lunedì 27 ottobre 2008

XXX Domenica del tempo ordinario


Esodo 22, 20-26
Salmo 17
I Tessalonicesi 1, 5-10
Matteo 22, 34-40

Di solito si dice che l’originalità del cristianesimo va ricercata nel comandamento dell’amore.
Non è esatto.
Anche altre religioni predicano l’amore fino a raccomandarne le espressioni più alte come il perdono e la benevolenza verso i nemici.
L’uomo giusto – è un frammento della saggezza che viene dall’India – è come l’albero del sandalo che profuma la scure che lo abbatte.
E di Budda si racconta che, essendo vissuto in una precedente esistenza come lepre, si gettò nella padella dei cacciatori quando li vide affamati, perché rimasti quel giorno senza preda.
A ogni modo, il comandamento dell’amore si trova già nell’Antico Testamento.
E’ il caso di richiamare il precetto che si legge nell’Esodo: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse”.
E sempre nell’Esodo si trovano altri passi interessanti come questo: “Se vedi cadere sotto il suo carico l’asino di chi ti odia, non passare oltre, ma insieme a lui aiuta l’animale a rialzarsi”.
Qualcuno vede l’originalità dell’insegnamento di Gesù nell’aver fatto di due precetti un solo precetto.
Effettivamente, alla domanda del dottore della legge: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”, Gesù risponde prima sdoppiando e poi riunendo: i comandamenti fondamentali sono due, ma essi si trovano così strettamente intrecciati (“il secondo è simile al primo”) da formare un solo comandamento.
La novità è data piuttosto dalle parole seguenti: “Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti”.
Si sa che la legge era qualcosa di assoluto per Israele e, assieme alla legge, la parola dei profeti che aveva attualizzato le istanze più autentiche della legge.
Gesù con la sua risposta viene a dire che c’è qualcosa di più alto anche rispetto alla legge, qualcosa che nella scala dei valori rappresenta il vertice e la sorgente da cui tutto discende.
Prima c’è l'amore, poi la legge morale.
L’amore, in questa sua risposta, non ha più il carattere di un dovere, ma appare come il principio sorgivo della vita morale, il battito essenziale dell’esistenza, il respiro e il senso di tutto.
Il problema è di sapere come si possa arrivare a questa esperienza gioiosa dell’amore.
Per riuscire, bisogna anzitutto entrare in rapporto con un Dio amabile.
Se Dio lo sento distante o incombente o temibile, come potrei amarlo?
Potrei amare Dio se mi si presentasse unicamente con i caratteri della sua onnipotenza?
Ci sono immagini di Dio che respingono e suscitano perfino orrore.
Se Gesù ci parla di amore, è come se ci dicesse: “Dio va amato perché è amabile, E’ una presenza incoraggiante e affascinante. E’ un volto di ineffabile tenerezza. E’ un Tu di comunione e di condivisione”.
Più difficile da capire come possa essere amabile il prossimo.
Bisogna ammetterlo: ci sono persone la cui presenza è umanamente sgradevole e perfino scostante.
Ma sarebbe la stessa cosa se noi sapessimo vedere in quelle persone un riflesso almeno della amabilità di Dio?
Una vecchia leggenda indiana racconta che Dio, scontento della malvagità degli uomini, decise di nascondersi.
Ma dove trovare una dimora segreta senza che gli uomini potessero scovarla?
Forse sulla cima di un monte o nella profondità di un mare?
Alla fine decide di nascondersi là dove gli uomini non l’avrebbero mai cercato: nel loro cuore.
E ’ molto bella questa leggenda perché parla di Dio che dimora in noi.
Ma è proprio quello che noi crediamo come cristiani.
Se è vero che Dio si è fatto carne, vuol dire che in tutti gli uomini c’è qualcosa di divino e che lo si ama non soltanto comunicando con lui nella propria interiorità, ma passando anche attraverso la carne, cioè attraverso l’esistenza di ogni fratello che incontriamo.
Da Dio al prossimo e dal prossimo a Dio: non si passa da un tipo di amore a un altro tipo di amore, ma si rimane sempre all’interno di un’esperienza di amore che è unica e indivisibile.
Perciò non ha alcun senso pensare che, quando in una famiglia marito e moglie si vogliono bene ed esprimono il loro amore verso i figli, abbiano sottratto qualcosa all’amore verso Dio e siano tenuti a risarcirlo con qualche pratica di culto.
Ogni espressione di amore che raggiunge una creatura umana, raggiunge al tempo stesso anche Dio che dimora segretamente in quella creatura.
Si può parlare di Dio anche senza parlare di Dio quando si parla il linguaggio dell’amore.
Ecco dove ci ha portati la domanda posta dallo scriba a Gesù: a capire che amare Dio è il comandamento più grande e che questo comandamento non ci separa dalle situazioni normali del nostro vivere, ma si invera attraverso i gesti di bontà, di pietà, di comprensione, di tenerezza che riusciamo a esprimere nella vita di tutti i giorni.

venerdì 24 ottobre 2008

Festa della dedicazione.


Baruc 3, 24-38
2 Tomoteo 2, 19-22
Giovanni 10, 22-30

Anniversario della chiesa cattedrale.
Anche a costo di apparire dissacrante, devo dire subito che la chiesa di pietra interessa fino a un certo punto, molto meno indubbiamente della chiesa di carne, la chiesa viva, fatta di pietre vive, che è la chiesa della fede.
La chiesa di pietra sembra evocare principalmente la dimensione della stabilità e della solidità.
Una chiesa che avesse come modello una di queste superbe costruzioni come il Duomo sarebbe una chiesa nostalgicamente rivolta al passato, ai tempi forti della cristianità, quando era possibile creare queste opere grandiose che esprimevano la fede di tutto un popolo.
Questa nostalgia è comprensibile, ma può essere paralizzante.
C’è il rischio di inseguire l’immagine di una chiesa statica, immobile, preoccupata unicamente della propria sopravvivenza.
Sarebbe una chiesa senza respiro, sempre sulla difensiva nei confronti di un mondo considerato come ostile.
Sarebbe una chiesa che dispensa il proprio insegnamento tradotto in certezze inoppugnabili, mortificando in tale modo gli interrogativi di ogni spirito di ricerca.
Sarebbe una chiesa preoccupata di salvare i riti del passato, come la messa in latino, mortificando in questo caso lo Spirito santo che è spirito di libertà e di creatività.
Sarebbe una chiesa tentata di misurare la propria vitalità sul numero dei praticanti e di distinguere,o peggio di separare, chi è dentro e chi è fuori.
Ma il pericolo maggiore è quello di sequestrare Dio, di tenerlo prigioniero.
Ora Gesù ha sempre difeso la libertà di Dio sottraendolo ad ogni tentativo di volerlo possedere in modo esclusivo, dentro precisi spazi stabiliti dall’uomo.
“Credimi, donna, - aveva detto alla samaritana – è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre (…). Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4, 21.24).
Oggi si sente la necessità di abbandonare questa immagine di chiesa statica, immobile, troppo preoccupata della propria sopravvivenza.
Davanti al mondo deve presentarsi con un’immagine diversa , come realtà viva e palpitante, che non si lascia racchiudere in alcuna costruzione, ma ama spazi aperti, percorsi da inventare, mete da superare.
Questa idea di movimento è suggerita in modo particolare dal vangelo dove incontriamo Gesù che passeggia lungo il portico di Salomone e ama definirsi come pastore buono.
Attraverso questa immagine la chiesa appare come una realtà viva, che si riunisce attorno alla presenza di Cristo, il quale, come pastore buono, la guida con amorosa trepidazione.
L’essenziale non sono dunque le costruzioni, per quanto siano belle le chiese romaniche o gotiche o anche quelle moderne.
L’essenziale sono gli esseri umani.
E’quello che don Michele Do, che molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere e di stimare per la sua grande sapienza evangelica, amava ricordare quando diceva: “Cristo non è venuto a portare l’uomo dentro il tempio, ma il tempio dentro l’uomo”.
Era un modo per richiamare quello che l’apostolo Paolo aveva affermato dicendo:“Voi siete il tempio di Dio” e, prima ancora, quello che ci è stato rivelato nelle prime pagine della Bibbia, là dove è detto che Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, infondendo il suo soffio divino.
Ogni creatura umana perciò non solo è immagine viva di Dio, ma è anche tempio. dimora: “è la tenda di Dio sulla terra”(A. Casati).
La passione di Cristo per ogni uomo e ogni donna si fondava proprio su questa meravigliosa verità.
E ogni discepolo di Cristo deve sentirsi chiamato a testimoniare il suo amore per ogni creatura sulle strade del mondo.
Ciascuno di noi infatti è mandato a evangelizzare nel senso letterale della parola, cioè a portare gioia , soprattutto a coloro che sono discriminati: i poveri, gli emarginati, le persone sfortunate.
L’annuncio è che Dio non discrimina nessuno, neppure i peccatori, bensì li accoglie così come sono, per puro amore.
Sarebbe grave se dessimo l’immagine di un Dio che ama solo alcuni, quelli che sono devoti, pazienti, esemplari in tutto, e non gli altri.
E come potrebbe essere credibile una chiesa che si dimostrasse indulgente con i potenti e fosse invece pronta a intervenire con sanzioni e proibizioni verso quelli che giudica irregolari?
Il Dio di Gesù Cristo è colui che accoglie i non accolti: è un Dio non delle sanzioni, ma della grazia.
Il vangelo di Gesù spazza via tutte le discriminazioni e le esclusioni.
E’ bello immaginare la chiesa come popolo di Dio in cammino, in cui ciascuno si senta accolto e sia pronto a fraternizzare cercando di superare le diversità.
Solo così la chiesa sarà come Gesù l’ha sognata.

domenica 12 ottobre 2008

XXVIII Domenica del tempo ordinario


Matteo 22, 1-14

E’una delle parabole più difficili da interpretare. Anzi gli esegeti ci dicono che si tratta in realtà di due parabole, in origine indipendenti l’una dall’altra, che l’evangelista ha riunito senza preoccuparsi di risolvere tutte le incongruenze.
A proposito di incongruenze, la più vistosa è quella che riguarda l’uomo cacciato dalla sala del banchetto perché privo della veste nuziale.
Come avrebbe potuto indossare quella veste se era uscito di casa senza neppure immaginare di
poter essere invitato a una festa così solenne?
Lasciamo agli esegeti il compito di risolvere questo e altri problemi.
A noi interessa il senso generale del racconto che si dispiega attraverso alcuni momenti essenziali,
a partire dall’invito a partecipare a una festa di nozze.
E’ Dio che invita.
E poiché non si stanca di invitare, si ha l’impressione che Dio, pur essendo padrone di tutte le cose (nella parabola è presentato con l’immagine di un re), abbia bisogno di noi.:
Dio ha bisogno degli uomini era il titolo di un film che ebbe successo molti anni fa.
Dio ha tutto, eppure gli manca ancora qualcosa: non vuole rimanere chiuso nella sua reggia divina, ma desidera aprire le porte, ospitare amici, celebrare la bellezza di questi incontri in un clima di gioia, come per una festa nuziale.
E’difficile per noi immaginare Dio in questa veste così insolita e così sorprendente.
E’la ragione per cui noi, più che attesi con la trepidazione che è propria dell’amicizia, ci sentiamo precettati (si pensi all’uso che è stato fatto del termine precetto), cioè sottoposti a una disciplina che ha il sapore aspro del dovere e della paura.
Succede allora che l’appuntamento con Dio venga da molti accantonato e trascurato.
La parabola ci induce a immaginare la solitudine e la delusione di Dio quando gli invitati non raccolgono l’invito.
Ci pare di vederlo: Dio, dalla sala del banchetto, dove tutto è preparato per la festa, si affaccia per vedere se mai stiano per sopraggiungere gli amici cui ha trasmesso l’invito.
E’ una situazione che si riproduce ogni domenica che è il dies Domini, il giorno del Signore: c’è un Dio che ci attende e molti di noi non si fanno trovare perché prendono altre strade che portano in direzioni diverse.
Il distacco avviene per lo più senza una particolare lacerazione interiore, ma, come si legge nel testo di Matteo (“Non se ne curarono”), per una sorta di indifferenza o di disaffezione o di distrazione.
E’ un fatto che è in atto, nella coscienza di molti, soprattutto nel nostro mondo occidentale, una diffusa erosione della fede.
Che volete? Gesù ci aveva avvertiti tutti: “Dov’è il vostro tesoro, sarà anche il vostro cuore”.
Se il nostro tesoro sta tutto, per esempio, nei registri dei nostri interessi patrimoniali o dei nostri profitti, anche il cuore sarà sequestrato da questi registri.
Perciò il distacco da Dio si consuma in forme eleganti, senza polemiche incresciose, ma mediante un semplice gesto di omissione: l’invito lo si lascia cadere, perché non interessa.
Ma Dio non si rassegna a rimanere solo.
Non sono venuti i farisei e i sacerdoti ai quali aveva rivolto il primo invito?
Verranno altri, i pagani, i pubblicani, le prostitute, gente raccattata ai crocicchi delle strade.
Non vengono più gli invitati del mondo occidentale?
Verranno numerosi altri invitati di altri paesi, soprattutto del Terzo mondo, dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.
Tutti sono invitati, senza distinzione, soprattutto quelli che, per il fatto di sentirsi poveri, non importa se materialmente o spiritualmente, più degli altri sanno apprezzare la prospettiva di entrare nel clima gioioso di una festa inaspettata.
L’unica condizione da rispettare è quella a cui allude la parabola con l’immagine della veste nuziale.
Che significa questo abito nuziale?
C’è un’interpretazione da escludere con fermezza.
Se rappresentasse una condizione di onestà morale e quindi di merito che sarebbe necessario avere per essere accolti nella sala del banchetto, i pubblicani e le prostitute non avrebbero alcuna speranza di partecipare alla festa.
Sarebbe un ripetersi della mentalità farisaica secondo la quale la salvezza è riservata alle persone che ne sono degne perché l’hanno meritata con la loro condotta onesta.
Piuttosto, a proposito della veste nuziale, non è possibile non pensare a quelle parole che il padre del figliol prodigo rivolge ai suoi servi: “Presto, portate il vestito più bello e rivestitelo”.
Sembra di capire che nella casa del padre a noi non è richiesto di portare il vestito più bello, ma di lasciarci rivestire del vestito più bello.
In altre parole, ciò che ci è richiesto è di lasciarci amare.
Ma c’è un altro riferimento interessante: è quello che si trova in una lettera dell’apostolo Paolo dove si legge questa esortazione: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo”(Rm 13, 16).
La veste nuziale è dunque il Signore Gesù.
E indossare la veste nuziale vuol dire sentire che la nostra vita non può rimanere separata da lui, perché è lui il senso, la luce, la speranza, la consolazione più grande.
Da questa certezza dovrebbe nascere una preghiera dolce e appassionata:
“Signore Gesù, rivestimi di te, della tua giustizia e della tua pace, della tua tenerezza e della tua comprensione fino al giorno in cui, sebbene raccattato ai crocicchi delle strade, avrò la fortuna, immeritata, di essere ammesso a una festa incomparabile, al di là di ogni attesa”.

martedì 7 ottobre 2008

XXVII Domenica del tempo ordinario


Isaia 5, 1-7
Salmo 79
Filippesi 4, 6-9
Matteo 31, 33-43

Siamo a Gerusalemme. Qualche giorno prima di Pasqua. Forse sulla spianata del tempio.
Gesù sente che oramai la sua avventura è alla fine, che la sua morte è già stata programmata.
Allora, in una sorta di parabola disperata, si apre totalmente “ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo” intrecciando le sue parole con quelle del profeta Isaia.: “Ascoltate…C ‘è un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi se ne andò”.
Con una sorprendente capacità di sintesi, in forma di catechesi, Gesù li intrattiene sulla loro storia che poi è anche la sua, sulla passione e la pazienza di Dio e sul suo assentarsi come segno di amore, perché essi si rendano responsabili.
E al centro di questa narrazione che diventa sempre più tragica per la violenza dei vignaioli che non sono disposti a riconoscere i diritti del padrone, c’è lui, Gesù, che può dire: “Io sono l’erede; il figlio sono io”.
Cerchiamo ora di richiamare e di approfondire qualche tema di questa parabola, mettendola in rapporto con le situazioni che normalmente ci è dato di conoscere.
Sorprende anzitutto la cura estrema che quel padrone dedica al suo podere per assicurarsi un buon raccolto.
Gesù riprende le parole del profeta Isaia per ridire l’amore di Dio per il suo popolo e per ciascuno di noi.
Come è bella questa immagine di Dio, di Dio appassionato della sua vigna, di Dio innamorato di ciascuno di noi perché siamo noi la vigna del Signore.
C’è un Padre che ci ama con una tenerezza meravigliosa, senza stancarsi mai, tanto da poter dire (sono parole che si trovano in Isaia 5,4): ”Che cosa ancora dovevo alla mia vigna che io non abbia fatto?”.
C’è un canto d’amore che Dio intona sulla nostra vita e che dovrebbe tradursi dentro di noi in un’esperienza di dolce stupore: “Dunque, è proprio vero che tu mi ami così tanto? Che mi ami anche quando, per la coscienza delle mie miserie morali mi sento indegno del tuo amore?”.
Un’obiezione: se Dio ama cosi tanto la sua vigna, perché a un certo punto l’abbandona?
Il padrone infatti della parabola parte, se ne va lontano.
Di solito questa partenza è messa in rapporto con l’ascensione.
Ma Gesù ci mostra che già nell’A.T. Dio si comporta come si comporterà il Cristo dopo l’ascensione quando, dopo aver dato tutto, si sarebbe assentato.
Il Dio dell’alleanza è anche il Dio dell’assenza.
Non si tratta di abbandono, di evasione o di diserzione.
La sua “assenza” è un’altra forma del suo amore.
Dire che il padrone è partito per un viaggio è una bella espressione per dire che Dio ci dà fiducia, ci prende sul serio, ci dà spazio rispettando la nostra libertà.
Ma c’è un altro tema nella parabola, e questo ci rattrista non poco: è il rifiuto che gli uomini oppongono alle iniziative d’amore di Dio.
La libertà che il padrone ha concesso ai vignaioli ha dato loro alla testa.
Si credono proprietari, diventano arroganti, violenti, perfino assassini.
L’errore grave è quello di mettere le mani sull’amore, di volerlo possedere, quando l’amore non si possiede, ma si accoglie,.
E l’amore non si conserva se non donando.
La parabola denuncia la pretesa dell’uomo di farsi proprietario dei doni di Dio.
Questa parabola mette in crisi anche la chiesa quando si ritiene proprietaria della salvezza e si mostra gelosa e avara dispensatrice della misericordia di Dio.
E nella chiesa colpisce in particolare quei cristiani dalle mani chiuse e dal cuore altrettanto chiuso, quei cristiani che si ritengono proprietari del buon diritto, della vera morale, della sola verità, cristiani chiusi nella loro buona coscienza di essere eredi per natura o per merito dei doni di Dio.
Per fortuna ci sono anche cristiani che si mettono al servizio della vigna del Signore, con umiltà e semplicità, perché essa dia il frutto sperato.
Come fare frutto?
Ci può aiutare una frase di Gesù che si trova nel vangelo di Giovanni: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (15,5).
E’ facile capire che noi porteremo frutto nella misura in cui saremo uniti a lui.
Ma se Gesù è il figlio che i vignaioli trascinano fuori della vigna per poi ucciderlo, se è la pietra scartata dai costruttori di cui profeticamente si parla nel salmo 118 citato nella parabola, che senso ha scommettere su di lui tutto il senso della propria esistenza?
A meno che si abbia la capacità di credere che la pietra scartata sia diventa pietra angolare, in grado di reggere tutta la costruzione.
E’ questa la lezione che ci ha trasmesso il cardinale Martini in settimana, presso l’auditorium S. Fedele, sul modo con cui si sta preparando ad affrontare il passo estremo che sente ormai vicino.
E’ stata una lezione di grande fede e prima ancora di grande umiltà da parte del cardinale che, presentandosi senza alcun segno di potere, non ha nascosto le difficoltà “a entrare nell’oscurità che fa sempre un po’ paura”, ma che poi ha trovato il passo della fede per affidarsi totalmente a Gesù:
“Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani”.

venerdì 3 ottobre 2008

XXVI Domenica del tempo ordinario


Matteo 21, 28-32

“I pubblicani le prostitute vi precedono nel regno dei cieli”
Ancora una parola difficile. Un versetto scandaloso.
A chi è rivolta questa sentenza che assomiglia a una invettiva?
I destinatari sono “i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” .
Nella società di allora erano le persone più rispettabili sotto il profilo morale e religioso.
Avevano infatti una grande conoscenza delle Scritture e si impegnavano a mettere in pratica tutte le prescrizioni della legge di Mosè fin nei più piccoli dettagli.
E Gesù ha il coraggio di affermare che nel regno dei cieli queste persone non hanno i posti di onore che vengono loro assegnati nel regno degli uomini.
Non solo. A sopravanzarle saranno “i pubblicani e le prostitute”, persone cioè prive, secondo il modo comune di pensare, di qualsiasi dignità.
Ci si può domandare perché Gesù abbia voluto contestare così radicalmente l’opinione comune con la frase che abbiamo ricordato.
Si potrebbe rispondere citando una delle opere di misericordia che, secondo il vecchio catechismo, parlava della necessità di consolare gli afflitti.
Nessuno meglio di Gesù ha svolto questa azione a favore di tante persone provate da sofferenze diverse.
Gesù al tempo stesso si è preoccupato di affliggere i consolati, di inquietare cioè le coscienze chiuse nel loro perbenismo, appagate della loro posizione sociale e della stima di cui si sentono circondate.
Ecco perché nei loro confronti ha il coraggio di pronunciare parole apertamente provocatorie, non per il gusto di contestare, ma con la speranza di suscitare in loro una reazione positiva che è quella della conversione.
A questo scopo dovrebbe servire anche la parabola narrata nel vangelo: è la storia di due figli che si comportano in maniera diversa.
Entrambi sono invitati dal padre a lavorare nella vigna.
Il primo si rifiuta, ma poi finisce per andarci; il secondo dice di sì, ma poi non ci va.
A chi voleva alludere Gesù raccontando questa piccola storia?
Il figlio che aderisce subito alla volontà del padre, ma solo a parole, noi lo conosciamo troppo bene.
Questo figlio superficiale, ipocrita, pigro siamo noi tutte le volte che diciamo: “Sì, o Signore”, ma senza distaccarci minimamente dalle nostre abitudini e dai nostri principi.
Questo figlio siamo noi con il nostro cristianesimo velleitario, parolaio, inconcludente, con il nostro fervore iniziale che subito si esaurisce in una sterile emozione, con tante professioni di buoni sentimenti e tanti alibi al momento di passare alla concretezza del fare.
Quante chiacchiere, per esempio, sulla carità, quante chiacchiere sul fare fraternità e comunità.
Ciò che è grave è il fatto che a furia di dire tante belle parole neppure ci accorgiamo di essere vuoti e mancanti.
Le belle parole ci danno un decoro morale.
Ma è tutta illusione.
Per fortuna non è mai troppo tardi per lasciarci coinvolgere dall’invito di Dio il quale continua a chiamarci a ogni ora della nostra vita.
Poco importa l’ora in cui andremo a lavorare nella vigna.
La sola cosa che conta è di andarci.
Ed ora è il momento di domandarci che cosa rappresenti l’altro figlio, quello che dice no e poi alla vigna ci va.
Ci sono tra noi molti che sembrano lontani dal regno.
Così li abbiamo giudicati.
Del resto, è questa la loro immagine pubblica .
Ma che cosa sappiamo noi della vergogna, del disgusto, della disperazione che ci può essere in una persona?
Che cosa sappiamo noi della sua nostalgia di innocenza e delle sue lacrime?
Ma quello che è nascosto a noi, non è nascosto al Signore.
Egli vede e apprezza questo travaglio interiore che è già un fare.
Il pentimento è già un fare.
Le lacrime sono già degli atti.
Il linguaggio cattolico nomina l’atto di fede, di speranza, di carità e poi l’atto di contrizione.
L’atto di contrizione, questo spezzare dentro di sé la condizione di prima è già un’azione, una creazione nuova, uno slancio che porta dentro i confini del regno.
Un’altra osservazione.
Ci sono quelli che dicono: “Io nel regno di Dio non ci credo”, perché hanno davanti a sè una certa immagine di cristianesimo che è la caricatura del vangelo, ma che poi di fatto si impegnano a difendere e a promuovere i valori del vangelo lavorando per la giustizia, la pace, la fraternità.
Persone che si comportano in questo modo posssiamo conoscerle e incontrarle ogni giorno.
A volte litigano con Dio e con la chiesa, dicono di rifiutare la fede, non sono praticanti e forse anche, dal nostro punto di vista, sono un po’ trasgressive, ma quando c’è gente che ha bisogno sono pronte a entrare nella miseria del prossimo impegnando la mente e il cuore.
Generosamente e silenziosamente.
Sono quelli che a parole dicono no, ma con gli atti dicono sì.
Non dimentichiamo che in quella grande pagina di Matteo in cui viene orchestrata la scena del giudizio finale, la grande distinzione non sarà tra i credenti e i non credenti secondo le appartenenze ufficiali, ma tra chi prova pietà per il povero e chi rimane insensibile.
E’ un destino, questo, che matura per lo più nel segreto, là dove uno è solo, solo con la sua più profonda autenticità.