domenica 21 dicembre 2008

VI Domenica di avvento

Luca 1 26-38

Bisognerebbe leggere i testi di questa liturgia con l’animo aperto a un infinito stupore.
Come quando da piccoli ci capitava di ascoltare una storia meravigliosa, con gli occhi che brillavano per la dolce emozione.
Perché tutto ciò che ci viene raccontato è nel segno della novità, della sorpresa, dell’incantamento.
E non si tratta di una favola, ma di una realtà che ha la leggerezza di una favola.
Protagonista assoluto di questa narrazione è Dio, o meglio, la fantasia di Dio.
E’una fantasia, quella di Dio, che noi stentiamo a seguire in tutti i suoi imprevedibili percorsi.
Dico “noi” occidentali, che ci siamo arresi alla dimensione della razionalità tecnologica mortificando la immaginazione e gli slanci del cuore.
Anche il nostro mondo religioso soffre di queste angustie se è vero che siamo tutti pronti a riconoscere che “nulla è impossibile a Dio” (come dice a Maria l’angelo dell’annunciazione), ma di fatto pretendiamo di essere noi a governare la volontà di Dio, con il risultato di vivere una religione dove tutto è scontato, prevedibile, risaputo e perciò noioso; dove anche Dio diventa noioso, in quanto creato a nostra immagine e somiglianza.
Ma Dio è libertà totale, è novità, è sorpresa.
E’ un Dio che non può essere relegato negli spazi ristretti che noi gli assegniamo.
“Lo Spirito santo scenderà su di te…su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”: è stupenda nella sua profondità e delicatezza questa espressione.
Si parla dunque di Dio, di un Dio che discende e quasi dimentica la sua dimora eterna per dimorare in mezzo agli uomini.
E dove Dio intende porre la sua nuova dimora?
Dire che la casa di Maria è il nuovo tempio di Dio è qualcosa di vero e insieme di non completamente vero.
La dimora sarà ancora più piccola per colui che è l‘immenso e l’eterno: la dimora sarà la carne di Maria..
Il grembo di Maria è l’arca, la tenda, il tempio di Dio.
Ma neppure quest’ultima affermazione esprime tutta la novità del vangelo.
C’è un altro tempio, più piccolo ancora, più segreto: un nulla di tempio.
E’quel germe di carne che prende vita nel ventre di Maria: in quel niente si rivela l’inaccessibile e l’invisibile Dio.
Mistero immenso la venuta di Dio fatta di soffio e di ombra, mistero stupendo se si pensa che la salvezza non è significata in questo racconto da una perfezione morale conquistata a duro prezzo, ma da un abbandono all’azione gratuita di Dio.
“Piena di grazia” così l’angelo saluta Maria: piena cioè dell’amore gratuito di Dio.
La salvezza consiste nel lasciarsi amare.
E’ un messaggio meraviglioso soprattutto per noi che ci troviamo a misurarci con i nostri limiti morali e spirituali, sempre risorgenti perché mai completamente debellati.
Se la salvezza dipendesse unicamente dal proprio impegno volontaristico, chi potrebbe dire di meritarla?
Ma ci conforta sapere che prima di ogni nostro merito, c’è la grazia, c’è un Dio di grazia,.
C’è un Dio che si incarna per amore e perciò è nella nostra carne, nel nostro nascere e morire, nella successione dei giorni e in ciascuna delle nostre giornate.
E questo avviene prima che ce ne rendiamo degni tanto che al nostro fratello ateo potremmo – dovremmo - segretamente confidare: “Tu credi di esserti separato da Dio, ma Dio non si separa mai da te”.
Si diceva all’inizio dello stupore che dovrebbe essere la nota emotiva costante della nostra fede.
Ma per aprirsi allo stupore e per nutrirsi di stupore è importante ascoltare la “musica silenziosa” che accompagna l’ombra così dolce dell’annunciazione.
Di questo ascolto attento e silenzioso, colmo di stupore, Maria nel vangelo è un’immagine esemplare.
L’angelo Gabriele la trova raccolta nella sua casa.
Non è necessario, come hanno fatto tanti artisti, immaginarla inginocchiata a leggere qualche testo profetico o a pregare.
E’ certo invece che il colloquio è avvenuto nel raccoglimento di una piccola casa palestinese.
Può essere che anche a noi Dio mandi un angelo.
Se non ci trova. è perché non siamo in casa.
Voglio dire questo: non siamo raccolti in quella grotta interiore in cui Gandhi amava dimorare,
ma siamo sempre altrove, dispersi in mezzo a mille banalità, a inseguire interessi senza spessore.
Chi è capace ancora di trovare uno spazio di silenzio per ascoltare una voce che venga dalla profondità di Dio?
Dovremmo perciò, preparandoci al Natale, affidare al Signore questa preghiera:
“Signore, abbiamo capito che la tua parola non ama le piazze e le ribalte, ma i silenzi colmi di attesa.
Salvaci dalle parole inutili, le nostre e quelle degli altri.
Fa’ che troviamo la via di casa dove possa avvenire anche per noi un annuncio portatore di gioia
E fa’ che a nostra volta possiamo diventare angeli dell’annunciazione per tanti nostri fratelli.
E’ bello sentirsi inviati a dire: “Rallegrati. Il Signore è con te. Tu sei benedetto.
C’è Dio che dice bene di te, si compiace di te, perché vede in te i lineamenti del figlio suo Gesù”.
E fa’ che tutto questo avvenga nella gioia di ricevere e di poter donare.
Come Maria che correrà da Elisabetta a cantare il magnificat”.

domenica 7 dicembre 2008

IV Domenica di Avvento

Isaia 16, 1-5
Salmo 149
1 Tessalonicesi 3, 11-4,2
Marco 11, 1-11

Gesù fa il suo ingresso in Gerusalemme.
Perché la liturgia ci propone questo racconto in tempo di avvento?
Non è difficile capire.
La venuta del Signore si attua dentro il tessuto delle relazioni umane, là dove ci sono persone che lavorano, soffrono, sperano, cercano di dare un senso positivo alla loro vita.
Per questo Gesù non può ignorare la grande città.
Noi siamo soliti dire, con una espressione che è diventata oramai abituale, che la vita in città è stressante.
Forse lo stesso lamento era diffuso al tempo di Gesù.
La città è infatti il luogo della complessità, della competizione, di una certa durezza di rapporti,
Su Gerusalemme poi gravava la fama di essere una città scomoda per i profeti.
Fossimo stati noi accanto a Gesù, gli avremmo dato questo consiglio: “Non entrare in città. Perché vuoi andare proprio là dove sarebbe prudente non andare?”.
Ma il Signore non si è incarnato per seguire i nostri accorgimenti prudenziali.
Incarnazione vuol dire immersione in tutta la realtà umana, anche in quella più problematica e sgradevole.
Per questo il consumarsi dell’incarnazione esigeva che Gesù affrontasse la grande città con tutte le sue tensioni e contraddizioni.
Oramai la strada è tracciata anche per chi si dice discepolo di Cristo.
Il cristiano non è colui che si ritira nella sua tenda ignorando tutto quello che avviene attorno, ma è colui che si rende presente là dove si costruisce la città degli uomini.
E’ presente con la sua intelligenza, la sua competenza, con la sua passione di confrontarsi e di collaborare: in una parola, con la sua responsabilità.
Gesù però, entrando nella città di Gerusalemme, non ha soltanto indicato un percorso da seguire, ma ha insegnato alcune modalità fondamentali che dovrebbero caratterizzare la presenza dei cristiani in mezzo alla società.
La prima nota distintiva è quella della mitezza, che è una sorta di fragilità vincente, di leggerezza tenace.
Tutto il racconto di Marco che abbiamo letto suggerisce uno stile di mitezza attraverso immagini e gesti che sembrano compenetrati da un’atmosfera di pace.
Mite è la cavalcatura di Gesù, mite il suo incedere in città
E mite è soprattutto il suo silenzio.
Abituati, come siamo, ai messaggi gridati, urlati, imposti un modo intimidatorio o ricattatorio, la scena del vangelo ci sembra perfino irreale.
A volte anche noi cristiani andiamo a scuola e prendiamo lezione da chi nella società grida di più per farsi ascoltare.
Perché dovremmo essere meno intraprendenti degli altri nel sostenere le nostre ragioni?
Dimentichiamo però una cosa: ciò che vale per una società mercantile quale è la nostra, non vale per il mondo segreto della fede.
Una società mercantile ha bisogno di imbonitori, di piazzisti, di gente che sappia vendere bene la propria merce (e merce può essere anche un programma politico e perfino un comportamento religioso).
La fede si propone invece discretamente, senza pretese.
Non è una mondanità da esibire o una ideologia da difendere.
E’ una germinazione al soffio lieve dello Spirito.
Essa parla a bassa voce, cresce nel silenzio delle parole umane.
In una società mercantile dove il minimo segno di debolezza sembra essere qualcosa di indecente, non ha paura di apparire fragile e perdente.
La sua forza è altrove: in una ragione segreta che non si può conoscere mediante le risorse della mente, ma seguendo le indimostrabili intuizioni del cuore.
C’è un’altra nota che caratterizza l’ingresso di Gesù nel sua città e, di riflesso, la presenza dei cristiani nel mondo.
A Gerusalemme lo attende la morte, ma Gesù non si lascia vincere dalla paura.
Gesù è straordinariamente libero, ed è libero perché è straordinariamente distaccato da tutto ciò che appartiene all’ordine del possesso.
Chi coltiva ambizioni nell’ambito del potere e del possesso, deve adattarsi a certi canoni di comportamento, deve usare certi accorgimenti che mortificano la tua libertà.
Se Gesù è straordinariamente libero, libero anche di fronte alla morte, è perché, avendo dato tutto, non ha più nulla da perdere.
Un’ultima osservazione su questo testo.
Anche se si tratta di un fatto che precede di pochi giorni la morte di Gesù, esso ha anche una strana e segreta parentela con il natale del Signore.
Quali sono le ragioni che ci portano a vedere questa segreta affinità?
Gesù si presenta fragile, indifeso, vulnerabile, come il bambino di Betlemme,
E come quel bambino, è infante, cioè colui che non parla.
A parlare, a cantare, come a Betlemme, sono invece le persone che accorrono intonando un canto che richiama quello degli angeli:
A Natale la pace viene annunciata dal cielo alla terra, qui viene annunciata dalla terra al cielo.
Anche questo racconto è dunque una celebrazione dello spirito d’infanzia in cui si racchiude tutta la spiritualità del vangelo di Gesù.
La pace di cui gode Gesù è come quella di un bambino che si affida tra le braccia protettive del padre.
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” dirà sulla croce.
Credere nell’amore di Dio, lasciarsi amare da Dio, abbandonarsi all’amore di Dio: qui sta il segreto di quella straordinaria serenità che anche noi possiamo gustare, pur attraversando le molteplici prove dell’esistenza.