venerdì 23 ottobre 2009

Dedicazione della chiesa cattedrale - 2009

Giovanni 10, 22-30

Il tempio (oggi è la festa che ricorda il tempio più importante della diocesi, il Duomo) suggerisce diverse riflessioni che toccano il tema della presenza di Dio nella nostra vita.
Il tempio sembra offrire subito una risposta: Dio lo si può incontrare proprio lì, in quella casa che gli uomini hanno costruito per lui.
Ma questa risposta non soddisfa pienamente, perché è troppo riduttiva nei coti di Dio, il quale attraverso le parole di Gesù alla Samaritana, già aveva fatcapire che non intendeva limitare la propria presenza né al monte Garizim, dove si trovava il tempio dei Samaritani, né a Gerusalemme dove si trovava il grande tempio dei Giudei .
E’ importante perciò contemplare l’immagine del tempio per vedere le correzioni o le precisazioni
che bisogna apportare all’idea che esso sia la casa di Dio.
Il tempio, per quanto grande, è limitato, e Dio è presenza senza confini.
“Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo agli inferi, eccoti” leggiamo nel salmo 138.
E’ giusto pensare che Dio voglia legare la sua presenza a qualche luogo particolare (la dimensione corporea ee del nostrre ha bisogno di riferimenti concreti), ma senza mai dimenticare che, uscendo da un tempio, Dio lo possiamo ancora incontrare in ogni immagine del creato e ad ogni svolta del nostro cammino.
Ogni cosa per chi ha lo sguardo affinato può diventare segno e sacramento della presenza
di Dio.
Ma Dio ama farsi trovare soprattutto nelle creature umane,che perciò diventano icone viventi di Dio.
Ricordo una frase di Duhamel: “E’ tra le ciglia di un piccolo che i giusti intravedono Dio tre o quattro volte nella loro vita”.
Ma è anche vero che i giusti, cioè quellio uno sguardo puro, possono vedere Dio in ogni volto.
E’ certo che Dio non ama farsi rinchiuderspazi troppo ristretti, ma è amante di spazi liberi e aperti, dove palpiti una luce di bellezza o una nota di tenerezza.
Ripartiamo, per un’ulteriore riflessione, dal tempio.
Il tempio di pietra è una costruzione statica e inerte, per quanto possa esprimere, come nelle cattedrali gotiche, un movimento verso l’alto.
Questa strutturale immobilità non potrebbe essere immagine di un Dio sedentario che sta immobile su un trono, come garante della legge della tradizione, o anche di una chiesa chiusa nelle sue certezze, separata dalla vita che si vive lungo i sentieri della storia, la dove l’umanità cerca a fatica di vincere la paura o la rassegnazione di fronte a un futuro che sembra ingovernabile?
Anche questa impressione va corretta, perché il nostro Dio non ama l’immobilità.
E’ un Dio nomade sempre in cammino con tutti quelli che sentono la passione di orizzonti sempre nuovi.
Chi ci fa capire questo? E’ stato soprattutto Gesù coche evocano spesso un padrone il quale lascia la sua dimora per un viaggio lontano, non si sa dove.
Lui stesso, Gesù, è sempre errabondo, come pastore (è un’immagine presente anche nel vangelo di questa domenica) che va cercando nuovi pascoli.
Se Dio ama l’avventura, come è possibile che i credenti in Dio siano invece amanti dei recinti chiusi, dell’inamovibilità delle cose, delle tradizioni inerti, della ripetitività senza il gusto e il rischio dell’invenzione?
Ci siamo lasciati guidare, nella nostra riflessione, dall’immagine del tempio di pietra.
Da essa ci è venuta una lezione sulla fede.
La vita di fede è perenne novità, movimento, amore.
Tanti sono i giovani che dicono di non credere più.
In un certo senso li capisco.
Abbiamo dato l’impressione che la fede si debba vivere in spazi ristretti e soffocanti, dove si respira la noia, a contatto con gente che pretende di governare tutti i movimenti di Dio o che nella religione cerca soltanto compensazioni o garanzie oltre quelle di cui già dispone.
Quando riusciremo a capire e che la vventura stupenda nella ricerca di Dio che sempre si lascia trovare (è lui, in realtà, che ci va cercando) e sempre ci porta più lontano, perché, una volta che ci sembra d’averlo raggiunto, è sempre altrove.
Certo, nelle parole di Gesù c’è un cenno a momenti di particolare intimità tra lui e i suoi discepoli, là dove si parla delle pecore che ascoltano la sua voce.
Questa voce sembra promettere una relazione di particolare tenerezza riservata da Gesù ai suoi discepoli, ma non bisogna esaurire questo accenno soltanto nella bellezza dell’ascolto della voce di Gesù.
Questa voce è stata infatti anche un grido di protesta e di indignazione nei confronti di tutte le ipocrisie che Gesù riscontrava nella società del suo tempo.
E’ bene ricordare che Gesù non vuole come discepoli individui indifferenti, apatici, inerti per i quali tutto va bene.
Gesù non si fida dei tipi che, di fronte a certe situazioni vergognose, non reagiscono.
Non è consentito fare finta di niente e rimanere in silenzio. Il Signore, per parte sua, ha scelto parole taglienti nei confronti di situazioni che mortificavano la dignità delle persone.
Credo che sia proprio l’indignazione ciò che manca nel mondo d’oggi e pure nella Chiesa.
L’indignazione dovrebbe essere un diritto fondamentale, anzi un preciso dovere morale.
Eppure materiale per indignarsi, per fare esplodere il nostro sdegno, ce ne sarebbe in abbondanza. Tutte le volte che nella società vediamo trionfare il cinismo, il disincanto, il disamore, la mancanza di un’autentica passione per l’onestà, la lealtà, la giustizia, bisognerebbe sapere reagire con quella santa collera che ci è stata trasmessa da Gesù.
A me dà sempre una grande emozione, entrando in una chiesa come la nostra, il fare memoria di quanti sono passati in questa chiesa, hanno pregato, hanno calpestato e consumato un poco le pietre del pavimento lasciandovi le tracce delle loro devozioni.
Si tratta per lo più di creature oscure che irradiano una bellezza segreta: è la bellezza dell’umiltà, della semplicità, della docilità a un mistero che dà senso al proprio esistere.
Sul cuore dei veri cercatori di Dio passa il vento dello Spirito ed essi diventano frammenti di luce destinati a risplendere per sempre nel firmamento di Dio.

Assunzione della Beata Vergine Maria - 2009

Le feste liturgiche dedicate a Maria, come questa dell’Assunzione, ne celebrano per lo più i privilegi e la gloria.
A queste feste si accompagna spesso una certa enfasi devozionale che, mentre esalta la esemplarità straordinaria di Maria, rischia di farci dimenticare gli aspetti ordinari, quelli rappresentati dai limiti della nostra condizione umana.
Bisognerebbe non dimenticare mai che nei vangeli Maria occupa uno spazio molto modesto, senza alcun accenno a fatti prodigiosi che avessero qualche parentela con la gloria umana.Bernanos lo ha fatto osservare con molta forza. “La Santa Vergine non ha avuto né trionfo né miracolo. Suo Figlio non ha permesso che la gloria umana la sfiorasse”.
Prima perciò di contemplare Maria come regina del cielo, cerchiamo di umanizzarla, di renderla vicina, di vederla come figlia di questa terra.
Del resto, quando ha parlato di umiltà, lei stessa ha invitato a considerare la sua condizione, fatta di incombenze e di adempimenti, che in nulla dovevano distinguerla dalle altre donne di Nazaret.
Come possiamo immaginare le sue giornate?
Era una casalinga, diremmo oggi, che si occupava delle faccende di casa, come quella di attingere acqua all’unica fonte del villaggio e di lavarvi i panni in compagnia di altre donne.
Era una madre di famiglia che doveva seguire con trepidazione la crescita del figlio.
Era la moglie di un artigiano del villaggio che doveva temere per tutte le incertezze economiche legate al lavoro.
Bisognava perciò fare tante piccole economie e cogliere tutte le occasioni possibili, soprattutto al tempo del raccolto, per integrare con qualche guadagno supplementare le poche risorse disponibili.
In quella casa non si conosceva la ricchezza.
Maria dunque è stata una donna come tante altre, in quel villaggio della Galilea.
Come ha potuto, da questa condizione di radicale umiltà, elevarsi così tanto da raggiungere, anche con il corpo, il Figlio nella gloria della risurrezione?
La risposta la troviamo nelle parole del Magnificat e di Elisabetta
“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” dice Maria.
Ed Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”.
Maria rivela un’esistenza che si lascia colmare dai doni di Dio, dalle cose grandi che Dio ama realizzare nelle persone umili.
Trovo molto bella questa osservazione di un autore francese: ”Il vero possesso si realizza solo nell’abbandono. Si posseggono solo i regali, non le prede”. (Jean Bastaire).
Noi che abbiamo l’abitudine di mettere su tutte le cose le nostre mani possessive e predatrici, le perdiamo.
Maria invece ha offerto un cuore accogliente e riconoscente al dono di Dio (“Ha creduto” come dice Elisabetta) e questo dono ha preso dimora in lei, prima nel suo grembo di madre, poi nella sua casa di Nazaret e nel suo cuore di discepola del Figlio.
All’interno della sua vita ordinaria ha dato spazio all’azione di Dio di cui ha sentito il fascino e la forza ascensionale tanto da essere anch’essa associata allo slancio della risurrezione.
A pensaci bene, non poteva avvenire diversamente.
Aveva detto Gesù:“ Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte) (Gv 8, 51).
Chi più di Maria ha prestato un ascolto fiducioso e docile alla parola di Gesù?
Del resto, è una legge dell’amore che chi ama, venga a trovarsi là dove è la persona amata.
Elias Canetti ha scritto: “Chi ama, va in giro con un cuore altrui. Chi muore, porta con sé nella tomba il cuore di un altro e il suo cuore continua a vivere in un’altra persona”.
Alla luce di questa verità , possiamo dire che Maria, il giorno della Assunzione, ha ritrovato il suo cuore in Gesù e Gesù ha ritrovato il suo cuore nella madre, per sempre unita a lui nella gloria.
Che cosa ci suggerisce questo mistero di Maria che valga a trasfigurare un poco le nostre esistenze?
Oggi Maria non solo ci insegna le vie del Vangelo, quelle, in particolare, della umiltà, della , semplicità, della accoglienza fiduciosa e gioiosa dei doni del Signore, ma, come vangelo tradotto in immagine di pura bellezza, ci indica quali sono gli orizzonti ultimi della nostra vita che danno un senso a tutto quello che stiamo vivendo.
Maria ci aiuta a fare memoria del nostro futuro.
E poiché ci è promesso un futuro di luce e di bellezza, questa luce può trasfigurare già la vita presente e ci consente di amarla anche quando ci sembra greve e opaca.
Questa luce trasfigura in particolare l’opacità dei nostri corpi.
Un riverbero della luce dell’ assunzione si riflette su tutti i corpi,, sui corpi provati dalle malattie,sui corpi umiliati delle prostitute, sui corpi inerti delle persone che sentono il peso degli anni-
E d’altra parte la stessa luce esalta il lavoro di tutti coloro che si prodigano nel curare i corpi con grande rispetto della loro dignità.
Il Magnificat dell’Assunzione dovrebbe risuonare oggi soprattutto nelle cliniche e negli ospedali, negli ospizi e nei penitenziari.
Anche nei cimiteri.
L’Assunzione è come il riflesso della luce pasquale, una sorta di arcobaleno su un cielo ancora tempestoso o come l’eco di quell’alleluia che ha salutato nel cuore della nostra fede il grande evento della risurrezione.