domenica 30 marzo 2008

II Domenica di Pasqua


Atti 5, 12-6+
Salmo 117
Apocalisse 1, 9-11a.12-13.17-19
Giovann 20, 19-31

Oggi, in tutte le chiese del mondo viene letto questo racconto dell’apparizione del Cristo all’apostolo Tommaso.
Attraverso questo racconto ci è dato di riflettere sull’esperienza della vera fede a cui Gesù riserva una beatitudine particolare. “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.
Chi di noi può dire di meritare questa beatitudine?
La vera fede non è una conquista facile, ma richiede un cammino in cui entrano in gioco anche altre persone.
Non so se Tommaso sarebbe potuto arrivare alla fede senza la testimonianza degli altri apostoli.
Noi abbiamo potuto conoscere Gesù Cristo attraverso l’educazione religiosa ricevuta in famiglia o la fede viva di persone che ci hanno fatto conoscere il vangelo.
Ma questo è stato solo l’avvio di un’avventura spirituale a cui ciascuno a un certo punto ha dovuto trovare dentro di sé la sollecitazione decisiva per esprimere il proprio sì incondizionato.
Non dimentichiamo che ci sono tante persone che vorrebbero credere e soffrono di non riuscire a credere.
Il non credente non va confuso con l’ateo che esibisce con orgoglio la sua indisponibilità alla fede.
Come c’è un lutto per la scomparsa di una persona a cui si era particolarmente legati, così si può portare il lutto per la propria fede perduta o il dolore di non averla mai conosciuta.
“Sempre mi sta a lato / la colpa "d’essere stato un disgraziato” ha scritto il poeta Jorge Luis Borges, alludendo forse alla sua incapacità di aprirsi alla beatitudine del vero credente.
E’ un dolore che merita grande rispetto.
Sono tante le persone che meritano questo rispetto.
Non sono persone indifferenti.
Faremmo loro un grave torto se pensassimo che il fatto religioso non le interessi.
Sono persone che hanno messo e continuano a mettere tutta la loro onestà nella riflessione religiosa, tutta la intelligenza e in qualche caso la loro grande cultura.
Rispettare queste persone vuol dire raggiungerle nelle loro difficoltà, riconoscere l’obiettività di molte delle loro osservazioni sulla chiesa e sul comportamento dei cristiani.
Rispettare vuol dire prendere coscienza che molte delle domande di chi non crede non sono estranee al cuore del credente.
L’incertezza, il dubbio possono coabitare nel cuore del credente, mentre non si comprende l’arroganza di certi convertiti i quali si permettono di dare lezioni di fede agli altri, ritenendosi “arrivati”.
Per questo, ritornando al vangelo, ha un grande valore esemplare il fatto che Tommaso abbia potuto esprimere i suoi dubbi nel gruppo degli apostoli senza che nessuno gridasse allo scandalo o sentisse il bisogno di cacciarlo fuori.
Ma come si arriva alla vera fede?
C’è una tentazione che ci tiene lontano dalla beatitudine proclamata e promessa da Cristo.
Siamo tutti come Tommaso: vogliamo toccare, vedere, verificare ciò che appartiene alla dimensione del mistero.
Vogliamo rendere palpabile e visibile anche ciò che è invisibile e non dimostrabile.
Le parole di Gesù a Tommaso fanno capire che non è questa la via da seguire.
Non si deve peraltro pensare che la fede sia un’operazione totalmente estranea al nostro bisogno di toccare e di sperimentare la presenza di Cristo.
C’è l’atteggiamento presuntuoso di chi va alla ricerca di dimostrazioni palesi e c’è l’atteggiamento discreto, umile, confidente di chi si accosta al mistero per lasciarsi toccare da una presenza nascosta.
La fede non diventa veramente viva che a partire dal momento in cui, presto o tardi, essa diventa esperienza vissuta della presenza del Cristo.
Possiamo anche sapere tutto su Gesù, su quello che ha fatto e su quello che ha detto, possiamo anche mandare a memoria tutti i vangeli, ma a che serve se la nostra vita non è trasformata da un po’ di quella follia – follia evangelica - che è il segno inconfondibile di uno stretto legame con lui?
Vuol dire che abbiamo incontrato una dottrina, non una persona.
Oppure abbiamo incontrato un personaggio del passato, non il Cristo vivo che ci rende vivi.
“Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato” ci dice oggi Gesù.
E’un invito a scoprire la vulnerabilità e la forza, l’umiliazione e la gloria del Risorto attraverso un’intima comunione con lui così che i tratti più rilevanti del suo mistero pasquale vengano a imprimersi nella nostra storia personale.
Nasce allora il desiderio di essere, come Gesù, portatori di pace e di perdono.
”Pace a voi" dice Gesù ai discepoli.
La fede autentica non può che essere al servizio della pace.
Non parla il linguaggio della violenza, ma della mitezza.
Il fanatico in realtà non crede in quel Dio che egli intende servire, perché agisce come se Dio non fosse capace di salvare il mondo.
E se a mostrarsi intollerante fosse un cristiano, vuol dire che non ha ancora incontrato il Cristo risorto, con la mitezza delle sua ferite ancora aperte e con la libertà di chi ha vinto la morte.
E con la pace bisogna essere pronti a testimoniare il perdono.
Che non deve essere inteso come prerogativa esclusiva di poche persone consacrate, ma come un atteggiamento specifico di tutta la comunità cristiana.
In un mondo dominato da forti passioni distruttive come il risentimento e la vendetta, dovrebbe sorgere da tutta la grande famiglia di credenti in Cristo un vasto, accorato appello alla riconciliazione e alla fraternità.
Ma bisogna che ciascuno, nel lasciarsi abbracciare dal Cristo risorto, smantelli dentro di sé ogni passione ostile.
Credi tu nel valore della pace e del perdono?Allora potrai dire di credere veramente nel Cristo risorto.

domenica 23 marzo 2008

Pasqua di resurrezione



Atti 10, 34.37-43
Salmo 117
Colossesi 3, 1-4
Giovanni 20, 1-9

Vorrei anzitutto richiamare alcuni momenti dell’esperienza pasquale vissuta dai discepoli..
Al mattino le donne trovano il sepolcro vuoto e una voce le ammonisce: “Non è qui, è risuscitato”.
Poi Gesù comincia ad apparire.
Appare a Maria Maddalena che però non lo riconosce immediatamente.
Appare la sera ai due discepoli che andavano verso Emmaus: anch’essi non lo riconoscono subito, ma solo quando a tavola compie il gesto di spezzare il pane con loro.
Tenendo conto di questa lentezza nel riconoscere il Risorto, potremmo dire che, mentre è già Pasqua per Gesù, non lo è ancora per i suoi discepoli.
Gesù è risorto, ma la fede dei discepoli, la fede nostra è in ritardo su questo annuncio così sorprendente.
Per accoglierlo, bisogna vincere molte incertezze, superare molte esitazioni: bisogna fare un lungo cammino prima di poter dire con i discepoli: “Davvero il Signore è risorto”.
È importante osservare che questa affermazione, rispetto a quella fatta dagli angeli, si differenzia soltanto per l’avverbio “davvero” che però assume un valore fondamentale.
Il grande pericolo è che la Pasqua rimanga un evento che abbia valore solo per Cristo, ma
non per noi.
Perché diventi Pasqua anche per noi, bisogna anzitutto che lo Spirito Santo ci aiuti a scrivere nei nostri cuori la parola “davvero”.
Potessimo dire anche noi. “Cristo è veramente risorto!”.
Veramente, per davvero, non apparentemente, non simbolicamente.
Vorrei sbagliarmi, ma a me pare che per molti cristiani la risurrezione è semplicemente un modo di dire.
Perché la risurrezione diventi una fede viva e vitale bisogna che essa entri nella nostra esistenza lasciandovi tracce o frammenti di un’esperienza radicalmente nuova.
Il primo frammento consiste in un amore più rispettoso e cordiale nei confronti della vita.
Può sembrare un rilievo superfluo, invece non lo è.
La vita non è abbastanza amata.
Basti vedere come sia sacrificata, violentata, venduta, soppressa, quasi non contasse niente.
O anche come sia spesso consumata dietro interessi banali e superficiali.
C’è da provare pietà di tante esistenze apparentemente piene di vitalità, ma che in realtà si rivelano spente, perché non animate da una profonda simpatia per tutto ciò che di sublime e di divino ci è dato di incontrare nell’ordine della bellezza e dell’amore.
Gesù è stato talmente amante della vita da vincere la morte.
Dalla Pasqua ci giunge pertanto questa forte suggestione ad amare la vita in tutte le sue diverse espressioni. Non soltanto la nostra, ma anche quella degli animali, delle piante, di tutta la natura perché la creazione intera è attraversata da un fremito che è un anelito alla risurrezione.
Secondo frammento di Pasqua: l’esperienza di una maggiore libertà davanti alla morte.
Se Cristo è risorto, se nulla ci può separare da lui, dovremmo sentirci meno esposti alle paure e ai ricatti della morte, come il grande teologo Dietrich Bonhoeffer che poco prima di esser giustiziato in un lager nazista, scrisse: “E’la fine – per me l’inizio – della vita.
Libertà, ti cercammo a lungo, nella disciplina, nell’azione, nel dolore.
Morendo, ora ti conosciamo nel volto di Dio.”.
A Pasqua dovremmo provare tutti, più forte che in altri momenti, il presentimento della morte come inizio.
Dopo la risurrezione di Gesù, dovremmo sapere che c’è un modo di vivere che non conduce alla morte.
I legami che noi intrecciamo quaggiù nell’amicizia rimangono per sempre.
Il più umile gesto di attenzione, uno sguardo di tenerezza, una parola che aiuta, un rancore dimenticato, tutto porta un frutto di eternità, tutto si orienta verso la gioia che rimane.
E questo vuol dire credere nella ”risurrezione della carne”.
Non si tratta infatti di ritrovare il nostro corpo a partire dai nostri resti e dalle nostre ceneri.
Sarebbe ingenuo, sarebbe assurdo pensare così.
Credere alla risurrezione dei corpi vuol dire avere la certezza che ritroveremo, sotto una forma che non ci è dato immaginare, ciò che i nostri corpi ci permettono ora: la relazione, la comunicazione, l’amore, lo stupore legato alla vita dei sensi: tutto ciò che fa corpo con noi.
Credere alla risurrezione dei corpi è credere che nell’al di là Dio ci darà non una vita disincarnata, eterea, ma una esistenza umana completa.
Perciò , quando visitiamo un cimitero (e sarebbe oggi il giorno più consigliabile, non il 2 di novembre), .non parliamo dei nostri defunti relegandoli in un passato lontano che non ritorna più e neppure immaginandoli come dormienti in un riposo eterno, ma come dei viventi, dei risvegliati, in quanto accanto ad ogni tomba abbiamo la possibilità di ascoltare una voce che ci dice: “Non cercatelo qui. È risorto”.
Altro frammento di Pasqua, il più importante, è la capacità di sognare ciò che appartiene alla dimensione dell’inatteso, dell’inedito, dell’impossibile, sia per la nostra storia personale sia per la storia dell’umanità intera.
Viviamo tempi amari,. tempi in cui le pietre tombali dell’ingiustizia, della corruzione, della violenza, del cinismo, della menzogna premono tenacemente sui nostri sepolcri e non c’è modo di
rimuoverle.
Ogni giorno ci porta la nostra razione di tristezze o, per usare un’immagine cara a Elias Canetti, ”una tazza di lacrime per colazione”.
Pasqua è una festa difficile e al tempo stesso ne abbiamo un bisogno insopprimibile.
La festa di Pasqua ci incoraggia a sperare, contro ogni evidenza, che un mondo “altro” è possibile, che una chiesa diversa è possibile.
Fare Pasqua oggi è accogliere l’invito a non avere paura perché lui, il Cristo, è ancora presente in mezzo a noi, a tracciare un cammino di luce in questo tempo buio e a orientare i nostri passi come messaggeri di speranza e di pace.

domenica 16 marzo 2008

Domenica delle Palme


Isaia 53, 1-12. 4-7
Salmo 142
1 Pietro2,1b-25
Giovanni 11, 55-57; 12, 1-11

Questa pagina del vangelo di Giovanni ci presenta Gesù che siede a tavola , nella casa ospitale delle sorelle Marta e Maria.
Betania doveva essere per Gesù un luogo molto caro, perché lì poteva trascorrere ore rasserenanti, al riparo da certe asprezze che il contatto con la folla non mancava di procurargli.
Per vivere, si ha bisogno di un po’ di tenerezza, che può esprimersi attraverso piccoli segni quali un sorriso, un ascolto, una semplice parola detta con garbo e amabilità.
Vivere infatti è amare e lasciarsi amare.
E questo amore coinvolge tutto il proprio essere, anche il proprio corpo.
Il corpo rivela la persona, il corpo è il segno dell’anima.
Leggendo il vangelo, non ci capita mai di trovare neppure un a volta un invito a diventare puri spiriti, creature pseudoangeliche di cui certe forme di spiritualità hanno preteso di definire il ritratto, come fosse quello del vero cristiano.
Gesù non è un angelo, ma un uomo vero, un uomo completo.
E Gesù non rinnega mai la sua piena umanità.
Egli si mostra come un uomo molto sensibile con sentimenti profondi, che non ha paura di esprimere.
Per questo l’abbiamo visto piangere nel racconto della risurrezione di Lazzaro.
Si pensa ( l’ho trovato scritto) che quasi l’80% degli uomini tra i 15 e i 55 anni hanno molta difficoltà a esprimere le loro emozioni, a piangere , a mostrare il loro cuore.
Abbiamo paura di sentirci vulnerabili, di confessare la nostra fragilità.
Gesù nel vangelo si lascia prendere dalla pietà, è mosso a compassione e non si vergogna di piangere in pubblico, toccato dalle lacrime di Maria.
E quando Maria entra nella sala del banchetto e compie quel gesto meraviglioso versando sui piedi di Gesù un profumo costosissimo e asciugando poi con i suoi capelli sciolti, Gesù non dice neppure una parola per far cessare quella liturgia che agli occhi dei presenti doveva risultare piuttosto imbarazzante.
Vale la pena di osservare che secondo le buone maniere di quel tempo non era concesso ad una donna di sciogliere i suoi capelli in pubblico davanti ad un uomo.
Maria compie questo gesto in silenzio, come se stesse assecondando le movenze di una danza e Gesù lascia che essa esprima a quel modo tutto il suo affetto.
L ’episodio è ricco di grande tenerezza.
Essere umani, è accettare di avere un cuore.
Gesù, il più umano degli umani, non ha paura dei sentimenti, non ha paura del proprio cuore.
Chi nel vangelo non accetta di avere un cuore è Giuda.
Il personaggio di Giuda non è facile da capire.
Certo non va liquidato sbrigativamente con l’etichetta di ladro, come è detto nel vangelo.
È un personaggio chiuso, complesso, tormentato.
Giuda, se mi è concesso di interpretarlo a modo mio, lo vedo come un sognatore dalla mente fredda.
Lo vedrei come un prototipo della cultura attuale.
Nella società occidentale si è privilegiato il mondo oggettivo dell’uomo, cioè la volontà, la determinazione in vista di una riuscita, la razionalità, e questo a scapito del mondo soggettivo che comprende l’emotività, l’affettività, la spontaneità: in una parola, il cuore.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Siamo diventati tutti troppo saggi, troppo razionali, troppo normali.
Quante persone vivono prigioniere della loro funzione e del loro personaggio: sono persone che lavorano, hanno pure successo nella loro attività, fanno molte cose, ma senza quella meraviglia continua e quella passione infinita che solo l’intelligenza del cuore sa suggerire.
Ecco perché prima ho indicato Giuda come prototipo di questa mentalità vedendo in lui un sognatore dalla mente fredda.
Questa mentalità di Giuda, arida, fredda, calcolatrice, non vivificata da un palpito di sentimento o da un soffio di poesia, la conosciamo bene perché la respiriamo attorno a noi e, per poco che siamo sinceri con noi stessi, la troviamo dentro i comportamenti abituali del nostro vivere.
Che cosa conta per noi nella vita?
Che cosa proponiamo ai giovani come primo obiettivo da conseguire?
Conta soprattutto raggiungere una posizione che permetta di guadagnare e di avere successo.
Ma è possibile che tutto il senso della vita debba esaurirsi nella dimensione della praticità e della convenienza?
Quando riusciremo a capire che, al di là dell’interesse per il fare, c’è qualcosa di più grande come il contemplare, il compatire, il condividere, cioè la dimensione stupenda della gratuità?
Se non riscopriamo la bellezza della gratuità, ci condanniamo a una vita sempre più invivibile.
Pensiamo al destino di Giuda: abituato a vedere solo il lato pratico delle cose, ha tradotto la poesia del gesto di Maria in un calcolo e in una deplorazione: trecento denari sprecati!
Con questa mentalità di lì a poco arriverà a dare un prezzo anche alla vita di Gesù.
Ma vorrei che contemplassimo ancora una volta la bellezza del gesto di Maria, un gesto meraviglioso non tanto per la generosità, ma per la pietà, la delicatezza, la tenerezza, la totale gratuità.
E il profumo che inonda tutta la casa è come l’esaltazione di questo amore.
Se non comprendiamo questo discorso sull’amore, come pura gratuità, che cosa possiamo capire del mistero che celebreremo in questi giorni?
Verrebbe voglia di concludere questa riflessione inventando, se mai è possibile, una beatitudine che potrebbe suonare così:. “Beati quelli che sanno amare come Maria di Betania: il loro amore avrà la fragranza di un meraviglioso profumo”.

domenica 9 marzo 2008

V Domenica di quaresima



Esodo 14, 21-30°
Salmo Esodo 15, 1-2.9-10.12-13
Efesini 2, 4-10
Giovanni 11, 1- 45

C’è in questo testo di Giovanni una parola strana, misteriosa, difficile da spiegare.
Si tratta della parola ”risurrezione”.
E’ una parola che non appartiene al nostro dizionario, ma a quello di Dio”.
Perché solo Dio può risuscitare.
E’ la ragione per cui ci riesce difficile dare un contenuto preciso a questa parola.
Noi abbiamo una conoscenza di tipo sperimentale: come potremmo parlare di risurrezione se nessuno di noi ha vissuto questa esperienza?
Potrebbe dirci qualcosa Lazzaro, ma stranamente rimane muto.
In questo racconto parlano tutti: l’unico a non dire neppure una parola è proprio lui.
Non ci si meraviglia perciò se molti cristiani, interrogati sulla risurrezione, non sanno che cosa dire, mentre altri, che sarebbero capaci di scrivere interi trattati sull’argomento, farebbero bene a rispettare un famoso aforisma che dice: “Di ciò di cui non si può parlare, si dovrebbe tacere”. (Ludwig Wittgenstein).
Siamo dunque condannati a non dire nulla o a pensare, come succede spesso, che la risurrezione sia un evento da collocare in un futuro imprecisato, una cosa cioè, come dice Maria, dell’”ultimo giorno”?
Se così fosse, la risurrezione potrebbe non avere alcuna incidenza sulla nostra vita, perché è risaputo che le cose future interessano molto meno di quelle presenti.
Se non che, da questa possibile indifferenza, ci viene a liberare la parola di Gesù che si legge in questo vangelo: “Io sono la risurrezione e la vita”.
Gesù, aggiungendo la parola “vita” alla parola” risurrezione”, vuole farci capire che la risurrezione riguarda già l’oggi che stiamo vivendo.
C’è nella tradizione cristiana un memento che non è propriamente cristiano: “Memento mori, ricordati che devi morire!”.
Il memento cristiano, secondo il vangelo di Giovanni, è un altro: “Ricordati che devi risorgere!. Perciò fa’ in modo che la tua esistenza riveli già qualcosa della risurrezione che ti è promessa”.
Su questo modo di interpretare la risurrezione vorrei leggere una bellissima testimonianza di Kurt Marti, una figura esemplare della chiesa evangelica svizzera e anche grandissimo poeta:
Domandate / in che cosa consiste / la risurrezione dei morti? / Non lo so /
Domandate / quando avrà luogo /la risurrezione dei morti/ Non lo so /
Domandate /esiste / una risurrezione dei morti?/ Non lo so /
Domandate / Non c’è/ risurrezione dei morti? / Non lo so /
Io so /soltanto /ciò che voi non evocate: / la risurrezione dei vivi. /
Io so / soltanto / ciò a cui egli ci chiama: / a una risurrezione qui e ora.”

Quali note dovrebbe avere un’esistenza che sia già stata toccata in qualche misura dal miracolo della risurrezione?
E’ Gesù che ci può dimostrare che cosa voglia dire vivere da risorti, Lui che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita”.
E’ importante perciò osservare i comportamenti di Gesù, in questo racconto di Giovanni, seguendolo da oltre il Giordano, dove si era rifugiato, fino alla tomba di Lazzaro.
“Andiamo di nuovo in Giudea!”: questa è la volontà di Gesù.
I discepoli lo sconsigliano: hai già dimenticato che per te è rischioso avventurarti da quelle parti?
Ma Gesù è deciso.
Chi crede nella risurrezione, non si lascia mai governare dalla paura scegliendo la via della fuga, ma penetra nel territorio della morte, l’affronta in tutte le sue manifestazioni, anche se lui stesso dovesse rimanere sconfitto.
“Gesù scoppiò in pianto”.
Perché questo pianto?
Non è solo commozione. E’anche sdegno, rifiuto, protesta.
Nel nostro tempo sta avvenendo qualcosa di particolarmente allarmante: ci stiamo abituando alla morte degli altri, alla morte di tutti.
Non sappiamo più reagire, sdegnarci, protestare.
Non sappiamo iùpiù piangere.
Non piangiamo più i morti di droga, i morti di fame, i morti di violenza, i morti ammazzati.
Ci limitiamo tante volte a pendere atto che la realtà è questa.
Gesù pianse. Noi guardiamo.
Vuol dire che non siamo ancora entrati nel dinamismo della risurrezione.
Chi vive da risorto, è uno che non si abitua mai a nessuna morte, ma si sente di condividere quello che ha detto Elias Canetti, che pure non era cristiano: “C’è un muro del pianto dell’umanità, e io gli sto accanto”.
”Gesù allora alzò gli occhi e disse: Padre”
Ecco il segreto della risurrezione: non una forma di esorcismo o di magia, ma una preghiera rivolta al Padre.
Perché solo Dio può far risorgere. E Gesù è risurrezione in quanto forma una sola cosa con il Padre. Per operare il miracolo della risurrezione, in noi e attorno a noi, bisogna essere strettamente uniti a Cristo e, con lui, al Padre, nell’amore.
“Lazzaro, vieni fuori!”;”Il morto uscì”
Gesù ti chiama fuori dal regno della morte.
E’ il tuo nome che viene pronunciato, un nome in cui palpita tutta la trepidazione dell’amicizia e che ti raggiunge nella singolarità del tuo essere: nel tuo spirito, nel tuo cuore, nel tuo volto, nel tuo corpo.
Vivere già nel presente la vita risorta, come ha fatto Gesù, è soprattutto una questione di amore.
Perché amare veramente – lo si è ricordato altre volte - è come dire alla persona amata: “ No, tu non morirai”.
Alla luce di queste osservazioni possiamo dire di vivere già da risorti?
Ha scritto Elias Canetti che abbiamo già citato: ”Se potessi davvero credere che Gesù ha vinto la morte, diventerei cristiano domani”.
Tocca a noi ora rendere credibile questa verità dimostrando che Cristo è risurrezione e vita già all’interno della nostra esistenza quotidiana.
Tutto è affidato alla nostra capacità di amare, di amare concretamente, nelle situazioni che stiamo vivendo.E’ questo il modo migliore perché la parola di Gesù non venga svilita e ridotta a puro strumento di illusoria consolazione, ma diventi principio di un mondo rinnovato.

sabato 1 marzo 2008

IV Domenica di quaresima


Esodo 4, 28-35
Salmo 35
2 Corinzi 3, 7-13.17-18
Giovanni 9, 1- 41

“Gesù passando vide”.
Il racconto di Giovanni è tutto centrato sulla esperienza del vedere.
Che cosa vede Gesù e che cosa vediamo noi accompagnando Gesù sulle strade che egli intende percorrere per annunciare a tutti l’amore di Dio?
“Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita”.
L’avremmo visto anche noi?
C’è da dubitare.
Di poveracci come il cieco del vangelo ne incontriamo moltissimi sui nostri percorsi quotidiani, ma è come se non li vedessimo.
Li vediamo, certamente, ma non con lo sguardo della pietà con cui Gesù guardò il cieco.
Siamo distratti da troppe cose: questa è la nostra giustificazione.
In realtà ci manca l’attenzione che nasce dal cuore.
In un libro della Bibbia, precisamente nel Siracide (13, 25), si legge questa bellissima osservazione. “Il cuore dell’uomo modella il suo volto (potremmo anche dire: modella il suo sguardo), sia in bene sia in male”.
E’dal cuore dell’uomo che nascono le nostre disattenzioni, le nostre lentezze, le nostre cecità.
Sì, perché siamo ciechi e non sappiamo di esserlo.
Sono ciechi soprattutto tanti detentori del sapere scientifico, politico, economico, religioso, quando trattano astrattamente i loro programmi ignorando l’uomo.
Per essi prima vengono le strategie di partito, le leggi economiche con la loro intangibile verità, i valori dell’ortodossia, poi viene l’uomo.
Pensiamo ai farisei del vangelo.
Un miracolo compiuto in giorno di sabato per essi non conta nulla.
Anzi, neppure può esistere.
Prima viene la legge, poi l’uomo.
In questo tempo in cui, in vista della consultazione elettorale, i vari schieramenti vanno definendo i loro programmi, sarebbe bene vedere qual è l’attenzione riservata all’uomo.
Che cosa, in altre parole, può aspettarsi l’immigrato che si lascia alle spalle un mondo segnato dalla fame e dalla violenza, o colui che perde il lavoro o che non ha uno stipendio decente, o la persona anziana che non è sufficientemente assistita?
E ci vuol poco a capire di quale menzogna e di quale ipocrisia si serva il potere per giustificare le proprie scelte che penalizzano le persone più povere, le più indifese del nostro mondo sociale.
Dio ci liberi da questi farisei senza cuore che credono di vedere, mentre, in realtà, sono condannati a essere ciechi.
Su di essi Gesù ha pronunciato una sentenza molto severa quando ha detto: “Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso” (Mt 15, 14).
In uno splendido e terribile romanzo intitolato Cecità lo scrittore portoghese Saramago ha descritto le vicende di una popolazione improvvisamente colpita da un accecamento generale.
In questa situazione esplodono le vecchie prepotenze, gli istinti più violenti creando una tensione insostenibile, un clima veramente infernale.
Solo una donna si salva da questa catastrofe; lei sola conserva sana la vista e rappresenta uno spiraglio di salvezza per tutti.
La vicenda ha un forte valore simbolico.
D’accordo: viviamo in un mondo tenebroso.
I motivi di sconforto sono tanti e possono indurci a una sorta di fatalismo che ci porta a dire:
“E’ inutile sperare di poter modificare la realtà.
A trionfare saranno sempre gli arrivisti, gli arrampicatori sociali, tutti coloro che sono mossi dall’ambizione, dalla passione per il guadagno, dal gusto perverso del potere”.
E’ facile allora chiudersi nella propria sfera privata, rinunciando a ogni tentativo di modificare, sia pure di poco, la realtà.
Ma il vangelo ci dice che questo mondo tenebroso è abitato da una luce.
C’è una cecità diffusa, ma c’è anche Gesù che, come luce del mondo, inventa gli occhi del mendicante cieco.
Anche il romanzo di Saramago sembra voler suggerire un motivo di grande speranza.
La donna che, unica in mezzo a quella umanità colpita da improvvisa cecità, conserva la capacità di vedere, anche per gli altri, non potrebbe essere metafora di Cristo, luce del mondo, venuto in un mondo di ciechi a restituire uno sguardo nuovo?
Perciò è importante accogliere il suggerimento che ci viene da un proverbio arabo il quale ci dice: “Vieni a me con il tuo cuore e io ti darò i miei occhi”.
Ma che cosa significa saper vedere con uno sguardo nuovo, battesimale, miracolato, con lo stesso sguardo di Gesù?
Lo dirò con un aneddoto.
Un vecchio rabbino domandava un giorno ai suoi allievi di indicare il momento in cui la notte finisce e incomincia il giorno.
“Forse è quando si incomincia a distinguere nettamente un cane da una pecora?”
“No” rispose il rabbino.
“Forse è quando si incomincia a distinguere una quercia da un albero di fico?”
“No” ripose ancora il rabbino.
“Ma allora, quando?” domandarono gli allievi.
“Quando, guardando il volto di qualsiasi persona, riconoscerai tuo fratello o tua sorella.
Fino a quel momento fa notte nel tuo cuore”.
Se si è uniti a Cristo, si condivide lo sguardo di Cristo e si diventa portatori di luce come il cieco del vangelo dopo il miracolo.
Non importa il grado di intelligenza.
Non servono i titoli della cultura ufficiale. Non è nemmeno necessario parlare.
Basta esserci.
Con lo sguardo di chi ha incontrato Cristo.Portando sul volto un’impronta di luce.