lunedì 18 maggio 2009

VI Domenica di Pasqua (R.A.)


Giovanni 15, 26 – 16,4.

Ci avviciniamo alla Pentecoste.
Perciò la liturgia si serve del vangelo di questa domenica (si tratta di un brano preso dal primo discorso di addio di Gesù) per introdurci alla conoscenza di colui che sarà il protagonista di
quell’evento così prodigioso: lo Spirito Santo.
Bisogna subito aggiungere che solo in Giovanni e mai negli altri scritti del Nuovo Testamento lo Spirito Santo viene chiamato Paraclito.
Che cosa significa questo strano appellativo?
E’ una parola greca che significa anzitutto consolatore, ma anche difensore, avvocato, uno che sta dalla nostra parte.
La sua funzione è dunque quella di consolare come pure di difenderci nel caso in cui la nostra fede dovesse subire attacchi insidiosi.
Ma dalle parole di Gesù ci viene confidato che lui stesso è venuto tra noi come Paraclito, prima ancora che i discepoli ricevessero il dono dello Spirito, il giorno di Pentecoste: “Io pregherò il Padre, perché vi dia un altro consolatore, perché resti con voi per sempre”.
Il primo consolatore è dunque lui, o meglio, è lui strettamente unito allo Spirito.
Tutti i vangeli sono lì a testimoniare la sua volontà di farsi servo di tutti, soprattutto di quelli che la società tende a escludere, di coloro che sono sprovvisti di titoli, di onori ufficiali, di dignità nelle gerarchie che contano: individui senza referenze né diplomi, senza funzioni o ruoli riconosciuti.
Lui si trova bene anche tra la gente che viene disprezzata, come i pubblicani, i quali, avendo il compito di riscuotere le imposte in nome del potere romano, erano considerati disonesti e sfruttatori.
In poche parole, Gesù si colloca tra coloro che sono costretti a vivere ai margini della società.
Fosse presente oggi nel nostro mondo, lo troveremmo accanto alle persone che maggiormente soffrono la loro condizione di solitudine: quelli che hanno perso il lavoro o non lo trovano, quelli che non trovano ospitalità nel nostro paese, e che vengono respinti al loro paese d’origine da cui sono fuggiti, spinti dalla fame o sotto il terrore della violenza.
Questa è la prima ragione che fa di Gesù il primo Paraclito del vangelo, il primo consolatore.
Del resto, questa azione consolatoria è presente anche nel vangelo che è stato letto.
Pensiamo allo smarrimento in cui dovevano trovarsi i discepoli mentre prendevano coscienza che Gesù li avrebbe presto lasciati e con lui sarebbe finita per sempre anche la loro meravigliosa avventura.
Che cosa sarebbe stata la loro vita senza di lui?
Che cosa sarebbe rimasto di tanti gesti commoventi compiuti da Gesù, di tante parole stupende raccolte dalle sue labbra?
Sarebbe rimasto solo il ricordo, un ricordo destinato a impallidire fino a spegnersi per sempre.
E la tristezza doveva occupare il cuore dei suoi discepoli.
E Gesù capisce. Intuisce con una sensibilità che potremmo chiamare materna la delusione profonda che dovevano patire i suoi discepoli.
Perciò, mentre dà loro l’addio sapendo quale sarebbe stata, di lì a poco, la sua fine, si preoccupa di mitigare almeno la loro tristezza.
In che modo?
Quando una persona parte per un paese lontano senza la prospettiva di ritornare a rivedere la sua casa, i suoi famigliari e gli amici più cari, quando questo paese lontano è quello che si dischiude al di là della morte, cerca di tenere vivo il suo ricordo lasciando qualche messaggio particolarmente toccante o lasciando in eredità le cose che lo hanno accompagnato nel suo percorso, mentre era in vita.
Gesù, che sta per lasciare i suoi discepoli, ha anche lui qualcosa da trasmettere loro in sua memoria.
No, “non vi lascerò orfani” promette ai discepoli che già si sentivano da lui abbandonati.
E questa promessa si precisa attraverso due doni meravigliosi. Il primo è l’eucaristia con cui il Signore assicura la sua presenza viva, il secondo è la promessa dello Spirito che sarebbe venuto a continuare l’insegnamento di Gesù tanto che qualcuno lo ha definito la presenza invisibile di Gesù.
Ecco come Gesù ha voluto consolare i suoi amici: aderendo pienamente al primo significato della parola paracleto che vuol dire consolatore.
Ma c’è anche l’altro significato di questa parola che, abbiamo visto, sta ad indicare colui che si prende cura di noi come avvocato difensore.
E’ possibile vedere Gesù anche in questo ruolo?
Il vangelo non è fatto solo di parole dolci, misurate, gradevoli all’ascolto, ma anche di parole aspre, scandalose, che ti urtano e ti obbligano a riflettere. E il tono dei discorsi di Gesù non è quello di un saggio che si compiaccia del proprio equilibrio interiore, ma quello di una coscienza indignata, incapace di rassegnarsi e di accettare il corso delle cose.
C’era in Gesù troppo amore per gli uomini. Impossibile per lui trattenere dentro di sé l’ardente desiderio di convertirli, di aprire loro gli occhi e di aiutarli a vivere. Da qui l’impazienza e l’irritazione in presenza di gente che non ha nemmeno alcuna coscienza delle ricchezze spirituali che porta con sé. Bisognerebbe, a questo proposito, immaginare quale potrebbe essere il comportamento di Gesù di fronte al rischio, al pericolo di spiritualizzare troppo il cristianesimo. Certo non approverebbe questa tendenza in atto a spiritualizzare la realtà, basti pensare ad esempio a come il regno di Dio sia stato spiritualizzato, per cui la salvezza è vista come la salvezza dell’anima, il regno di Dio è vio stesclusivamente come l’aldilà. In questo modo non c’è nessun punto d’aggancio con la realtà, con la concretezza storica della vita. Gesù, invece, ci richiamerebbe a fare memoria delle sue parole che sono parole concrete, che incidono non soltanto dentro l’uomo, ma anche nel sociale, nel politico e in tutti gli aspetti della nostra vita.
E ci farebbe capire che di fronte a certe forme palesi di ingiustizia presenti nel nostro mondo, di fronte all’arroganza di certi poteri, di fronte a menzogne spacciate per sacrosanta verità, l’indignazione non solo è ammissibile, ma è doverosa.
La missione dello Spirito Paraclito si ricongiunge con quella di Gesù Paraclito. E insieme sono uniti al Padre.
Perciò, se uno vuole contemplare la sorgente stessa dell’amore, se uno vuole penetrare nel cuore del Padre, là dov’è nato il mondo e la sua bellezza, bisogna che prenda questo cammino che è il Cristo: (nessuno va al Padre se non per mezzo di Cristo), e se vuole avvicinarsi a Cristo se vuole contemplare il Padre con gli occhi del Figlio unico, bisogna che lasci lo Spirito invadere il suo cuore con la sua luce, bisogna che implori umilmente:
“Vieni, Spirito Santo!
Vieni, luce dei nostri cuori!
Vieni, consolatore sovrano!
Vieni, ospite dolcissimo delle nostre anime!”.

mercoledì 6 maggio 2009

IV Domenica di Pasqua (R.A.)


Giovanni 10, 27-30

Succede a volte che durante le letture della messa si rimanga scossi o commossi, toccati comunque e coinvolti.
E ci si domanda:”Perché questo fervore o questa passione inesprimibile, perché questo intenerimento o questo senso di pace profonda?”.
E’ l’esperienza che forse abbiamo fatto anche oggi, soprattutto durante la lettura del vangelo.
Si tratta di un breve testo di Giovanni che fa parte di quel discorso in cui Gesù, provocato dai giudei, si presenta come il buon pastore.
Sono tre le parole che meritano di essere approfondite, per renderci conto della felicità rivelativa di questo testo.
La prima parla è il verbo conoscere.
“Io le conosco” dice Gesù parlando delle pecore.
E altrove si legge: “Le mie pecore conoscono me”( Gv 10, 14).
Noi purtroppo siamo portati a privilegiare le nostre facoltà mentali per cui confondiamo spesso la conoscenza con l’erudizione o il sapere.
Sappiamo molte cose su diversi argomenti, ma non è detto che questo sia un vero conoscere.
Un teologo può possedere molte nozioni su Dio , ma questo non significa che conosca Dio.
Per arrivare a una vera conoscenza, bisogna che ci sia un rapporto mistico con Dio, una comunione molto stretta con la sua parola (è quello che i Padri della chiesa e molti autori spirituali hanno chiamato “manducazione della Parola”): occorre un’ esperienza esistenziale che coinvolga tutta la persona.
Non si dimentichi che nella Bibbia il verbo conoscere viene applicato alla esperienza amorosa di due sposi.
E nel libro del Siracide si legge: “Dio ha dato agli uomini un cuore per riflettere”.
Certamente il cuore è fatto per amare, ma c’è pure un’intelligenza dell’amore.
E’ quella intelligenza sensibile e intuitiva che è propria degli innamorati, dei poeti, dei mistici.
Di questa intelligenza una persona semplice può godere più di un principe della chiesa o di un grande teologo.
Se non fosse così, Dio sarebbe un lusso dei ricchi e degli intellettuali.
In realtà si tratta di un privilegio riservato a coloro che, vivendo strettamente uniti a Cristo, si trovano partecipi della conoscenza che Cristo ha del Padre.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” ha detto Gesù.
Con Cristo entriamo in un tipo di conoscenza del mistero di Dio che non ha nulla di presuntuoso o di possessivo.
E’ una conoscenza velata di pudore come fosse una carezza.
Una carezza dice tutta la tenerezza dell’amore che non si appropria di nulla, riceve tutto e di tutto rende grazie.
C’è un’altra parola nel testo di Giovanni che merita di essere approfondita.
E’ il verbo ascoltare che viene usato da Gesù quando dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce”.
Già la parola voce è particolarmente espressiva: vuol dire che è in gioco un rapporto molto stretto.
La voce o meglio, il tono della voce, assieme allo sguardo e al volto, esprime qualcosa almeno della profonda identità di una persona.
Lo sanno bene gli sposi, i fidanzati, gli amici per i quali la modulazione della voce a volte risulta più significativa delle parole che vengono dette.
Perciò l’ascolto di cui parla Gesù è un’esperienza che va ben oltre il semplice fatto di percepire parole o suoni o messaggi.
Si può udire senza ascoltare, come più volte hanno deplorato i profeti e Gesù stesso: “Il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi” (Mt 13,14).
E noi, che ascolto accordiamo a Gesù?
Non basta essere frequentatori della parola del Signore.
Se nella parola del Signore cerchiamo soltanto una conferma di ciò che crediamo già di sapere mentre censuriamo quello che ci scuote e ci mette a disagio, vuol dire che anche noi siamo diventati “duri di orecchi”.
Ma neppure possiamo dire di essere in ascolto se dovessimo separare il messaggio del Vangelo da colui che ce lo ha affidato.
L’ascolto vero richiede un atteggiamento fiducioso e docile nei confronti di una persona, come del resto suggerisce il verbo latino oboedio (ubbidisco) che è composto dal verbo audio (ascolto).
Dovremmo perciò chiedere spesso la grazia di sapere ascoltare dicendo: “Signore, fa’ che la tua voce mi raggiunga e penetri nel mio cuore come la voce di una persona amata a cui ci si consegna con tutta la propria fiducia”.
Infine ci sarebbe da riflettere sulla vita eterna promessa da Gesù: ”Io do loro la vita eterna”.
Sono tante le parole del linguaggio religioso che non dicono più nulla perché sono diventate vuote e inespressive.
Che cosa può suggerire la parola “vita eterna” al disperato, al drogato, al marito o alla moglie che vedono il loro matrimonio fallito, a tutti coloro che sentono la fatica di trovare ogni giorno una ragione per vivere?
Bisognerebbe che ci mettessimo in rapporto con Gesù il quale ci direbbe: “Che cosa vuol dire per te vivere?.
Non è forse vero che tu hai l’impressione di vivere soprattutto quando stai vivendo un’esperienza di amore, quando ti senti amato e godi di riamare?
Se vivere è questo, ricordati che c’è chi ti ama e continuerà ad amarti con una sorta di irriducibile ostinazione.
Il suo amore è così grande che non c’è niente o nessuno che lo possa cancellare”.
Questa è la vita eterna che già ora possiamo sperimentare.
Si pensi alla gioia di un bambino quando riceve dal papà la mano o viene condotto per mano.
Si sente sicuro, non ha più paura di nulla, si vede accettato come una persona meritevole di ogni attenzione.
In questi termini Gesù ci ha parlato della vita eterna: è una vita affidata tutta alla mano del Signore, mano forte e buona: è la mano di un padre.
Godiamo dunque di questa rivelazione che nel vangelo è tra le più consolanti che ci sia dato di incontrare.
Se poi vogliamo dare una risposta a questo nostro Dio così prodigo di amore, sappiamo quale è la via da seguire.
E’vicino a Dio chi sa coltivare una grande magnanimità, un grandezza d’animo per cui è capace di ospitare tutti dentro la tenda della sua amicizia, anche quelli che da gli altri sono disprezzati e condannati, perché sa che, nonostante tutto, sono persone che il nostro Dio continua ad amare con un amore tenero e tenace.
E’ lontano da Dio chi invece coltiva uno spirito di parte, una volontà di esclusione.
Forse non abbiamo mai pensato che i peccati più gravi li commettiamo non per l’unità, ma per la disunione, nelle famiglie, nelle parentele e in altre forme di vita associata.
Ci conforti però la speranza che si accende in noi mediante la preghiera:
“ Fa’, o Signore, che un giorno siano cancellate tutte le nostre divisioni e trionfi soltanto la dolce legge della tua fraternità”.

III Domenica di Pasqua


Giovanni 14, 1-12

Nel vangelo di Giovanni c’è un lungo discorso di addio di Gesù.
Siamo alla vigilia della sua passione.
E’ l’ultima sera della sua vita, è l’ultima sua cena.
Gesù sente che è giunta la sua ora. Prima di morire, vuole richiamare ai suoi discepoli ciò che del suo insegnamento ritiene essenziale.
Ma prima ancora, pensando al grande turbamento che la sua morte potrebbe procurare, li vuole rassicurare.
Non c’è motivo di temere la morte.
La sua morte non è un fallimento, ma il coronamento di tutta l’opera.
Egli tornerà alla casa del Padre dove preparerà un posto per loro.
A questo punto troviamo un’affermazione che ci lascia un po’perplessi: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Gesù rivela la sua vera identità mediante questa affermazione “Io sono” (ce ne sono tanti di questi “Io sono” nel vangelo di Giovanni che sembrano una eco di quel” Io sono” pronunciato da Dio a Mosè sul monte Horeb).
Dicevo prima di una iniziale perplessità nell’ascoltare queste parole di Gesù.
Per quale motivo?
Perché ci sembrano esorbitanti, eccessive. Che dire?
Se gli uomini non seguono Gesù, vuol dire che non potranno arrivare fino a Dio?
La sola possibilità di salvezza sta dunque nel diventare cristiani?
Bisogna tornare a ripetere, come si faceva prima del concilio: “ Extra ecclesiam, nulla salus”
(Fuori della chiesa, non c’è salvezza)?
Ma questa posizione è estremamente pericolosa, perché espone a molteplici conflitti con altre religioni che si propongono anch’esse come le sole vere religioni.
Per i musulmani, per esempio, siamo noi cristiani a essere nell’errore e a trovarci dalla parte degli infedeli.
E si sa che le guerre combattute in nome di Dio sono state – e lo sono tuttora – le più devastanti e le più luttuose.
Che fare? Come uscire da questa situazione?
E’il caso di relativizzare ogni espressione religiosa visto che, dopo tutto, le diverse religioni si equivalgono e il “buon Dio” è lo stesso per tutti?
Ma questo vuol dire favorire l’indifferenza religiosa.
Per comprendere Gesù bisogna ascoltare ogni sua parola: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Dove va Gesù? verso la casa del Padre e nella casa del Padre non c’è che amore.
Nella casa del Padre c’è un posto che ci attende.
Il nostro camminare ha dunque una meta; la meta è la casa del Padre, la dimora dell’infinita gioia di vivere.
La colpa più grave di noi cristiani, oggi (in passato forse era tutto diverso) è la smemoratezza riguardante la meta ultima del nostro cammino.
Chi di noi la contempla, la vagheggia, la prepara con una tensione interiore che sia come la cifra segreta del nostro esistere?
Siamo in viaggio, come tutti, ma non siamo pellegrini. Il pellegrino è colui che sa dove va.
Non solo: è colui che, fino a quando non ha raggiunto la meta, si sente un po’ straniero dovunque venga a trovarsi.
Noi non possiamo dirci pellegrini perché abbiamo perso la memoria della meta, catturati come siamo dalle piccole soddisfazioni che ci capita di trovare lungo il cammino.
Dovremmo perciò ripetere spesso una invocazione per dire al Signore: “Signore, mettici sempre in cammino con la mente e il cuore rivolti verso la Gerusalemme celeste.
Tieni viva in noi la fame e la sete di pace, di amore, di libertà, di luce. Rendi inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.
Ma quale strada dobbiamo pretendere per non fallire la meta?
“Io sono il cammino”ci dice Gesù.
Non dice:“Io vi insegno il cammino”, bensì:”Il cammino che cercate sono io”.
Per trovare la strada non c’è che da seguire Gesù.
E’la modalità ultima del nostro cammino alla casa del Padre.
Vogliamo richiamare brevemente alcuni aspetti di questa modalità esemplare.
Gesù era innamorato del cammino, sempre sulle strade e proteso verso l’altrove.
Aveva l’impazienza di passare attraverso le folle, nel deserto, sul lago senza lasciarsi trattenere da niente e da nessuno.
La sua meta era sempre più lontana.
Certamente guariva i malati, provava pietà per ogni tipo di fame e voleva trascinare tutti nell’attesa di qualcosa d’altro.
Per essere andato troppo lontano su sentieri che nessuno prima di lui aveva battuto, un giorno si è trovato solo.
Era troppo libero e pericoloso.
Proprio perché era così libero, neppure il sepolcro lo ha potuto trattenere.
Al termine di questa straordinaria avventura troverà ad accoglierlo l’abbraccio, la gratitudine e la gioia del Padre.
Vogliamo sapere come camminare verso la casa del Padre?
Dobbiamo guardare a Gesù, a quello che ha detto, a quello che ha fatto soprattutto a favore di quelli che erano respinti dalla società.
“Io sono la via”: Gesù è il nostro cammino. Un cammino che ci può spaventare tanto da ritenerlo impraticabile.
Come è possibile che la nostra esistenza debba rimanere sempre sotto il segno dell’urgenza, della tensione, dell’inquietudine?
Ci conforti a una lettura più attenta del vangelo, la certezza che c’è un camminare e c’è un dimorare.
La casa suggerisce l’idea del riposo.
Ed è un riposo che non ci viene soltanto promesso, ma già in qualche misura accordato.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” dice Gesù.
Se siamo uniti a Gesù, siamo uniti al Padre, siamo già nella casa del Padre.
Gesù è quindi cammino ed è già il compimento del cammino, Gesù è la strada ed è la meta.
E’lui che nel cammino attraverso i segni della sua presenza ci fa pregustare quanto sia bello “abitare nella casa del Signore”.
Io non so che possa rimanere in noi di questo discorso che trova nel Vangelo di oggi la sua necessità e la sua legittimità. A volte di fronte a certe proposte troppo elevate e di ampio respiro, siamo presi dalla vertigine ci rifiutiamo di seguire.
In realtà le cose alte di Dio possono trovare nella vita di tutti i giorni una traduzione molto esemplare.
Camminare e dimorare con Gesù vuol dire avere fede in lui: “Credete in me”.
Se crediamo in lui lasciandoci educare dalla sua parola, se siamo capaci di affidargli la nostra sofferenza e la nostra speranza, se ci lasciamo condurre a compiere gesti di pietà verso le persone che hanno bisogno di non sentirsi abbandonate, noi camminiamo e dimoriamo in Cristo, e dimorando in Cristo, dimoriamo anche nel Padre di cui già possiamo gustare la tenerezza e la gioiosa accoglienza.
Quando arriveremo alla casa del Padre il nostro posto, quello riservato proprio a noi, lo troveremo facilmente perché l’avremo già conosciuto in questo nostro camminare nella fede, nella speranza e nell’ amore.

III Domenica di Pasqua


Giovanni 14, 1-12

Nel vangelo di Giovanni c’è un lungo discorso di addio di Gesù.
Siamo alla vigilia della sua passione.
E’ l’ultima sera della sua vita, è l’ultima sua cena.
Gesù sente che è giunta la sua ora. Prima di morire, vuole richiamare ai suoi discepoli ciò che del suo insegnamento ritiene essenziale.
Ma prima ancora, pensando al grande turbamento che la sua morte potrebbe procurare, li vuole rassicurare.
Non c’è motivo di temere la morte.
La sua morte non è un fallimento, ma il coronamento di tutta l’opera.
Egli tornerà alla casa del Padre dove preparerà un posto per loro.
A questo punto troviamo un’affermazione che ci lascia un po’perplessi: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Gesù rivela la sua vera identità mediante questa affermazione “Io sono” (ce ne sono tanti di questi “Io sono” nel vangelo di Giovanni che sembrano una eco di quel” Io sono” pronunciato da Dio a Mosè sul monte Horeb).
Dicevo prima di una iniziale perplessità nell’ascoltare queste parole di Gesù.
Per quale motivo?
Perché ci sembrano esorbitanti, eccessive. Che dire?
Se gli uomini non seguono Gesù, vuol dire che non potranno arrivare fino a Dio?
La sola possibilità di salvezza sta dunque nel diventare cristiani?
Bisogna tornare a ripetere, come si faceva prima del concilio: “ Extra ecclesiam, nulla salus”
(Fuori della chiesa, non c’è salvezza)?
Ma questa posizione è estremamente pericolosa, perché espone a molteplici conflitti con altre religioni che si propongono anch’esse come le sole vere religioni.
Per i musulmani, per esempio, siamo noi cristiani a essere nell’errore e a trovarci dalla parte degli infedeli.
E si sa che le guerre combattute in nome di Dio sono state – e lo sono tuttora – le più devastanti e le più luttuose.
Che fare? Come uscire da questa situazione?
E’il caso di relativizzare ogni espressione religiosa visto che, dopo tutto, le diverse religioni si equivalgono e il “buon Dio” è lo stesso per tutti?
Ma questo vuol dire favorire l’indifferenza religiosa.
Per comprendere Gesù bisogna ascoltare ogni sua parola: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Dove va Gesù? verso la casa del Padre e nella casa del Padre non c’è che amore.
Nella casa del Padre c’è un posto che ci attende.
Il nostro camminare ha dunque una meta; la meta è la casa del Padre, la dimora dell’infinita gioia di vivere.
La colpa più grave di noi cristiani, oggi (in passato forse era tutto diverso) è la smemoratezza riguardante la meta ultima del nostro cammino.
Chi di noi la contempla, la vagheggia, la prepara con una tensione interiore che sia come la cifra segreta del nostro esistere?
Siamo in viaggio, come tutti, ma non siamo pellegrini. Il pellegrino è colui che sa dove va.
Non solo: è colui che, fino a quando non ha raggiunto la meta, si sente un po’ straniero dovunque venga a trovarsi.
Noi non possiamo dirci pellegrini perché abbiamo perso la memoria della meta, catturati come siamo dalle piccole soddisfazioni che ci capita di trovare lungo il cammino.
Dovremmo perciò ripetere spesso una invocazione per dire al Signore: “Signore, mettici sempre in cammino con la mente e il cuore rivolti verso la Gerusalemme celeste.
Tieni viva in noi la fame e la sete di pace, di amore, di libertà, di luce. Rendi inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.
Ma quale strada dobbiamo pretendere per non fallire la meta?
“Io sono il cammino”ci dice Gesù.
Non dice:“Io vi insegno il cammino”, bensì:”Il cammino che cercate sono io”.
Per trovare la strada non c’è che da seguire Gesù.
E’la modalità ultima del nostro cammino alla casa del Padre.
Vogliamo richiamare brevemente alcuni aspetti di questa modalità esemplare.
Gesù era innamorato del cammino, sempre sulle strade e proteso verso l’altrove.
Aveva l’impazienza di passare attraverso le folle, nel deserto, sul lago senza lasciarsi trattenere da niente e da nessuno.
La sua meta era sempre più lontana.
Certamente guariva i malati, provava pietà per ogni tipo di fame e voleva trascinare tutti nell’attesa di qualcosa d’altro.
Per essere andato troppo lontano su sentieri che nessuno prima di lui aveva battuto, un giorno si è trovato solo.
Era troppo libero e pericoloso.
Proprio perché era così libero, neppure il sepolcro lo ha potuto trattenere.
Al termine di questa straordinaria avventura troverà ad accoglierlo l’abbraccio, la gratitudine e la gioia del Padre.
Vogliamo sapere come camminare verso la casa del Padre?
Dobbiamo guardare a Gesù, a quello che ha detto, a quello che ha fatto soprattutto a favore di quelli che erano respinti dalla società.
“Io sono la via”: Gesù è il nostro cammino. Un cammino che ci può spaventare tanto da ritenerlo impraticabile.
Come è possibile che la nostra esistenza debba rimanere sempre sotto il segno dell’urgenza, della tensione, dell’inquietudine?
Ci conforti a una lettura più attenta del vangelo, la certezza che c’è un camminare e c’è un dimorare.
La casa suggerisce l’idea del riposo.
Ed è un riposo che non ci viene soltanto promesso, ma già in qualche misura accordato.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” dice Gesù.
Se siamo uniti a Gesù, siamo uniti al Padre, siamo già nella casa del Padre.
Gesù è quindi cammino ed è già il compimento del cammino, Gesù è la strada ed è la meta.
E’lui che nel cammino attraverso i segni della sua presenza ci fa pregustare quanto sia bello “abitare nella casa del Signore”.
Io non so che possa rimanere in noi di questo discorso che trova nel Vangelo di oggi la sua necessità e la sua legittimità. A volte di fronte a certe proposte troppo elevate e di ampio respiro, siamo presi dalla vertigine ci rifiutiamo di seguire.
In realtà le cose alte di Dio possono trovare nella vita di tutti i giorni una traduzione molto esemplare.
Camminare e dimorare con Gesù vuol dire avere fede in lui: “Credete in me”.
Se crediamo in lui lasciandoci educare dalla sua parola, se siamo capaci di affidargli la nostra sofferenza e la nostra speranza, se ci lasciamo condurre a compiere gesti di pietà verso le persone che hanno bisogno di non sentirsi abbandonate, noi camminiamo e dimoriamo in Cristo, e dimorando in Cristo, dimoriamo anche nel Padre di cui già possiamo gustare la tenerezza e la gioiosa accoglienza.
Quando arriveremo alla casa del Padre il nostro posto, quello riservato proprio a noi, lo troveremo facilmente perché l’avremo già conosciuto in questo nostro camminare nella fede, nella speranza e nell’ amore.