione, l’annuncio delle beatitudini, che troviamo nel testo di Matteo.

E invece, per ragioni che non è il caso di volere esplorare, gli operatori della recente riforma liturgica che ha dato vita al nuovo rito ambrosiano, ci hanno fatto celebrare ieri la solennità di tutti i santi assegnando a questa domenica la liturgia del tempo ordinario.

Ma la festa di tutti i santi è troppo importante perché non se ne debba fare parola nel giorno che per lunga tradizione è ad essa dedicato.

“Mi aggirerò per tutta la vita nei paraggi dei santi”: ha scritto un grande pensatore del nostro tempo, Cioran, che si definiva non credente.

Perché questa festa esercita un fascino particolare anche su chi non crede?

Tra le tante ragioni che potrebbero essere richiamate, a me pare che una in particolare meriti tutta la nostra attenzione.

In un tempo (è il nostro) in cui tutte le vie tentate per conquistare la felicità si sono rivelate ingannevoli e derisorie, soprattutto quelle dai percorsi moralmente spericolati, può nascere un’interrogazione che racchiude un sospetto e insieme una speranza.

“Visto che la felicità non appartiene né a chi è ricco né a chi è potente, né al superuomo né al libertino gaudente, non potrebbe essere – ecco l’interrogazione – che l’unica persona felice sia il santo?

Di felicità parlano le beatitudini come pure la parabola che abbiamo trovato nel vangelo dove la felicità viene rappresentata con l’immagine di una grande cena e tutto il racconto è introdotto da un’altra beatitudine: “Beato chi prenderà parte al banchetto nel regno di Dio”.

E’ importante perciò “aggirarsi nei paraggi dei santi”, osservarli da vicino, spiarli nel loro modo di vivere, cercare di carpire il loro segreto, cioè la formula, se così si può dire, del loro essere beati.

Che cosa possiamo osservare?

Che i santi non sono dei superuomini.

Se la chiesa fosse fatta di gente perfetta, chi avrebbe il coraggio di entrarvi?

E’ quello che si domandava Bernanos: vi resteremmo davanti come un contadino, che si rigira tra le mani il cappello, prima di farsi ricevere dai ricchi signori.

Fortunatamente per noi, i santi hanno i loro difetti.

A questo modo li sentiamo più vicini, più umani, più frequentabili.

Non ha senso perciò dire (qualcuno l’ha detto) che è più difficile vivere accanto a un santo che diventarlo personalmente.

Perché la santità, se è vera, è umile e accogliente nei confronti di tutti.

La santità è umile, perché non è una conquista dell’uomo.

Ci sono, per esempio, carriere che sono costruite con un preciso impegno e con il concorso di circostanze favorevoli.

La santità non si costruisce, ma si accoglie.

Il principio della santità non è infatti nell’uomo, ma in Dio.

Santo è colui che si lascia educare dalla sua parola, si lascia plasmare dal suo amore, riconoscendo di essere povero e di dovere tutto all’amore del Padre.

Bisognerebbe che fossimo capaci di dire: “Da me stesso non ho nulla, nulla che possa appagare veramente il mio cuore.

La mia più grande gioia è quella di sapere e di sentire che in ogni momento della mia vita sono amato da Dio con una tenerezza indicibile. Che Dio mi chiama con il mio nome e mi incoraggia, anche quando sono io a non amarmi, perché provo vergogna delle mie colpe o sono avvilito da troppe paure.

Ho fiducia: sono nelle mani del Padre.

E proprio perché l’amore del Padre è tutto per me, sono pronto a fare della mia vita un dono continuo”.

Ecco chi sono i santi.

Potremmo aggiungere: sono le tracce visibili dell’amore invisibile di Dio.

Proprio perché queste persone si sentono amate, senza alcun merito, trovano dentro di sé una disposizione, per così dire, naturale ad amare. E’ un amore che si traduce in premura, in comprensione, in mitezza, in misericordia.

A volte si rimane rattristati quando si ha l’impressione di vivere in un mondo arido, cinico, senza pietà, ma se si è più attenti si scopre un mondo sommerso dove circola la bontà più genuina, quella che non si mette mai in vista e che si esprime con la più grande naturalezza coniugandosi a volte con il sorriso, ma anche con un po’ di autoironia e di umorismo.

Oggi è la festa soprattutto dei santi anonimi nascosti in mezzo a noi.

Non è sempre facile riconoscerli, perché la santità autentica ama la discrezione, il nascondimento, l’umiltà.

Perciò non cerchiamo i santi dove l’aureola è già pronta.

Affidiamoci, nel cercarli, all’intuizione del cuore, a quell’improvviso sussulto, fatto di stupore e di gioia, che ci può procurare un volto, una parola, un gesto complice, una preghiera mormorata accanto a noi.

Sappiamo riconoscere anche noi la santità nascosta.

Apriamo i nostri occhi per riconoscere i santi che ci stanno accanto, uomini e donne che camminano leggeri sulla terra, sempre pronti a fare del bene, le tante mamme dalla dedizione instancabile che portano sul volto il segno della fatica, ma anche la luce di una pace inalterabile.

Mi viene in mente a questo proposito un detto che si trova nel Talmud: “Non potendo essere dappertutto, Dio creò le mamme”.

“Mi aggirerò tutta la vita nei paraggi dei santi”.

Questo desiderio espresso da Cioran deve essere anche nostro, con la speranza di non andare troppo lontano, ma di trovare il primo santo in noi stessi, così come lo ha sognato l’amore del Padre.