domenica 7 dicembre 2008

IV Domenica di Avvento

Isaia 16, 1-5
Salmo 149
1 Tessalonicesi 3, 11-4,2
Marco 11, 1-11

Gesù fa il suo ingresso in Gerusalemme.
Perché la liturgia ci propone questo racconto in tempo di avvento?
Non è difficile capire.
La venuta del Signore si attua dentro il tessuto delle relazioni umane, là dove ci sono persone che lavorano, soffrono, sperano, cercano di dare un senso positivo alla loro vita.
Per questo Gesù non può ignorare la grande città.
Noi siamo soliti dire, con una espressione che è diventata oramai abituale, che la vita in città è stressante.
Forse lo stesso lamento era diffuso al tempo di Gesù.
La città è infatti il luogo della complessità, della competizione, di una certa durezza di rapporti,
Su Gerusalemme poi gravava la fama di essere una città scomoda per i profeti.
Fossimo stati noi accanto a Gesù, gli avremmo dato questo consiglio: “Non entrare in città. Perché vuoi andare proprio là dove sarebbe prudente non andare?”.
Ma il Signore non si è incarnato per seguire i nostri accorgimenti prudenziali.
Incarnazione vuol dire immersione in tutta la realtà umana, anche in quella più problematica e sgradevole.
Per questo il consumarsi dell’incarnazione esigeva che Gesù affrontasse la grande città con tutte le sue tensioni e contraddizioni.
Oramai la strada è tracciata anche per chi si dice discepolo di Cristo.
Il cristiano non è colui che si ritira nella sua tenda ignorando tutto quello che avviene attorno, ma è colui che si rende presente là dove si costruisce la città degli uomini.
E’ presente con la sua intelligenza, la sua competenza, con la sua passione di confrontarsi e di collaborare: in una parola, con la sua responsabilità.
Gesù però, entrando nella città di Gerusalemme, non ha soltanto indicato un percorso da seguire, ma ha insegnato alcune modalità fondamentali che dovrebbero caratterizzare la presenza dei cristiani in mezzo alla società.
La prima nota distintiva è quella della mitezza, che è una sorta di fragilità vincente, di leggerezza tenace.
Tutto il racconto di Marco che abbiamo letto suggerisce uno stile di mitezza attraverso immagini e gesti che sembrano compenetrati da un’atmosfera di pace.
Mite è la cavalcatura di Gesù, mite il suo incedere in città
E mite è soprattutto il suo silenzio.
Abituati, come siamo, ai messaggi gridati, urlati, imposti un modo intimidatorio o ricattatorio, la scena del vangelo ci sembra perfino irreale.
A volte anche noi cristiani andiamo a scuola e prendiamo lezione da chi nella società grida di più per farsi ascoltare.
Perché dovremmo essere meno intraprendenti degli altri nel sostenere le nostre ragioni?
Dimentichiamo però una cosa: ciò che vale per una società mercantile quale è la nostra, non vale per il mondo segreto della fede.
Una società mercantile ha bisogno di imbonitori, di piazzisti, di gente che sappia vendere bene la propria merce (e merce può essere anche un programma politico e perfino un comportamento religioso).
La fede si propone invece discretamente, senza pretese.
Non è una mondanità da esibire o una ideologia da difendere.
E’ una germinazione al soffio lieve dello Spirito.
Essa parla a bassa voce, cresce nel silenzio delle parole umane.
In una società mercantile dove il minimo segno di debolezza sembra essere qualcosa di indecente, non ha paura di apparire fragile e perdente.
La sua forza è altrove: in una ragione segreta che non si può conoscere mediante le risorse della mente, ma seguendo le indimostrabili intuizioni del cuore.
C’è un’altra nota che caratterizza l’ingresso di Gesù nel sua città e, di riflesso, la presenza dei cristiani nel mondo.
A Gerusalemme lo attende la morte, ma Gesù non si lascia vincere dalla paura.
Gesù è straordinariamente libero, ed è libero perché è straordinariamente distaccato da tutto ciò che appartiene all’ordine del possesso.
Chi coltiva ambizioni nell’ambito del potere e del possesso, deve adattarsi a certi canoni di comportamento, deve usare certi accorgimenti che mortificano la tua libertà.
Se Gesù è straordinariamente libero, libero anche di fronte alla morte, è perché, avendo dato tutto, non ha più nulla da perdere.
Un’ultima osservazione su questo testo.
Anche se si tratta di un fatto che precede di pochi giorni la morte di Gesù, esso ha anche una strana e segreta parentela con il natale del Signore.
Quali sono le ragioni che ci portano a vedere questa segreta affinità?
Gesù si presenta fragile, indifeso, vulnerabile, come il bambino di Betlemme,
E come quel bambino, è infante, cioè colui che non parla.
A parlare, a cantare, come a Betlemme, sono invece le persone che accorrono intonando un canto che richiama quello degli angeli:
A Natale la pace viene annunciata dal cielo alla terra, qui viene annunciata dalla terra al cielo.
Anche questo racconto è dunque una celebrazione dello spirito d’infanzia in cui si racchiude tutta la spiritualità del vangelo di Gesù.
La pace di cui gode Gesù è come quella di un bambino che si affida tra le braccia protettive del padre.
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” dirà sulla croce.
Credere nell’amore di Dio, lasciarsi amare da Dio, abbandonarsi all’amore di Dio: qui sta il segreto di quella straordinaria serenità che anche noi possiamo gustare, pur attraversando le molteplici prove dell’esistenza.

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