sabato 12 gennaio 2008

Battesimo di Gesù



Matteo 3, 13-17

Credo che, per interpretare il racconto di Matteo, sia indispensabile un certo impegno immaginativo, non per inventare quello che non c’è, ma per portare alla luce quello che vi è sottinteso.
Cominciamo a inquadrare i protagonisti: sono Giovanni e Gesù, uno di fronte all’altro.
Ma Giovanni e Gesù non sono soli.
Se, come narra Matteo, Giovanni non soltanto battezzava, ma anche predicava sulla riva del Giordano, bisogna pensare che attorno ci fosse una folla di ascoltatori, quasi a formare il coro previsto dalle rappresentazioni classiche.
Proseguendo in questa ricostruzione della scena, bisogna immaginare il tipo umano prevalente in questo addensarsi di persone sulla riva del Giordano.
Gesù e Giovanni erano giovani.
E giovani dovevano essere anche quei discepoli di Giovanni che in seguito, lo sappiamo da altri passi del vangelo, sarebbero diventati discepoli di Gesù.
Che cosa cercavano tutti quei giovani lontano dalla città?
E’ proprio del mondo giovanile sognare un mondo nuovo ribaltando gli schemi logori del passato.
Questa voglia di rinnovamento nel racconto di Matteo è suggerita anche dallo scenario.
Perché accorrono in massa sulle rive del Giordano?
L’acqua del Giordano, per la predicazione di Giovanni e per il battesimo che vi amministrava, parlava loro di purificazione, di pulizia morale, di creazione fresca e nuova.
C’è un aforisma che dice: “Chi ha veramente sete, sente il rumore dell’acqua”.
Quei giovani arrivati al Giordano avevano sete di una vita diversa, di un’acqua zampillante per la vita eterna.
Non bisogna dimenticare inoltre che non si trattava di una fonte o di un fiume qualsiasi, ma del Giordano, di un fiume cioè che nella storia del popolo d’Israele aveva segnato il confine tra l’attesa della terra promessa (gli anni passati nel deserto) e la conquista del regno della libertà.
Il desiderio di una vita nuova prendeva perciò, sulle rive del Giordano, un carattere particolare: era un anelito alla libertà.
Ci stupisce però, a questo punto, la presenza di Gesù tra quella folla di persone che chiedevano a Giovanni il battesimo
Che bisogno aveva di ricevere il battesimo di penitenza, lui che non aveva alcuna colpa?
La tradizione cristiana dirà che era senza peccato.
Verrebbe voglia di suggerirgli: “Signore Gesù, hai sbagliato posto. Il tuo posto non è qui, tra questa gente che porta il peso di tante inadempienze”.
L’obiezione, prima che nostra, era stata del Battista stesso il quale si era rivolto a Gesù con queste parole: “Io avrei bisogno di essere battezzato da te e sei tu che vieni verso di me?”.
Ma Gesù non si lascia turbare da queste obiezioni.
Venuto a condividere totalmente la nostra condizione umana, custodisce anche lui, dentro di sé, una sofferenza segreta e un sogno meraviglioso.
Pare che a farlo soffrire sia stata soprattutto l’esperienza del confronto ruvido e delle rivalità che reggono i rapporti tra le persone.
Fin dalla nascita noi ci muoviamo in un mondo segnato da questa logica del confronto che definisce la superiorità degli uni sugli altri attraverso gerarchie di merito.
Anche sulle rive del Giordano questa logica è imperante.
“Razza di vipere, chi pretendete di essere?”grida il Battista il quale non annuncia la venuta di Gesù, ma di uno più forte di lui di cui, dice, non è degno di sciogliere i legacci dei sandali.
Si è e si rimane nel mondo dei raffronti e delle competizioni, tanto che colui del quale è annunciata la venuta non avrà altro compito se non di separare quelli che valgono da quelli che non valgono, il buon grano da riporre nei granai dalla paglia destinata al fuoco che non si estingue.
Questa situazione doveva far soffrire molto Gesù.
Da questa sofferenza gli nasceva nel profondo del cuore il desiderio di comunicare non con un Dio giustiziere, come era ancora nella predicazione di Giovanni, ma con un Dio giusto, che fosse cioè pura benevolenza e guardasse ad ogni essere umano come al proprio figlio preferito, al di fuori di ogni gerarchia.
Entrando nelle acque del Giordano sognava di poter comunicare con l’invisibile Benevolenza.
E quando esce dal Giordano il miracolo si compie: i cieli si aprono e una voce lo conforta con queste parole: “Questi è il figlio mio bene-amato, nel quale mi sono compiaciuto”.
Sono parole meravigliose, di straordinaria bellezza e dolcezza, parole che ciascuno può accogliere come rivolte a se stesso.
Perché, come dice l’apostolo Paolo, in Cristo anche noi siamo figli e quindi coeredi, anche su ciascuno di noi c’è la parola del Padre:”Tu, mio unico, mio bene-amato”.
C’è un Dio che non aspetta che noi siamo buoni, per amarci
Noi siamo educati a meritarci di essere amati, a compiere delle cose che siano meritevoli di approvazione e di amore.
Invece Dio mi dice che sono amato bene dall’inizio. Dio non mi ama perché sono buono, ma perché, amandomi, vuole rendermi buono.
Passiamo la vita cercando di riuscire in qualcosa, di diventare qualcuno.
Ciascuno ha un proprio progetto, una particolare ambizione, ma più che figli bene-amati non potremo mai essere.
Questa festa, oggi, è la festa di ciò che è nascosto in noi e va riscoperto.
E’ una festa che può procurarci o restituirci uno sguardo di immensa stima su noi stessi.Per pura grazia, perché c’è un Padre che ci ama come ha amato Gesù.

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