domenica 28 ottobre 2007

XXX Domenica del tempo ordinario

Siracide 35, 12-14.16-18
Salmo 33
2 Timoteo 4, 6-8.16.18
Luca 18, 9-14

Due uomini entrarono in una chiesa a pregare.
Uno era divorziato, alcolizzato, in attesa di giudizio per truffa aggravata.
L’altro era un membro molto stimato di una commissione diocesana che si occupava dei problemi della nuova evangelizzazione.
Il primo uscì di chiesa giustificato, cioè perdonato.
Il secondo invece…
Quello che sto dicendo – l’avete capito benissimo – è una provocazione.
Ma vorrei che fosse chiaro che la provocazione non è mia, ma di Gesù.
Perché Gesù, raccontando la parabola del fariseo e del pubblicano, non ha detto nulla di diverso.
Accettiamo dunque la provocazione e cerchiamo di capire.
Perché il fariseo uscì dal tempio non giustificato?
La prima risposta che si è tentati di dare è molto superficiale, ma può servire come primo approccio alla questione.
E’ una risposta che nasce da questa osservazione immediata: “Ma come è possibile essere così stolti da perdere il senso del ridicolo?”.
Il fariseo infatti è un uomo che manca totalmente del senso del ridicolo.
E’ un uomo senza stile. Guardiamolo.
Lo vediamo in un atteggiamento statuario: la testa alta, lo sguardo fiero.
E’ una statua che contempla se stessa. E’un modello che si ammira.
E’ anche un uomo in preghiera, ma che nel pregare non fa che ascoltarsi.
In linguaggio popolaresco si direbbe: "E’ uno che si prega addosso”.
Un personaggio simile, così spudoratamente narcisista, è penoso e insopportabile.
Capita anche oggi di incontrare persone che guastano la loro possibile esemplarità con il gusto della ostentazione.
Non c’è bisogno d’avere letto il vangelo per capire che l’onestà senza il senso del pudore e della discrezione è qualcosa di indisponente.
Ce lo dice la coscienza, il buon senso, un principio elementare di moralità.
Di fronte a certe forme di santità che pretendono l’aureola prima del tempo, verrebbe voglia di pregare così: “Signore, fa’ che non diventi mai un santo come il fariseo.
Preferisco stare dall’altra parte, in compagnia di certa gente che potrà avere delle colpe, ma almeno sa riconoscerle coltivando un doveroso senso di umiltà”.
Se questa è la prima impressione che lascia il fariseo, il suo comportamento, a una analisi più attenta, suggerisce altre considerazioni che definiscono meglio la sua posizione morale.
E’ vero: è perfetto in tutto, quello che dice non potrebbe mai essere contestato, ma ci sono due gravi errori che pesano a suo carico.
Il primo è quello di stare avanti a Dio senza lasciarsi giudicare da Dio.
E’ lui che giudica se stesso. Dio è chiamato solo a ratificare il suo giudizio.
Dove è il riconoscimento della misericordia di Dio e della sua tenerezza?
Il fariseo non ha bisogno di un Dio misericordioso, ma solo di un Dio giusto.
Visto che lui è in regola con Dio, Dio deve essere in regola con lui e riconoscergli quella salvezza che lui si è meritato.
Quarta è una colpa grave, perché cancella dal volto di Dio il lineamento che più gli è caro, quello della pietà.
C’è un altro errore, altrettanto grave.
Il fariseo definisce e costruisce la sua superiorità morale attraverso il confronto con gli altri.
Invece di confrontarsi con Dio, si confronta con il pubblicano.
Se mancasse il pubblicano, come potrebbe celebrare se stesso?
E’ così facile giustificarsi sulla pelle degli altri.
Ci si consola dei propri errori osservando quelli degli altri
Ci si sente onesti perché troviamo qualcuno che è più disonesto di noi.
E una volta che ci si crede superiori, si è pronti al disprezzo.
Il vangelo a questo proposito è molto chiaro: “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
Il cammino che si segue è questo: l’altro ti permette di coltivare un senso di superiorità e questo senso di superiorità a sua volta ti porta a disprezzare l’altro.
Questo è particolarmente evidente nel campo della politica.
Il fariseo, impegnato in politica, cerca di liquidare gli altri, cioè gli avversari, con il disprezzo, che può assumere le forme del compatimento, della calunnia, della diffamazione sollevando i più perfidi sospetti.
Ma diamo ora uno sguardo al pubblicano della parabola.
Non va dimenticato che egli riscuoteva le tasse per conto di Romani, quindi era un collaborazionista. Non solo.
Poiché come tutti i suoi colleghi doveva essersi arricchito maggiorando le tasse a propri vantaggio meritandosi pure la fama di essere ladro.
Ora lo vediamo fare appello alla pietà del Signore, ma c’è qualcosa che non ci convince.
Troppo comodo battersi il petto. Non sarebbe meglio se decidesse di rimborsare il mal tolto e di cambiare mestiere?
Ecco perché c’è stato chi ha inventato una coda scherzosa alla parabola.
Un penitente come il pubblicano, nell’atto di lasciare la chiesa, verrebbe agguantato da un prete e trascinato a viva forza verso il confessionale: è lì che deve vuotare il sacco e accettare poi la dovuta penitenza.
Ma a dare il senso della parabola è il personaggio principale che non è né il fariseo né il pubblicano, ma colui nella cui casa il fariseo e il pubblicano si trovano a pregare.
E’Dio il personaggio principale, un Dio folle che ci sorprende riservando il suo amore alle pecore perdute del suo gregge: agli esclusi, ai marginali, ai peccatori.
Che cosa ci chiede per attuare questo suo desiderio?
Semplicemente un po’ di umiltà, che rappresenta il varco attraverso il quale può versare nella nostra vita la sua infinita misericordia.
“La preghiera dell’umile penetra le nubi” ci ha detto il Siracide.
Per salire al cielo bisogna necessariamente essere leggeri e l’umiltà serve proprio a dare leggerezza alla nostra preghiera per farla arrivare a destinazione.
Vale la pena di sottolineare che l’umiltà non ha nulla in comune con la gravità e la seriosità tipiche di tanti devoti, soprattutto del mondo ecclesiastico.
L’umiltà è un modo sorridente di guardare alla propria vita e si apparenta con una punta di umorismo, di autoironia, che serve ad alleggerire la pesantezza del personaggio che ciascuno amerebbe coltivare.
In questo senso vanno intese le parole di Gesù: “Chi si umilia sarà esaltato”: chi avendo la coscienza dei propri limiti sa ridere di se stesso, costui sarà esaltato.
Ed ora vogliamo chiudere queste semplici riflessioni con una breve preghiera:
“Signore, siamo venuti nella tua casa a pregare.Fa’ che ritorniamo alle nostre case con la gioiosa coscienza di essere da te gratuitamente salvati, con l’ineffabile stupore di sentirci da te immeritatamente amati”.

mercoledì 24 ottobre 2007

XXIX Domenica del tempo ordinario

XXIX Domenica del tempo ordinario

Esodo 17, 6-13
Salmo 120
2 Timoteo 3, 14- 4,2
Luca 18, 1-8

“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Queste parole di Gesù vengono spesso citate con una intonazione di lamento da quanti osservano l’affievolirsi del senso religioso e la progressiva secolarizzazione della nostra società.
Come se Gesù alludesse proprio al nostro tempo.
Ma Gesù con questa interrogazione voleva forse semplicemente indicare che la vera fede non è facile.
Certo, c’è una fede facile.
È possibile infatti dire: “Credo in Dio” senza alcun problema.
E’ possibile ancora affermare: “Credo a tutto ciò che la chiesa mi insegna: la creazione, la rivelazione, l’incarnazione, la risurrezione” senza che alcun dubbio venga ad attraversare queste certezze.
Questa è una fede facile, mentre è difficile tentare la vera avventura della fede.
Credere in Dio è un’impresa difficile.
Riconoscere di essere abitati dal mistero di Dio è da vertigine.
Oggi si parla di crisi di fede.
Ma Gesù ne parlava già allora.
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano sui percorsi della propria fede?
Per sapere se abbiamo la fede, bisogna vedere se sappiamo pregare.
Gesù intrattiene i discepoli “sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”.
Ci sono stati cristiani che, nei primi della chiesa, hanno preso alla lettera queste parole e si sono ritirati nella solitudine per poter praticare una preghiera ininterrotta.
Penso a S. Antonio che ha condotto una vita eremitica nel deserto egiziano e a S. Pacomio che invece ha scelto la vita di comunità, sempre nel deserto egizio.
Noi al deserto non ci andremo, certamente, e però, quando ci capita di riflettere sulla necessità di pregare senza interruzione, pensiamo di dover moltiplicare almeno qualche devozione privata.
Ma qui ci troviamo ad affrontare un altro ammonimento di Gesù apparentemente opposto al primo.
“Pregando – ha insegnato Gesù nel Discorso della montagna - non moltiplicate parole come i pagani i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7).
Già il pregare senza interruzione fa problema, perché non riusciamo a capire esattamente quali debbano essere le modalità della nostra preghiera.
Ma ancora più ci mette in crisi la seconda nota richiamata dal vangelo: “senza scoraggiarsi”.
Come è possibile non patire delusioni e stanchezze quando ci si accorge che la nostra preghiera, rivolta verso il cielo con tanta fiducia, ricade su di noi senza avere ottenuto nulla di ciò che avevamo sperato?
Fino a quando dovremmo aspettarci un segno della benevolenza di Dio?
Noi non abbiamo il tempo di aspettare all’infinito, tanto più che viviamo in una cultura la quale ha fatto dell’efficienza e dell’immediatezza le sue note distintive.
La scienza e la tecnica ci hanno portato credere che l’uomo può tutto.
Perché dunque perdere tempo prezioso a pregare, quando la preghiera non serve a nulla ?
Ma la difficoltà maggiore per chi vuole pregare è data dallo scandalo dell’ingiustizia che sta sotto i nostri occhi e che sembra resistere ad ogni forma di preghiera.
Sotto questo profilo la parabola narrata da Gesù è molto espressiva.
In scena c’è una vedova, come poteva essere ai tempi di Gesù.
Una vedova senza assistenza, senza garanzie, senza alcun sostegno giuridico.
Una donna abbandonata alla sua solitudine.
La vedova rappresenta la mancanza, il bisogno, l’assenza.
Di fronte a lei, un giudice senza coscienza che non teme né Dio nè gli uomini.
È una situazione emblematica, che si ripropone anche oggi in forme diverse.
Il compito del giudice dovrebbe essere quello di difendere chi è più debole.
Ma in quella città, come in molte società, l’ingiustizia diventa diritto.
E così capita spesso di vedere che grandi colpevoli sono assolti perché potenti, mentre chi è debole non riesce a farsi riconoscere il proprio sacrosanto diritto.
Quando casi come questi si ripetono, quando sono popoli interi a patire la legge del più forte, lo scandalo è serio.
Don Michele Do, che molti di noi hanno conosciuto come un coraggioso testimone del vangelo, ricordava d’aver raccolto da un contadino questo lamento rivolto a Dio: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Quale risposta ci viene dal vangelo a queste nostre difficoltà sul cammino della fede?
Il vangelo ci dice anzitutto che non bisogna confondere il silenzio di Dio con la sua assenza.
Il silenzio di Dio non è mai vuoto.
Questo silenzio è abitato da una presenza: una presenza non da temere, ma da invocare.
Quando dal fondo della nostra tristezza chiediamo aiuto a qualcuno che sta sopra di noi, non ci rivolgiamo a una divinità capricciosa e arbitraria, ma a un Dio che ama lasciarsi vincere dalla preghiera dell’uomo.
Immergendoci nel mistero dell’amore, proviamo allora un’immensa tenerezza per tutti gli esseri, un desiderio universale di comunione: diventiamo vulnerabili a tutto ciò che tocca l’umanità.
Viene a proposito – credo – la citazione di un vecchio detto latino (si trova in una commedia di Terenzio) che dice: “Niente di ciò che appartiene all’uomo mi è estraneo”
È bello immaginare una solidarietà che si affida alla preghiera: ad una preghiera che coinvolga non solo le nostre facoltà interiori, ma anche il nostro corpo.
Penso alle braccia alzate di Mosè che intercede per i suoi.
Quale storia è quella delle nostre mani! Esse conoscono tutta la nostra vita.
E quando due mani si aprono per pregare, è tutta la santità di una persona che esprime una fiduciosa attesa nei confronti di Dio.
A volte ci capita di avvertire un aiuto inatteso, che ci riempie di stupore.
Non potrebbe essere che qualcuno abbia aperto le mani nel gesto dell’intercessione e che la sua preghiera abbia raggiunto proprio la nostra fragile esistenza sostenendola nel cammino della fede?
Quando sono io a godere di queste invenzioni della grazia, mi piace ripensare alle mani che ho visto protendersi nella condivisione dell’eucaristia e mi è stato concesso di passare dalle mani allo sguardo e dallo sguardo, talvolta, al sorriso.
Pregate sempre, senza stancarvi, ci ha raccomandato Gesù.
Se si è abitati dal mistero di Dio, la preghiera non è più sentita come un dovere, ma acquista la leggerezza e la felicità del respiro.
Nella preghiera due respiri vengono a coincidere, come in un bacio: il respiro nostro, che esprime l’anelito verso il superamento dei limiti dell’esistenza, e il respiro di Dio, il soffio dello Spirito Santo, che è Spirito di amore.
Una tale preghiera, come potrebbe cessare, visto che l’amore non cessa mai?
E saremo testimoni di quella fede che Gesù si ripromette di trovare al suo ritorno.
Non di una fede che si esaurisce nella recita del credo, ma di una fede che sommuove positivamente tutta l’esistenza per un legame nuovo con Dio e con tutte le persone che incontriamo nella luce di Dio.

sabato 13 ottobre 2007

XXVIII Domenica del tempo ordinario

Luca 17,11-19

In questo racconto, l’elemento narrativo che immediatamente riusciamo a interpretare è senza dubbio il ringraziamento che il samaritano, dopo il miracolo, sente il bisogno di esprimere a Gesù.
Grazie è una piccola parola che però ha una grande forza significativa e creativa.
Tutti i genitori si preoccupano di insegnare ai loro bambini, fin da piccoli, a dire per favore e grazie.
Questo fa parte di una elementare buona educazione.
Ma queste piccole parole sono in realtà cariche di un senso che il bambino deve a poco a poco scoprire.
E il senso è questo.
Dicendo grazie riconosciamo che nessuno di noi può bastare a se stesso.
Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Non potendo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di ricevere e dunque di domandare.
Inoltre, dicendo grazie, riconosco che l’altro si è mostrato benevolo verso di me.
È come dire ad una persona:”Io credo in te. Io spero in te. Io mi sento voluto bene”.
In fondo queste piccole parole, perfino banali a forza di essere usate senza che ci si pensi, esprimono la dimensione sociale dell’essere umano.
Una comunità umana, tanto più una comunità cristiana, si costruisce attraverso queste relazioni, questi incontri in cui ciascuno riconosce i valori più alti e puri dell’esistenza: la capacità di ammirazione, di fiducia, di gratitudine, di gratuità nel praticare l’amore.
E’ importante dire grazie perché questo è il modo migliore per intuire che tutto è grazia, per risalire a colui che, come Padre, è sempre il primo a donare, a perdonare, ad amare.
Grazie, come diceva Raimondo Lullo, un mistico del XIII secolo, per il semplice fatto che esiste come Padre: “La mia mia gioia e la mia allegrezza vengono dal pensiero che tu esisti”.
Oggi Gesù ci invita a ricordarci di questo nella nostra relazione con Dio.
I dieci lebbrosi sono venuti da lui riconoscendo in lui un maestro, un inviato da Dio.
Ed essi osano chiedere a lui ciò che nessun uomo avrebbe potuto dare in quel tempo: la guarigione dalla lebbra.
Chiedono un favore che supera le forze umane.
In verità è a Dio che si rivolgono, attraverso Gesù.
Ma uno solo ritorna sui suoi passi, a dire grazie.
“E gli altri nove , dove sono?” si chiede Gesù.
C’è forse nelle sue parole una nota, umanissima, di delusione.
Non dimentichiamo che Gesù era in cammino verso Gerusalemme dove sarebbe stato condannato a morire sulla croce.
Perché non pensare che anche lui sentisse il bisogno di essere consolato dalla gratitudine delle persone che andava beneficando?
Anche i consolatori hanno bisogno di essere consolati, anche Dio.
Ma forse la ragione della tristezza di Gesù va cercata altrove.
In fondo, a lui sarebbe bastato il grazie di uno solo.
Se si è rammaricato, era per il fatto che gli altri nove si fossero accontentati della guarigione privandosi della impareggiabile felicità di dire grazie.
Chi si dimostra incapace di ringraziare, non fa un torto al benefattore, ma principalmente a se stesso.
Purtroppo c’è molta gente che ha perso l’abitudine, sempre che l’abbia avuta prima, di ringraziare.
Come se tutto fosse dovuto.
C’è da aver paura di certe persone (e ciascuno di noi ricorda d’aver fatto qualche conoscenza di questo genere) che non sanno mai dire grazie.
“Un cane riconoscente vale meglio di un uomo ingrato”, dice un proverbio.
Ma non vogliamo rattristarci più del necessario osservando la meschinità di certi comportamenti.
Riprendiamo il racconto del vangelo e dimenticando i nove che non sono tornati (forse si immaginavano di avere diritto alla guarigione perché giudei), guardiamo al samaritano, che è l’unico che sente il bisogno di dire grazie.
Questo straniero è l’unico che riconosce che la sua guarigione è un dono gratuito della bontà del Signore.
Era venuto con tutta la sua povertà a chiedere,ritorna con tutta la sua gratitudine per riconoscere che Dio ha risposto alla sua domanda.
“Mi piace immaginare (utilizzo qui una suggestiva immaginazione di A. Pronzato) che quell’uno, di fronte alla amarezza manifestata da Gesù, abbia detto: “Ma io vengo a nome di tutti… Hanno incaricato me di esprimere la riconoscenza”.
Lo so che non sta scritto nel vangelo.
Ritengo tuttavia che non sia proibito inventare qualcosa.
Anche perché la parte dell’uno che rende grazie a nome di tutti la posso pur sempre assumere io…
Però mi piacerebbe che tutti, anche quelli che non hanno il dono della fede, sentissero qualche volta, magari contemplando un tramonto, il bisogno di dire grazie a qualcuno che non conoscono ancora”.
E’ quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie. Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Qualche volta mi sorprendo a pensare (è ancora A. Pronzato che così si confida) che la fede potrebbe cominciare con un “grazie” appena sussurrato timidamente, pur senza un destinatario preciso, e la preghiera potrebbe nascere semplicemente dal bisogno di dire grazie a qualcuno (la lettera maiuscola, non c’è fretta, verrà messa dopo…),

sabato 6 ottobre 2007

XXVII Domenica del tempo ordinario


Luca 17, 5-10

“Aumenta la nostra fede”
E’ meravigliosa questa preghiera.
Pregare perché si accresca in noi la fede vuol dire riconoscere che la fede è un dono e che questo dono non può mai diventare un possesso definitivo, ma ha sempre bisogno di essere rinnovato.
Non si finirebbe di fare l’elogio di questa preghiera.
Eppure, così come è formulata, questa preghiera può nascondere qualche sottinteso che va corretto.
E questo lo diciamo per due motivi.
Il primo motivo sta nel verbo “aumenta”.
È un verbo che suggerisce una dimensione quantitativa, quindi misurabile, accertabile.
Ma la fede non si può misurare.
Si possono misurare i fenomeni religiosi: le devozioni, le vocazioni al sacerdozio, i battesimi amministrati in una parrocchia, le bibbie vendute in un anno…
Ma qui siamo nel campo della religione, non ancora della fede.
Fede e religione non coincidono.
Basti pensare che ci può essere una pratica religiosa non sostenuta dalla fede.
C’è poi un secondo possibile sottinteso da correggere.
Se la fede è misurabile, allora può nascere la presunzione che ci porta a
dire: “Io ho la fede”.
Ma nessuno può dire: “Io ho la fede”.
Noi non siamo possessori. Siamo, modestamente, dei cercatori.
Non siamo degli “arrivati”; siamo dei partenti, dei principianti.
Certo, noi ameremmo vivere di certezze, avere risposte sicure per ogni problema.
Sulla porta di una chiesa ho trovato questa scritta: “Vieni! Qui troverai le risposte”.
Ma la vera fede non consiste nel possedere certezze.
Il cristiano non è l’uomo dei punti esclamativi, ma è l’uomo dei punti interrogativi, della interrogazione incessante.
In questa direzione ci orientano le parole stesse di Gesù: “Se aveste fede quanto un granellino di senape…”.
Gli apostoli chiedono una fede visibile, Gesù fa capire che la vera fede appartiene a un altro ordine, a quello delle cose invisibili.
Il granellino di senapa era considerato come il più piccolo di tutti i semi: così minuscolo che proverbialmente designava tutto ciò che è pressoché imprendibile.
Con questa immagine Gesù voleva far capire che la fede è significata più dalla mancanza che dalla pienezza.
La fede è come una fiamma discreta che ti accende lo sguardo, una piccola musica che risuona nel tuo cuore.
Chi si accorge? La fede ha la leggerezza di un bambino.
Noi abbiamo per lo più la mentalità dell’uomo adulto.
E l’uomo adulto è colui che è portato a calcolare, ad addizionare, ad accumulare.
Perciò l’uomo adulto preferisce la religione alla fede.
Perché la religione – lo si diceva già prima - si può quantificare (“Ho ascoltato tutte le messe di precetto, ho fatto la carità che dovevo, ho rispettato tutti i primi nove venerdì del mese….”), mentre la fede si sottrae ad ogni calcolo.
Leggera è la fede, è un niente di cui non ci possiamo gloriare.
Ma quando c’è questo niente, quale forza è capace di esprimere: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”.
L’immagine usata da Gesù è senza dubbio strana: che senso ha vedere un albero trapiantato nel mare?
Ma ho trovato una spiegazione che mi ha reso luminosa questa parabola.
“Questo albero sono io. Questo albero è ciascuno di noi…
Sradicato dalla fede, strappato alla terra delle evidenze troppo marcate, dei recinti da sempre frequentati, l’albero si pianta nel mare, simbolo dell’immenso.
La fede mi consegna all’infinito del mistero di Dio”(Bernard Feillet).
Volendo dare a questa intuizione un’articolazione più concreta,
potremmo dire che la fede ha il potere di strapparmi alle abitudini profondamente radicate nella mia vita, abitudini che portano ad assecondare i ricatti dell’egoismo, i pregiudizi, le resistenze quando si tratta di praticare l’accoglienza, di perdonare, di amare…
La fede, dopo aver vinto queste resistenze, ci immerge nell’oceano immenso della pietà di Dio, nella straripante immensità del suo amore.
E se, in questa opera di conversione, ci pare di aver ottenuto qualche risultato significativo, soprattutto in ordine ai grandi valori della riconciliazione e della fraternità, se, ad esempio, siamo riusciti a perdonare le offese, a dimenticare i torti ricevuti, a rispondere alla violenza con la dolcezza, dobbiamo essere pronti non a vantarci, ma a dire: “Siamo servitori inutili”.
Di che cosa possiamo vantarci, quando ci muoviamo nell’ordine della grazia?
Tutto è grazia, tutto è dono di Dio.
Purtroppo nella chiesa sono ancora molte le persone malate di protagonismo, convinte della propria insostituibilità, sempre pronte a ricordare a tutti i propri meriti.
Persone ingombranti e persino indisponenti per la loro smania di voler apparire.
Gesù ama invece le persone leggere, che si prendono alla leggera, che sanno un poco volare al di sopra gli altri, senza rendersi conto, come Francesco che in certi momenti sentiva il bisogno di cantare e di danzare.
Un proverbio scozzese dice: “Gli angeli sanno volare perché prendono se stessi alla leggera”.
“Siamo servi inutili” dobbiamo ripeterci.
E, come chiesa, siamo “una banda di buoni a nulla” (Maillot).
Questo lo diciamo non per deprimerci, ma per gioire del fatto che, nonostante tutto, Dio vuole avere bisogno di noi.
Un giorno ci accoglierà forse con queste parole: “Venite a me, voi, buoni a nulla!”
Ma lo dirà con un sorriso, con tutta la simpatia riservata a chi non si vanta di nulla, ma si presenta con la povertà dei propri mezzi e con la ricchezza della propria fiducia.