venerdì 30 maggio 2008

Solennità del Corpo e Sangue di Cristo


Deuteronomio 8, 2-3.14b-16°
Salmo147
1 Corinzi 10, 16-17
Giovanni 6, 51-58

Siamo soltanto agli inizi del cristianesimo.
E‘ un’affermazione che capita di ascoltare e che a me pare di dover condividere pienamente, soprattutto quando si tratta di avvicinarsi ai grandi misteri della fede.
Ho l’impressione che noi ci siamo affrettati a a spiegare, a sistemare, a razionalizzare, con il risultato di rendere più difficile la comprensione dei segreti che Gesù ci ha voluto rivelare.
Gesù non amava come noi le sottigliezze della mente, ma la semplicità di un discorso che si rivolge soprattutto al cuore delle persone.
Cerchiamo di meditare oggi sul dono dell’eucaristia, lasciandoci condurre dalla parola di Gesù con grande docilità interiore, senza la pretesa di volere spiegare anche ciò che di sua natura appartiene alla dimensione del divino.
Che cosa ci ha detto Gesù?
Ha parlato dell’atto del mangiare.
Siamo nell’ordine di un’esperienza che conosciamo tutti, perché costitutiva del nostro esistere.
E il mangiare presuppone la fame, una condizione di indigenza che ha bisogno di essere
guarita.
Per capire, gustare, assaporare l’eucaristia è necessario prendere coscienza della fame che abita dentro di noi e rode in profondità le risorse del nostro vivere abituale.
Si viene alla celebrazione eucaristica non per un senso del dovere o per i valori simbolici che essa esprime, ma si viene perché si è mossi da una fame profonda.
Fame di che cosa?
Potremmo dire semplicemente: fame di vita, fame di tutto ciò che ci permette di dire: “Ora finalmente mi sento vivere”.
Per rimediare a questa fame Gesù ci parla di pane, quasi a ricordarci che non si tratta di un mangiare in senso metaforico, ma di un mangiare concreto, come concreto è un pane che compare sulla nostra tavola, come concreto era il pane che egli aveva moltiplicato per sfamare la folla che lo seguiva.
In uno scritto di Marguerite Yourcenar, intitolato I trentatré nomi di Dio, ho trovato che uno dei nomi è affidato a questa semplice parola: il pane.
Da questo accostamento così sorprendente il pane non viene smaterializzato fino ridursi a realtà solo simbolica.
E’ Dio invece che in qualche modo si rende presente nel pane così che questo viene a intridersi di una luce particolare.
Nell’eucaristia riscontriamo il pieno avverarsi di quel progetto di amore per cui il figlio di Dio è disceso dal cielo, si è abbassato fino a farsi carne e sangue come uno di noi.
Ma con l’incarnazione non aveva ancora toccato l’ultima soglia della sua divina umiltà.
Parlando ai bambini della prima comunione, una volta mi sono permesso di immaginare con loro questa scena.
Nella famiglia di Dio formata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo c’è stato un momento in cui il Figlio, vedendo quanta miseria ci fosse sulla terra, quanta sofferenza nel cuore degli uomini, quanta solitudine anche tra persone che pure condividevano la stessa vita, si commosse profondamente e confidò questo desiderio.”Voglio essere anch’io con queste creature che soffrono. Voglio essere accanto a loro. Non solo: voglio diventare pane per la loro fame di vita.
Sì, voglio diventare pane”.
Ecco perché Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo.
Lungo questa linea di comprensione che del dono dell’eucaristia ci è stata tracciata da Gesù stesso, troviamo parole sconcertanti e perfino urtanti per la nostra sensibilità: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna”.
Ma sono proprio così scandalose queste parole?
Se dicendo “la carne”e “il sangue” Gesù intendeva parlare della sua identità, allora si può intuire il senso meraviglioso di questo discorso.
Cristo non ci dà soltanto una dottrina o un modello da imitare.
E neppure ci dà solo la presenza dell’Emmanuele, del Dio con noi, ma la presenza di un Dio che è in noi come è in noi il pane che noi mangiamo.
Se poteva bastare toccare le frange del mantello di Gesù per sentirsi miracolati, abbiamo mai pensato quale forza potrebbe esprimere l’eucaristia che le liturgie orientali chiamano “fuoco e Spirito”?
Si comprende perché tutto il discorso sul pane disceso del cielo è scandito dalla parola “vita” e dal verbo “vivere”.
Questa riflessione ci permette di renderci conto del valore che hanno le nostre celebrazioni eucaristiche.
Quando possiamo dire di avere partecipato a una messa che fosse veramente viva?
Ci capita talvolta di confidare: “Ho assistito a una bella messa”.
Perché è stata bella?
Forse perché i canti eseguiti dal coro erano stati preparati con molta cura?
O anche perché c’è stato qualcuno che ha parlato molto bene, spiegando il vangelo?
Una messa è bella quando, comunicando con la presenza reale di Cristo, diventiamo noi stessi presenza reale di Cristo nel mondo.
A volte siamo troppo preoccupati di noi stessi.
Ci sono persone che pregano e fanno la comunione per godere della sua presenza pacificante e rassicurante.
Ma non è questo un modo esemplare di vivere l’eucaristia.
Fare la comunione è nutrirsi della sua presenza viva, dei suoi pensieri, del suo amore così da allargare i confini del nostro cuore.
Si è pronti allora a provare pietà per tutti quelli che non credono o che non sperano.
Si è pronti ad apprezzare ogni gesto di generosità e di solidarietà che venga compiuto nel mondo,
anche da chi segue religioni diverse dalla nostra.
Si viene alla messa come mendicanti (si parlava all’inizio di fame) e si ritorna come donatori.
”Ogni volta che noi avviciniamo questo sacramento, dobbiamo uscire dalla chiesa creature totalmente rinnovate perché tutti abbiano gioia, tutti abbiano accrescimento di vita e di speranza“(Giovanni Vannucci).

giovedì 22 maggio 2008

Trinità


Esodo 34, 4-6.8-9
2 Corinzi 13, 11-13
Giovanni 3, 16-18
Iniziando questa riflessione sul mistero della Trinità, vorrei anzitutto esprimere il mio dissenso a proposito di una raccomandazione che un grande santo come Francesco di Sales fece un giorno a un futuro vescovo.
Gli scriveva: "Non predicate al vostro popolo su cose difficili e che risulterebbero di scarsa utilità, come il mistero della Santa Trinità".
Ma come è possibile non toccare questa verità che è al centro della fede cristiana?
Certo si tratta di parlarne con un linguaggio diverso da quello specialistico e tecnico che rischia speso di apparire incomprensibile e di provocare noia e insofferenza.
Non si può infatti negare che, se la Trinità per molti cristiani è un enigma indecifrabile, un rompicapo da lasciare ai teologi, una sorta di labirinto per la ragione, la colpa va cercata in un certo tipo di linguaggio con cui ci si è accostati al mistero con la pretesa di spiegarlo.
Ora il mistero non va spiegato (non si dimentichi che il mistero è una verità troppo luminosa per essere sostenuta dall’occhio della nostra mente), ma richiede il coraggio di immergersi, di lasciarsi sommergere, di perdersi dentro.
Per questo, quando una persona mi dice. "Io nella Trinità mi ci perdo", mi verrebbe voglia di dire: "Lei è sulla strada giusta.
E’ bello pensare che non esistono spiegazioni per ogni cosa. Si può provare perfino gioia in presenza del mistero. E’ la gioia di scoprire che c’è qualcosa che ci supera, che tutto non può essere ridotto a razionalità, che per fortuna Dio si sottrae alla nostra pretesa di volerlo racchiudere dentro i nostri involucri culturali e che la conoscenza di Dio è un problema che riguarda il cuore più che la mente, la contemplazione più che il ragionamento".
Se o qualcuno mi dicesse: "Mi parli lei della Trinità", sarei tentato di sconcertare non poco il mio
interlocutore dicendo:"Io non credo nella Trinità. Del resto, la parola Trinità neppure esiste nelle scritture.
La mia fede è semplice.
Credo in Gesù Cristo, in tutto quello che ha detto, ha insegnato e ha fatto.
Sono certo che Gesù è l’immagine più luminosa e più trasparente di Dio a cui si rivolgeva chiamandolo Padre.
Gesù ci ha parlato del Padre rivelandoci che anche noi siamo figli suoi.
Ci ha parlato anche dello Spirito Santo e ce lo ha mandato come sua memoria vivente, perché traducesse il vangelo nel linguaggio degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Ci ha fatto capire che Padre, Figlio e Spirito sono uniti in una sorta di cospirazione che è unicamente il respiro dell’amore.
Ecco un’elementare professione di fede trinitaria in cui deve contare più lo stupore che la preoccupazione di capire.
C’è da rimanere stupiti, perché si tratta non di una verità fredda e geometrica, ma calda e palpitante.
Il nostro Dio non è un Dio monolitico, che si possa evocare con l’immagine di un blocco solo, ma è un Dio in cui c’è la dimensione dell’alterità, della relazione, della comunicazione.
La Trinità è il luogo per eccellenza del dare e del ricevere, e dunque il luogo per eccellenza dell’amore.
C’è da chiedersi, a questo punto, se la Trinità sia, oltre che un mistero difficile da spiegare, anche una verità di scarsa utilità, come sembra suggerire lo scritto di Francesco di Sales a un futuro vescovo.
In realtà essa è una verità che racchiude cd esprime tutta la forza del vangelo.
Essa non è altro che amore.
Per questo non si riesce a capire come sia stato possibile, anche nel mondo cristiano, associare la violenza al nome di Dio.
Tutte le volte che i cristiani hanno esercitato la violenza, perfino per imporre agli altri la propria fede cristiana, hanno messo in atto la peggiore eresia contro il cristianesimo.
E’ la peggiore, perché colpisce al cuore il cristianesimo nel suo valore fondamentale e irrinunciabile che è l’amore.
Ed è un’eresia che purtroppo si trascina nel tempo.
"Dio ha tanto amato il mondo" abbiamo letto nel vangelo di Giovanni.
Il nostro non è un Dio che giudica e punisce, ma è un Dio che ama, che chiama, che perdona, che vuole salvare tutti.
Il mondo di cui parla Gesù nel colloquio con Nicodemo non è soltanto quello delle persone perbene che godono di una sistemazione decorosa all’interno della società.
Il mondo che Dio ama è rappresentato anche da coloro che non ameremmo trovarci accanto, la cui presenza ci infastidisce perché li consideriamo un pericolo per la nostra sicurezza.
D’accordo c’è bisogno di leggi che impediscano il ripetersi di certi gesti di prepotenza e di violenza a cui sono esposte soprattutto le persone più fragili e indifese, ma guai se queste norme dovessero essere elaborate e interpretate con un senso di sospetto e di diffidenza nei confronti di chi è diverso da noi.
Ogni forma di razzismo e di intolleranza è una negazione di quel Dio che oggi si rivela a noi come relazione, come amore vissuto, sperimentato, condiviso.
Il mistero della Trinità non è dunque una verità di scarsa utilità, ma è una verità di drammatica attualità.
Dopo avere visto qual è la negazione più grave del nome di Dio, bisognerebbe che ci domandassimo qual è per contro la realtà che meglio lo esprime e lo rappresenta.
Di immagini ne sono state utilizzate tante.
Ma io preferisco quella proposta da un grande maestro di spiritualità del nostro tempo, Maurice Zundel, il quale ha scritto che "la famiglia è la più bella parabola dell’Eterna Trinità".
Bisognerebbe certo pensare alla famiglia ideale in cui nessuno cerchi di possedere l’altro riducendolo alla propria misura, ma ciascuno viva dell’altro e per l’altro, rispettando la sua diversità e originalità.
Se poi all’interno della famiglia si volesse cercare qualche momento che meglio di ogni altro esprima una consonanza con il mistero trinitario, a me pare che si dovrebbe pensare alla esperienza della preghiera e del perdono.
Per quanto riguarda la preghiera, non penso soltanto alla preghiera rivolta a Dio, che è esperienza di dialogo, di ascolto e di confidenza, ma anche allo stile di preghiera che dovrebbe esistere tra tutti i componenti dell’unità famigliare per cui non si immagina che qualcuno possa imperiosamente dire: "Tu devi".
La categoria dell’obbligo,che è la negazione dell’amore, dovrebbe cedere alla categoria della fiducia e dell’attesa.
E con questo stile di preghiera dovrebbe esserci il gusto di perdonarsi e di inventare una riconciliazione dopo ogni possibile contrasto.
A questo modo non solo si vive a somiglianza di Dio, ma si arriva a conoscere meglio il nostro Dio.
Diceva Van Gogh in una lettera al fratello Theo: "Involontariamente sono sempre portato a credere che il mezzo migliore di conoscere Dio sia di amare molto. Ama un amico, una persona, una cosa, quello che vuoi tu. E sarai sulla buona strada per saperne di più…".
Se amassimo di più, forse ci sarebbe dato di capire di più anche la Trinità.
Perché (è un’osservazione di Paolo Ricca) " Dio non va pensato, ma va vissuto.
E il modo più adeguato per vivere Dio è amare".

lunedì 12 maggio 2008

Pentecoste


Atti 2, 1-11
I Corinzi12, 3-7.12-13
Giovanni 20, 19-23

Si è soliti pensare che la chiesa abbia avuto inizio il giorno di Pentecoste, con il dono dello Spirito.
Oggi, ricordando quel giorno, ci domandiamo: “Qual è l’idea o il modello di chiesa che Gesù ha voluto trasmetterci con i prodigi della Pentecoste?
In altre parole: come dovrebbe essere la chiesa voluta da Cristo?”.
La chiesa deve anzitutto sentire di avere un’anima.
E l’anima della chiesa è appunto lo Spirito, il soffio vitale, il respiro che Gesù comunica ai suoi discepoli.
Nel vangelo è detto che Gesù “alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo”.
Come Dio aveva fatto un tempo con Adamo, così Gesù comunica con il soffio della sua bocca la vita nuova che dà origine alla sua chiesa.
Perciò ogni discorso sulla chiesa non può ignorare questo suo inscindibile rapporto con lo Spirito.
Senza lo Spirito, che cosa sarebbe mai la chiesa?
Sarebbe un’istituzione puramente umana, tale cioè da poter essere interpretata in termini puramente umani.
E’ quello che capita spesso di dover costatare nei discorsi riservati alla chiesa dai mass-media, sia dalla stampa che dai diversi canali televisivi.
Della chiesa si osserva in particolare l’incidenza che può avere in certe congiunture politiche o nella soluzione di gravi problemi di ordine etico.
Questo modo di giudicare la chiesa può essere assunto anche da molti credenti.
Ci si ferma unicamente su certi aspetti esteriori, si esprime consenso o dissenso a partire da certi fatti contingenti, si fanno previsioni sulla sua durata nel tempo come per qualsiasi altra organizzazione umana.
In ogni caso, s’è persa memoria della sua origine pentecostale.
Ora bisogna restituire alla chiesa quel nucleo di irriducibile mistero che la distingue radicalmente tra tutte le forze operanti nella società.
Di questo mistero cerchiamo di cogliere certi aspetti che sono messi in evidenza dalle letture di questa solenne liturgia.
Uno sguardo, anzitutto, su quel manipolo di uomini che si trovano asserragliati dietro porte saldamente chiuse. Per la paura.
Sono gli ultimi testimoni di un’avventura che si è conclusa ed è finita male.
Non resta loro per sopravvivere che un rifugio di pochi metri quadri, stretti tra quattro mura.
Il loro nascondiglio è una prigione; la loro casa, una tomba.
Questa rappresentazione può trovare consonanze profonde nel mondo d’oggi.
Voglio dire questo: la chiesa di oggi è una chiesa che sembra avere perso la capacità di sperare.
Guardiamoci attorno, anche all’interno delle nostre chiese.
Non è forse vero che ci sembra di non vedere se non volti abbuiati, incupiti da un clima di pesantezza che si respira nella nostra società?
E a sentire certi discorsi, è un continuo lamentarsi, lamento che si aggiunge a lamento, creando uno stato di generale depressione.
Non è certo il caso di coltivare un superficiale e astratto ottimismo, quando non passa giorno senza essere raggiunti da notizie e immagini terrificanti di delitti, di perversioni, di lutti.
Come è possibile continuare a sperare?
Se lo chiedono oggi tanti giovani ai quali come chiesa non sappiamo offrire altro se non parole di paura e di sfiducia., imprigionati, come siamo, dentro la nostra abituale, sterile lamentosità.
Assomigliamo troppo alla chiesa paralizzata dalla paura, prima che fosse visitata dallo Spirito.
Ma è bastato che Gesù si rendesse nuovamente presente con il dono dello Spirito, per assistere a un radicale cambiamento.
La porta, prima sbarrata, diventa un passaggio verso la libertà, i discepoli prima fuggiaschi si trovano ad essere degli inviati.
E il soffio dello Spirito deborda le frontiere della chiesa ed abita oramai il cuore di ogni uomo di buona volontà.
A Pentecoste nasce quella che qualcuno ha felicemente definito la chiesa dello stupore.
Non che i discepoli uscendo dalla loro casa-prigione si proponessero di stupire, di sbalordire, di impressionare. No.
La meraviglia è nata spontaneamente negli ascoltatori i quali avevano l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di insolito e di inspiegabile, di mai visto o sentito.
Coloro che li stavano a sentire non potevano fare a meno di porsi una serie di interrogativi:
“Non sono tutti Galilei?... Com’è che li sentiamo parlare ciascuno la propria lingua nativa?”.
Noi apparteniamo a una chiesa la quale si preoccupa eccessivamente di spiegare, di istruire, di offrire certezze.
Ma la chiesa voluta da Cristo dovrebbe preoccuparsi principalmente di seminare interrogazioni.
Lo stupore di cui si diceva nasce infatti non di fronte alle spiegazioni, ma dinanzi al mistero, a contatto con l’inspiegabile.
A questo punto si pone il problema del linguaggio.
Quale lingua dovremmo usare per essere fedeli all’azione dello Spirito che ci è stato donato?
Quando si parla delle cose di Dio, non serve la lingua degli specialisti, degli eruditi, della gente che sa.
Ho trovato nella predica di un parroco questa stupefacente confessione:”Io non so parlare le lingue. Sono negato, ma non mi cruccio più di tanto.
Mi accontenterei di parlare la vostra lingua, quella che impiegate nella vita quotidiana.
Dirò di più. Mi accontenterei di saper parlare e basta. Ossia: arrivare al vostro cuore per la via diretta, senza astruserie e complicazioni, ma con un timbro di schiettezza e di semplicità”.
Fossimo capaci di parlare con questo stile, fossimo capaci di trasmettere con le nostre parole il dono della pace e del perdono che il Signore ha voluto associare al dono dello Spirito.
Non celebreremmo la pentecoste come un evento lontano, ma come un evento che segna la nostra storia personale, perché protagonisti siamo noi, presenti nel mondo a testimoniare che la speranza è possibile.
E nascerebbe una chiesa non più dominata dalla paura e dalla sfiducia, ma una chiesa dello stupore perché aperta all’azione dello Spirito che fa nuove tutte le cose.

sabato 3 maggio 2008

Ascensione


Matteo 28, 16-20

Gesù ci la lasciato una promessa.”Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Ma della sua presenza noi non abbiamo prove evidenti.
L’ascensione inaugura il tempo della presenza invisibile di Gesù.
Perciò è facile essere assaliti dal dubbio e presi dallo sconforto.
Vorremmo sentirlo vicino, soprattutto nei momenti di solitudine e di abbandono:”Signore, dove sei? Perché ti sento così lontano quando avrei bisogno di essere da te guidato e incoraggiato?”.
Se ci capita talvolta di esprimere questo lamento, vuol dire che Gesù è assente?
Può essere al contrario che Gesù voglia farci provare ciò che Rilke chiamava “assenza ardente”.
E’ un’assenza ardente perché nasconde una presenza che inquieta le coscienze con una profonda nostalgia e accende gli occhi dello spirito così da penetrare dentro la nube dell’invisibile.
Ecco perché la tradizione della chiesa ha inventato l’espressione fides oculata: c’è la convinzione che la fede sia dotata di uno sguardo particolare che permette di vedere ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto.
Se non avessimo questo sguardo più profondo, come potremmo cogliere i segni della presenza invisibile di Cristo?
Sono segni a volte minimi, piccole tracce di passi appena disegnati sulla sabbia.
Ma per chi si lascia conquistare da questa avventura dello spirito sotto le movenze di un’assenza ardente, ogni traccia può diventare motivo di stupore.
Succede allora che, in qualche momento di grazia, gli occhi riescano a vedere: l’invisibile viandante è lì che ci attende.
Il Cristo può svelare la sua presenza dove c’è una comunità che prega e, ricevendo il pane eucaristico, condivide il dono di una vita interamente consumata nell’amore.
Il Signore lo possiamo riconoscere in ogni umile servitore del vangelo.
Non è forse vero che ogni santo autentico (non sono pochi: li incontriamo ogni giorno) è vangelo vivo e sacramento della presenza di Cristo?
Nella realtà quotidiana sono infinite le tracce della sua presenza.
Il Signore è nello sguardo di coloro che si amano.
Quando vedo due giovani che si vogliono bene, mi dico: “Forse non lo sanno (nessuno glielo ha mai detto), ma essi possono scambiarsi il dono più grande.
E’ come se si donassero la presenza amica del Signore”.
Il Signore è presente nel prodigio di un sorriso che illumina il volto, al di là di ogni parola; è nelle mani che sanno modellare gesti di altruismo, rivestiti di semplice, sovrumana bellezza., è nel nostro cuore, quando nel silenzio si apre all’ascolto della sua voce.
Questa è la meravigliosa avventura che ogni cristiano è chiamato a vivere, da quando Cristo è salito al cielo.
Ma di questa avventura c’è un altro aspetto, che pure è fondamentale.
Noi non siamo soltanto cercatori della presenza invisibile di Cristo, ma di questa presenza dobbiamo essere, al tempo stesso, creatori.
Possiamo capire meglio se ascoltiamo il messaggio ultimo di Gesù, riportato nel vangelo di Matteo: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”.
Sono parole che racchiudono questo invito: “Tocca a voi, ora, moltiplicare i segni della mia presenza.
Tocca a voi, ora, rendere visibile la misericordia, il perdono, la speranza che vi ho testimoniato e trasmesso da quando vi ho chiamati a seguirmi”.
“Andate” : non possiamo non provare una dolce incredulità pensando di poter essere strumenti della presenza di Cristo nel mondo: siamo noi, ora, a rappresentare lo sguardo di Gesù, le mani di Gesù, il cuore di Gesù.
Ma al tempo stesso non possiamo non avvertire la responsabilità di questo compito che ci viene affidato.
Ci lamentiamo a volte perché il mondo va perdendo i valori elementari della tradizione cristiana.
E’ vero: sarebbe fin troppo facile fare una diagnosi assai desolante della situazione in cui ci troviamo.
Penso ai giovani che hanno fame di immensità e di assoluto: che cosa offre loro questa società mercantile se non cose di immediato consumo e, prima ancora, l’ideologia insidiosa del profitto, del cinismo e della competizione?
C’è una divergenza feroce tra la fame che li abita (fame di Dio) e il nutrimento che viene dispensato loro, tanto che sono in molti a rimpiangere a quaranta anni di distanza il famoso ’68 perché allora, sia pure confusamente, si viveva una stagione caratterizzata da grandi slanci verso un futuro diverso.
Di fronte a questa situazione è doveroso domandarsi:che cosa facciamo per tenere accesa la presenza di Cristo?
Che cosa fanno i genitori nei confronti dei figli?
“Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura” ci dice Gesù.
Che sia un parroco a parlare del vangelo, è un fatto scontato che può lasciare indifferente chi lo sta ad ascoltare, ma quando a parlarne è qualcuno che appartiene al tuo mondo e condivide i tuoi stessi problemi, allora la sua voce ti raggiunge e ti scuote.
E’di questi testimoni che il mondo ha bisogno, di persone che abbiano uno sguardo accogliente, che sappiano educare anzitutto al silenzio e all’ascolto, che sappiano rammentare le parole del vangelo con tutto il fervore gioioso della loro fede e insieme con tutta la delicatezza e il rispetto che Gesù ha sempre dimostrato nei confronti della libertà di ciascuno.
Il mondo ha bisogno di persone che, facendo memoria del movimento ascensionale di Cristo verso la casa del Padre, si dimostrino capaci di dilatare il loro sguardo fino ad abbracciare in un gesto di simpatia tutta la realtà.
Si sa che quanto più si guadagna in altezza, tanto più l‘orizzonte si allarga.
Vivere l’ascensione del Signore comporta un mutamento di prospettiva.
Si tratta di ampliare lo sguardo interiore per sentirci in comunione con tutto ciò che esiste, con tutti gli esseri, al di là di ogni particolarismo, di ogni distinzione di razza o di civiltà, di fede politica o di fede religiosa.
Il cristiano è un essere di comunione, chiamato a dimostrare nei confronti di tutti uno spirito di fraternità.
Perciò il cristiano che sia pronto a condividere oggi la logica delle esclusioni e delle contrapposizioni, sarà saggio secondo lo spirito del mondo ( confortato anche dal fatto di trovarsi in buona compagnia), ma semplicemente avrà rinunciato a essere cristiano.
Il mondo ha bisogno di persone che facendo memoria del movimento ascensionale di Cristo, sappiano suggerire inoltre questa straordinaria verità che cambia il senso di tutta la nostra esistenza: il nostro destino non appartiene all’effimero e al provvisorio, perché dentro questo mondo chiuso Cristo ha aperto un passaggio verso la pienezza della libertà e della vita, verso la nube dell’invisibile dove tutto si raccoglie e viene custodito nell’amore di Dio.