domenica 21 giugno 2009

III dopo Pentecoste
Gen 2, 18-25
Ef 5,21-33
Mc 10,1-12

C’è un legame molto stretto tra il Vangelo e la prima lettura.
Alcuni farisei si avvicinano a Gesù e, per metterlo alla prova, gli chiedono se sia lecito ad un uomo rimandare la propria moglie.
Il problema che viene sollevato è quello del divorzio. Dopo la creazione, è un problema che ritorna incessantemente, fino ai giorni nostri. E il fatto che il divorzio sia inteso come una questione che si può risolvere per vie legali non diminuisce la sofferenza e il senso di fallimento che porta con sé.
Secondo il racconto della Genesi, al quale Gesù fa riferimento, Dio aveva creato il mondo lungo una successione di giorni e a ogni tappa di questo percorso creativo, contemplando la sua opera, aveva concluso che tutto era riuscito bene: “Dio vide: era bello”.
Solo la creazione di Adamo non lo aveva completamente soddisfatto. Lo vedeva infatti solo e triste. Triste perché solo. Bisognava in qualche modo rimediare.
E’ per questo che Dio porta l’uomo a contemplare le bestie dei campi e gli uccelli dell’aria.
Dare un nome, nella mentalità semitica, voleva dire affermare la propria superiorità.
Chissà -deve aver pensato- forse tra tutte queste creature gli capiterà di trovare quella che potrà salvarlo dalla sua solitudine.
Visto inutile questo tentativo, ne inventa un altro. Fa cadere su Adamo un sonno profondo, sonno che sta a significare l’estasi, di cui si parla spesso nella Bibbia, cioè lo stupore meraviglioso che prende l’uomo tutte le volte che Dio sta operando qualcosa di grande.
E qui si incontra la storia della costola, di questa curiosa chirurgia divina su cui in passato si sono fatti tanti commenti ironici e divertiti.
In passato senza dubbio, ma ora non più, perché una migliore conoscenza del linguaggio simbolico ha permesso di capire questa immagine, che esprime una verità grandissima e meravigliosa: per il fatto che Dio ha formato Eva da una costola di Adamo (e si potrebbe anche dire che ha preso un parte del cuore di Adamo), la donna è della stessa natura, ha la stessa dignità e gode dei medesimi diritti dell’uomo.
A San Tommaso viene attribuita, a torto, perché pare che non l’abbia mai detta, questa frase: “la donna è un errore della Natura”.
Il racconto biblico ci dice invece che la donna è una meravigliosa invenzione di Dio, per nulla inferiore a quella con cui Dio ha creato l’uomo.
Si può capire perché Adamo, davanti alla donna, si abbandoni a un canto d’amore: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”. Secondo la Bibbia si tratta, oltre che della prima parola pronunciata dall’uomo, del primo di tutti i canti d’amore.
Così Dio ha sognato e realizzato il matrimonio. Dio è amore, Dio è relazione, e anche la creatura umana, così come Dio l’ha voluta, è amore e relazione. Immagine di Dio non è l’uomo solo o la donna sola, ma l’uomo e la donna insieme, uguali per dignità, chiamati a una complementarietà fatta di tenerezza, di stupore, di gioia.
Questo sogno in seguito, ci fa sapere il Vangelo, è stato tradito. Non sorprende perciò che da immagini di vita si passi a immagini di morte.
A evocare la morte è anzitutto la durezza di cuore di cui parla Gesù, la sclerocardia che si trova net testo greco. La sclerocardia è la sclerosi del cuore, il rifiuto del cuore umano di battere al ritmo del cuore di Dio, così da accordarsi al suo sogno. Quando avviene questo rifiuto è la morte dell’amore: quando in una coppia entra la sclerocardia non si è più rivolti al futuro, con la freschezza e la fiducia di chi si muove incontro alla novità attesa, ma ci si rivolge al passato per rinfacciarsi le cose peggiori. Il sorgere di una coppia è un atto di nascita; un divorzio, quando all’amore subentra il tribunale, è un atto di decesso.
Purtroppo la sclerocardia è così diffusa che, volendo parafrasare un passo famoso del Vangelo, ci sarebbe da domandarsi: “quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora sulla terra delle coppie che siano capaci di amarsi veramente?”
Ma non è il caso di seguire la linea delle lamentazioni e di avere sempre davanti immagini di fallimenti e di morte. E’ meglio tornare a parlare di vita, a celebrare l’amore nelle sue forme più limpide, secondo il sogno che Gesù ci invita a contemplare parlando dell’inizio della creazione.
E’ sempre bello contemplare l’amore che, come dice l’apostolo Paolo, è la sola vera ricchezza della vita.
Ciascuno può dire: “io vivo nella misura in cui amo; esisto nella misura in cui mi sento amato”.
C’è stato chi ha detto, a proposito del bacio sulle labbra: “Essi si versano la loro anima l’uno nell’altra”. Pensate che sia una frase di uno psicoterapeuta dei nostri tempi? No: appartiene a un santo del XVII secolo, San Francesco di Sales!
Ma la Bibbia aveva detto qualcosa di immensamente più grande, quando ha parlato dell’amore come sacramento di Dio, rivelazione e dono dell’amore di Dio.
Dio è nello sguardo di quelli che si amano. Quando si ama una persona, Dio è presente sul volto dell’altro e il volto dell’essere amato diventa una manifestazione di Dio.
Queste suggestioni sull’amore divino che troviamo nella Bibbia ci permettono non soltanto di scoprire dove sta il segreto della fedeltà nell’amore, ma anche di ripensare nella luce dell’amore la nostra vita di fede.
Il pericolo della sclerocardia può guastare anche i nostri rapporti con Dio: succede quando si aderisce a un credo o a una pratica religiosa per tradizione, per inerzia, per un calcolo interessato; quando si pensa di avere dei meriti di fronte a Dio e alla Chiesa e si pretende che siano riconosciuti, o ancora quando non si è capaci di esprimere gioia e stupore per i doni che Dio ci elargisce.
Le parole del Vangelo “ciò che Dio ha unito l’uomo non separi” non si rivolgono solo agli sposi, ma a ciascuno di noi, che per il battesimo siamo diventati una sola cosa con il Signore.
Per questo possiamo dire:
Per il battesimo siamo diventati una sola cosa con te, Signore, e vogliamo vegliare per non spezzare quell’unità che tu stesso ci hai donato. Conservaci fedeli all’alleanza del nostro battesimo e fa’ che cresciamo nell’amore e nella fedeltà, verso di te e i nostri fratelli.

mercoledì 3 giugno 2009

Pentecoste (R.A.)
Gv 14,15-20


La chiesa celebra oggi il dono dello Spirito.
Che cosa sia lo Spirito, non è facile dirlo.
Il catechismo ci suggerisce la risposta”Lo spirito è una delle tre persone divine”.
Ma delle tre persone divine rimane la più misteriosa.
Il Padre e il Figlio hanno almeno un nome che richiama un volto.
La parola Spirito, che significa soffio, respiro, richiama piuttosto l’attività con cui si manifesta.
Perciò ci è più facile parlare dell’azione dello Spirito.
Lo faremo seguendo il racconto che della Pentecoste ci ha dato Luca negli Atti degli Apostoli.
Ciò che sembra importante osservare è il passaggio da una condizione mortificata dalla paura a una condizione risvegliata dalla speranza.
La paura la conosciamo tutti.
Ciascuno ha una propria vulnerabilità e patisce l’angoscia nel sentirsi esposto a tanti rischi e sofferenze.
Ma oggi, in cui si celebra la nascita della chiesa, vorrei parlare delle paure di cui soffre la
chiesa.
La chiesa,almeno nei pastori che la governano, soffre anzitutto di una sorte di sindrome dell’accerchiamento.
Si sente cioè assediata da forze ostili che la vorrebbero privata della sua libertà.
Ma la chiesa soffre anche e soprattutto per una progressiva decristianizzazione della società, per l’assottigliarsi del numero di coloro che si mantengono fedeli alle pratiche religiose, per l’eccessiva libertà che ciascuno si prende di fronte ai principi morali che essa non si stanca di richiamare, per il moltiplicarsi di casi di infedeltà, anche all’interno del mondo ecclesiastico.
D’altra parte la chiesa non può facilmente consolarsi per il consenso che essa ottiene da molti sedicenti amici ( i cosiddetti atei devoti) i quali ostentano una vicinanza per motivi di pura convenienza.
Ad essi poco importa di Gesù Cristo e della fede cristiana, mentre interessa un cristianesimo da utilizzare per fini politici, auspicando per l’Europa una identità cristiana intesa come baluardo difensivo contro i non europei.
Vale la pena di ricordare le parole ammonitrici che sono racchiuse in una sorta di aforisma:
“E’ meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”.
Torniamo alle paure di cui soffre la chiesa.
Sono paure molto serie tanto da riguardare la sua stessa sopravvivenza.
”Siamo gli ultimi cristiani?” si è chiesto recentemente padre Tillard, un attento osservatore dei grandi fenomeni della vita sociale e, in particolare, delle vicende della chiesa nel mondo d’oggi.
Ma questa interrogazione potrebbe essere accantonata per lasciare spazio ad un’altra:
“E se dovessimo essere noi i primi cristiani?”.
Di una nuova Pentecoste ha parlato papa Giovanni XXIII a chiusura della prima sessione del concilio, una Pentecoste che dovrebbe assicurare un balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo.
Dove e come potrebbe realizzarsi questa presenza dello Spirito pentecostale?
Guardiamo a quello che ci narrano gli Atti .
C’ è un vento gagliardo che apre le porte del cenacolo e ci sono persone che, asserragliate dentro dalla paura, trovano il coraggio di uscire all’aperto.
La chiesa, è stato detto, con la Pentecoste acquista il coraggio di scendere in piazza.
Ma non bisogna forzare troppo questa espressione.
Del resto negli Atti non si parla di piazze, ma di una folla che si era raccolta davanti alla casa dove stavano i discepoli perché aveva avvertito che là dentro stava succedendo qualcosa di strano. Parlare di grande folla e di piazza rappresenta una forzatura del testo che può fare comodo a quanti vorrebbero una chiesa che non solo non tema la piazza, ma la ami e la cerchi.
In piazza le manifestazioni di massa prendono il sopravvento sull’incontro con le singole persone e gli applausi diventano più importanti delle vibrazioni dei cuori.
La piazza diventa il luogo dove viene allestito lo spettacolo religioso.
Si cerca perciò di stupire, di impressionare, di suscitare entusiasmi non importa se epidermici e di breve durata.
Certamente è bello osservare che la chiesa il giorno di Pentecoste abbia il coraggio di entrare in rapporto con la grande famiglia umana per portare a tutti il messaggio che le è stato affidato.
Ma è bello pensare anche ad una chiesa che rientri, per così dire, in casa.
La chiesa di Pentecoste è anche la chiesa della interiorità.
E l’interiorità è possibile solo se in certi momenti si chiudono le porte, mettendo a tacere le voci e i richiami della piazza.
La chiesa , per imparare a parlare a tutti, deve imparare prima di tutto il linguaggio del silenzio.
Per manifestarsi, deve rinunciare ad apparire e ad autocelebrarsi.
Questa è la via che lo Spirito, il quale ci è dato come consolatore, ci suggerisce come l’unica
via che ci permette di vincere le nostre paure.
“Ma lo Spirito Santo è ancora presente in mezzo a noi?” si chiedono molti cristiani amareggiati per le troppe delusioni patite in questi ultimi cinquanta anni, da quando cioè si è chiuso il concilio.
La risposta la prendo dalla Lettera sullo Spirito che il nostro card. Martini scrisse nel 1997:
“Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro.
C’è, e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge arriva là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi della nostra epoca, che è la perdita del senso dell’invisibile e del trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa”.
Scoprire i segni di questa presenza, nella luce del Concilio Vaticano II, è la nostra speranza e la nostra gioia.