domenica 29 giugno 2008

XIII Domenica del tempo ordinario


Matteo 10, 37-42

Prenderò in esame alcune affermazioni di Gesù, cominciando da quella che certamente ha lasciato in noi un profondo turbamento.
Abbiamo ascoltato infatti parole molto inquietanti perché ci sembrano troppo severe: parole radicali, eccessive, si direbbe perfino violente: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”.
Come è possibile ascoltare queste parole senza provare una sorta di ribellione?
Abbiamo l’impressione che Gesù sia troppo esigente e pretenda l’impossibile.
C’è un amore, quello per i propri famigliari, che è primordiale, spontaneo, istintivo: come sarebbe possibile subordinarlo a qualcosa d’altro?
Eppure, ci dice Gesù, è proprio questo che noi dobbiamo ottenere da noi stessi.
L’amore infatti, quando è esclusivo, può diventare una forma di egoismo e le famiglie rischiano di trasformarsi in realtà chiuse, ripiegate su se stesse.
Nel vangelo di Tommaso, un vangelo apocrifo, ma non per questo privo di attendibilità, tra i 114 logia o detti attribuiti a Gesù, c’è pure questo: “Siate dei passanti”.
A me pare che il senso possa essere questo: “Non lasciatevi sequestrare da nulla, neppure dagli affetti più cari.
Non chiudetevi dentro il perimetro di un amore troppo ristretto.
Tenetevi sempre disponibili per un amore più aperto e pù grande”.
Gesù è diventato un “passante” quando ha lasciato la sua famiglia per seguire la sua strada.
Non intendeva certo rinnegare i legami famigliari, ma piuttosto salvare uno spazio di libertà personale, una disponibilità per qualcosa d’altro, una tensione verso un amore più grande.
Prendere la propria strada, anche a costo di rinunciare alle sicurezze abituali, non è soltanto la scelta personale di chi vuole essere discepolo di Cristo, ma è la sorte comune di tutti quelli che hanno un’anima.
Essi non possono installarsi da nessuna parte senza tradire la loro naturale inquietudine.
Lo spirito li agita.
Lo spirito agita soprattutto il cuore dei giovani e di coloro che sono rimasti giovani.
Perché è vero: se si cerca di difendere la propria tranquillità all’interno dei recinti protettivi abituali, è segno di invecchiamento.
Vuol dire dimenticare un’altra parola attribuita a Gesù: “Il mondo è un ponte: passaci sopra, ma non
stabilirvi la tua dimora”
E’un ammonimento che ci fa capire che se si vuol prendere il cammino che porta all‘altra riva, bisogna recidere ciò che ci trattiene nei limiti della nostra mediocrità.
Questo distacco deve interessare non soltanto i legami famigliari, ma anche il proprio mondo interiore.
Possiamo immaginare che dentro di noi agiscano due soggetti principali, che sono in opposizione tra loro.
Portiamo dentro un io idealista, generoso, altruista, disponibile per le cause più belle e più pure, e portiamo dentro, anche, un io totalmente diverso, governato dallo spirito del possesso, dell’utile, del guadagno.
Viviamo perciò un’esistenza schizofrenica, sollecitata cioè in due direzioni opposte.
Il vangelo oggi ci invita a risolvere questa situazione con una proposta paradossale: “Chi avrà perduto la propria vita…., la salverà”.
Si tratta di perdere il proprio io egoista, di sfrattarlo, di estrometterlo perché soltanto a questo modo avremo la possibilità di crearci interiormente uno spazio aperto all’ospitalità.
Proprio l’ospitalità è uno dei grandi temi di questa liturgia.
A chi bisogna aprire le porte della propria casa e prima ancora del proprio cuore?
“Ecco, io sto alla porta e busso.- si legge nell’Apocalisse - Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me ”(3,20).
Il problema è che Dio bussa alla nostra porta dissimulando la sua presenza sotto sembianze umane.
Nei primissimi tempi della chiesa –vi allude il vangelo - c’erano profeti itineranti che si facevano ricevere dalle famiglie dei credenti: erano predicatori, evangelizzatori, catechisti, missionari che avevano il compito di confermare nella fede i nuovi convertiti.
Profeti oggi da parte di Dio possono essere certe persone che è una fortuna poter incontrare, perché sono presenze benedette che ci parlano di Dio con il loro semplice esserci.
Ci sono momenti in cui prendiamo coscienza che la nostra vita vale in virtù di questi incontri, delle occasioni in cui ci è dato di aprire la nostra casa a queste presenze benedette la cui immagine a distanza di tempo ancora ci plasma e ci costruisce beneficamente.
Ma non possiamo dimenticare che il Signore può presentarsi a noi con il volto del forestiero, dello sconosciuto, del povero.
Ogni tanto Dio ama venire come un visitatore imprevisto la cui apparizione ci sorprende e potrebbe sconvolgere i nostri programmi.
Se pretendiamo sempre di sapere a chi il Signore dovrebbe assomigliare per poterlo accogliere, rischiamo di chiudergli la porta in faccia come già è successo quando “venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”(Gv 1, 11).
Se siamo capaci di ospitare, allora sia anche capaci di donare.
Nel vangelo si parla del bicchiere di acqua fresca (siamo nell’arido Medio Oriente) dato al discepolo di Cristo.
E’ sorprendente che in questo testo la più eroica rinuncia (“perdere la propria vita”) sia associato al gesto più semplice, più facile, più naturale: quello di offrire un bicchiere d’acqua.
Il senso è chiaro l’amore a cui ci chiama il Signore è alla portata di tutti.
Seguire, accogliere, ospitare il Cristo non vuol dire compiere gesti eroici, ma vivere con uno stile di servizio l’umile realtà quotidiana, sul filo degli incontri di cui è intessuta la nostra vita.
Ogni piccolo gesto può essere importante: una gentilezza, un sorriso, una premura, una parola buona, un grazie, un elogio (siamo così avari di apprezzamento!).
Tutto però dovrebbe essere fatto con naturalezza, senza calcolo e senza compiacenze.
Lasciamo che sia il Signore a fare memoria di quel bene, poco o tanto che sia, che ci è dato di realizzare.
Nel giorno del giudizio ultimo verrà portato alla luce anche quel bene che noi avremo dimenticato: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25, 40).

XII Domenica del tempo ordinario


Matteo 10, 26-33

“Non temete!”; “Non abbiate paura!”
Sono tante le ragioni per essere preoccupati e inquieti.
Possiamo dire che la paura è un elemento costitutivo del nostro esistere.
Di che cosa abbiamo normalmente paura?
Ci sono paure legate alle nostre vicende personali, sempre esposte alla legge della precarietà.
Ci sono tempi in cui non ci si rende conto, ma poi arriva il momento in cui si è costretti a prendere coscienza di certi aspetti angosciosi della nostra esistenza.
Penso a ciò che si narra di Siddharta, il piccolo principe che poi sarebbe diventato Budda, il “risvegliato” .
Passa la prima parte della sua giovinezza dentro le mura di un castello principesco, al riparo da ogni immagine che potesse turbare la serenità, ma poi arriva un giorno in cui, varcato il recinto protettivo, si imbatte nella povertà, nella sofferenza, nella vecchiaia, nella morte.
Ci sono poi altre paure, legate, queste, a momenti di crisi che riguardano la vita di tutta la collettività: crisi economiche, finanziarie, tensioni politiche, per cui si moltiplicano altre paure particolari: c’è chi ha paura di perdere il lavoro, chi ha paura di non riuscire a pagarsi il mutuo per la casa ( il problema della casa è stato richiamato con forza proprio in questi giorni dal nostro arcivescovo nella sua ultima lettera pastorale), c’è chi teme la presenza di immigrati clandestini o, peggio, le minacce lanciate dalle centrali del terrorismo internazionale.
Ma Gesù nel vangelo insiste oggi su una paura che non è tra quelle che abbiamo ricordato.
Gesù, fin dalla fanciullezza, aveva avuto modo di entrare in relazione con le grandi figure dei profeti, come Geremia, che erano stati duramente perseguitati per la loro fedeltà alla parola di Dio.
E quando ha iniziato la sua missione messianica, sapeva certamente quali resistenze avrebbe dovuto incontrare.
Anche noi, come discepoli di Cristo, dovremmo sapere che la condizione del credente è sempre vulnerabile e passibile di ogni violenza.
O forse siamo così ingenui da pensare che si possa essere cristiani senza dover soffrire per la propria fede?
In un mondo dove ciò che conta è sopravanzare, riuscire, essere competitivi, la sofferenza per il credente è inevitabile..
E possibile che un uomo politico o un imprenditore non debba soffrire nulla per la propria fede quando si trova a misurarsi con un mondo corrotto, governato da una competizione violenta e spregiudicata.
E anche il comune credente, è possibile che non debba patire nulla per la propria fede?
Certo, se si limitasse a praticarla come un fatto privato, nel segreto della coscienza o dentro gli spazi devozionali, può essere che non patisca alcuna forma di disagio.
Ma se il problema è quello di testimoniare, come hanno fatto i discepoli una volta usciti dal cenacolo, è inevitabile incontrare opposizioni e persecuzioni.
”Quello che dico nelle tenebre, ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio, predicatelo sui tetti”, ci dice oggi Gesù.
Non è questione di forzare la voce (in certe occasioni il silenzio è più forte della parola), ma è questione di coraggio, di coerenza, di fedeltà, di fiducia.
Che cosa accadrebbe se dovessimo professare la nostra fede non in un Dio qualsiasi (questo non farebbe impressione), ma nel Dio di Gesù, venuto in mezzo a noi a servire?
Che cosa accadrebbe se dovessimo dimostrare di credere apertamente nelle beatitudini, nella croce di Cristo, nella sua risurrezione, nella vita eterna?
Dire che si corre il rischio di perdere la vita non è un’espressione enfatica.
Basti pensare alla sorte toccata a tanti testimoni del vangelo là dove la società è governata dalle leggi crudeli della mafia o della camorra.
Gesù non ci promette una vita facile, protetta, al riparo da ogni sofferenza.
Gesù ci promette la pace che può rimanere anche nel cuore delle prove più dolorose.
C‘è un Padre, ci dice Gesù: “Il Padre vostro”.
Un Padre che non dimentica nessuno.
Un Padre dalla tenerezza materna a cui sta a cuore la nostra vita più di quanto ci sia dato immaginare.
Per questo ci invita a non avere paura, ad avere fiducia.
Se Dio è accanto a noi come Padre, perché si dovrebbe temere?
Il cristiano può avere il volto segnato dalla sofferenza ma porta dentro, inattaccabile, la pace di chi si sente consegnato come un bambino tra le braccia del padre.
Se possediamo questa fede, siamo pronti anche a credere alle altre parole di Gesù riportate nel testo del vangelo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima.
Temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna.”
“Non hanno il potere di uccidere l’anima” : che cosa è dunque l’anima?
L’anima è l’io profondo di una persona, è la sua dignità inalienabile, è la sua libertà, è la speranza ultima del suo cammino.
L’anima è tutto ciò che appartiene non agli uomini ma a Dio.
Perciò, se tutta la nostra fiducia è in Dio, si può essere certi che nessuno ha il potere di strapparci l’anima.
A questo proposito non posso non ricordare quello che un amico prete, don Michele Do, amava ripetere:”Cedete tutto, ma non cedete mai la vostra anima! Tutto, ma l’anima, mai!”.
E' un ammonimento che ci fa capire come, se è vero che nessuno ha il potere di uccidere la nostra anima, può essere che siamo noi a barattare la nostra anima in cambio di qualche favore immediato.
I persecutori oggi si sono, come dire?, civilizzati.
Alle minacce preferiscono le lusinghe:
“Invece di mettere in carcere i discepoli di Gesù, li invitano sui palchi mondani, se li contendono nei salotti televisivi, li considerano ospiti d’onore riveriti ai ricevimenti ufficiali, insostituibili personaggi decorativi nelle cerimonie folcloristiche” (Pronzato).
E’ chiaro che quando sono in gioco applausi, soldi, potere, poltrone, la difesa della propria anima diventa un problema secondario.
Vale la pena perciò di richiamare, con forza, l’ammonimento che già abbiamo ricordato: “Cedete tutto, ma l’anima, mai!!”
Perché altrimenti vorrebbe dire rinunciare al bene più prezioso che abbiamo.
E non per colpa altrui, ma unicamente per colpa della nostra stoltezza e cecità.

giovedì 12 giugno 2008

X Domenica del tempo ordinario


Matteo 9, 9-13

Il vangelo ci parla di una nascita.
Uso questo termine perché mi pare che l’incontro con Gesù abbia segnato per Matteo un’esistenza radicalmente nuova, come un venire alla luce, un inizio di cui non avrebbe potuto immaginare gli sviluppi.
Di Socrate si diceva che esercitava sui discepoli l’arte della maieutica, l’arte di sua madre che era ostetrica. Si trattava per lui di portare alla luce della consapevolezza la verità nascosta nel mondo interiore dei suoi ascoltatori.
Gesù si riserva un compito ancor più creativo.
Non aiuta soltanto a trovare ciò che è nascosto, ma inventa qualcosa che ancora non esiste, una prospettiva di vita totalmente inedita, una identità nel suo primo formarsi e fiorire quale è quella del bambino che ha appena lasciato il caldo grembo della madre.
Non si finisce di provare stupore per tutte queste invenzioni di vita che Gesù va disseminando ad ogni suo passaggio.
Le sue parole hanno la freschezza della novità e dell’autenticità.
I suoi inviti arrivano al cuore e vi lasciano un turbamento profondo, come un appello a tentare un’esperienza radicalmente nuova.
E’ quello che il vangelo ci fa’intuire attraverso il breve racconto della vocazione di Matteo.
Matteo, raggiunto dallo sguardo e dall’invito di Gesù, “si alzò e lo seguì”.
In questi due verbi si avverte il trascorrere di una novità che sa di risveglio, di risurrezione, di abbandono fiducioso a una parola colma di sorprendente benevolenza e amicizia.
Segue il banchetto, che è come la celebrazione di una nuova nascita.
E le parole di Gesù fanno rimarcare ancora di più il senso di quell’evento che era per tutti motivo di imbarazzante stupore: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.
Che cosa voleva dire Gesù?
Tento di suggerire una possibile spiegazione.
I sani sono quelli che presumono di avere una identità solida, compatta, non incrinata da alcuna fragilità o perplessità.
Se si dicesse a qualcuna di queste persone: “Tu devi nascere di nuovo; hai bisogno di abbandonare le tue sicurezze, i tuoi schemi mentali, i tuoi comportamenti abituali per inventare nuovi pensieri, nuovi sentimenti, nuove speranze”, si potrebbe facilmente immaginare la risposta:
“Perché dovrei cambiare? Non ne sento proprio la necessità.
Sto così bene nella mia pelle, con l’immagine che ho di me stesso, con quello che mi ritrovo a vivere”.
In casi come questo anche Gesù non può creare nulla perchè ha davanti a sè un’identità solida, compatta, che non lascia alcuna breccia all’irruzione di qualcosa d’altro, a quello spirito di vita che Gesù vorrebbe comunicare.
La conversione dei buoni tutto il vangelo ce lo fa capire è estremamente difficile.
Ben diversa sarebbe la situazione di chi dovesse ogni tanto domandarsi, con grande umiltà:
“Qual è la mia vera identità che mi sto costruendo da trenta, quaranta o da più di sessant’anni?
Che tipo di uomo o di donna ho impersonato finora?
Perché c’è in me tanta durezza e tanta presunzione?
Cosa spero di ottenere con questo egocentrismo che mi assilla continuamente, con questo morboso attaccamento alla mia immagine, con questa esasperata ricerca del successo?
Solo se si riconosce di essere interiormente malati, si può essere aperti all’azione vivificante il Cristo.
Nel salmo 34 leggiamo queste parole: “Il Signore è vicino a chi ha il cuoce ferito, egli salva gli spiriti affranti”.
Solo l’uomo che si sente affranto, cioè franto, frantumato, ferito, può aprirsi alle invenzioni dell’amore di Cristo.
Ecco perché nelle beatitudini si legge che beati sono gli afflitti, i poveri.
Qualcuno potrebbe obiettare che Matteo in realtà non era per nulla povero, anzi, come pubblicano, esattore delle imposte per conto del potere romano, doveva godere di un benessere invidiabile.
Come ha fatto Gesù a scegliere proprio lui?
Certo è sorprendente la libertà con cui Gesù ha costituito il gruppo dei discepoli, fino a sfidare il cosiddetto buon senso.
Accanto a un collaborazionista come Matteo troviamo uno zelota, Simone, appartenente cioè al mondo della resistenza.
Gesù non tiene conto di questi dati esteriori perché ben più importante per lui è l’appartenenza al mondo dei malati o a quello dei sani.
Io credo che anche Matteo si sia posto le domande che abbiamo visto come fondamentali per riconoscere la propria verità interore.
Mentre tutti lo ritenevano una persona felice (come non pensarlo, visto che era così ricco?), lui doveva avvertire la precarietà della sua condizione, la povertà dei suoi ideali, l’aridità di un’esistenza chiusa in se stessa, senza amicizie e senza capacità di donazione.
Matteo ha preso coscienza di questa sua condizione di creatura malata e quando è stato avvicinato da Gesù ha sentito immediatamente l’impulso di alzarsi, di lasciare tutto per tentare con lui un’avventura ben più esaltante di quella legata al mondo del guadagno: un’avventura in cui avrebbe potuto vedere il mondo con occhi nuovi perché qualcuno gli aveva messo dentro un cuore nuovo, capace di lasciarsi amare e di amare.
Che cosa può suggerire a noi questa riflessione?
A me pare che i suggerimenti fondamentali siano due.
Perché si possa provare lo stupore per una vita totalmente nuova, bisogna che ciascuno disarmi le proprie sicurezze, soprattutto la pretesa di avere sempre ragione, prenda coscienza della propria precarietà, si faccia umile mendicante di amore e di felicità.
La seconda osservazione è strettamente legata alla prima.
Abbiamo detto che Gesù aveva questo grande dono: di infondere energie vitali in ogni essere che incontrava.
Ora questo privilegio l’ha affidato a ciascuno di noi.
Dobbiamo perciò essere grati a chi, accanto a noi (penso in particolare a quello che può essere realizzato nella vita di coppia), svolge questa azione in nome di Cristo, a chi ci comunica quotidianamente fiducia e simpatia, a chi accarezza la nostra debolezza come si accarezza un bambino appena nato, con la stessa delicatezza e premura, con lo stesso amore che ci porta a dire segretamente:”No, tu non conoscerai la morte. Voglio che tu viva. Lo voglio: devi vivere!”.

domenica 1 giugno 2008

IX Domenica del tempo ordinario


Matteo 7, 21-27

Il vangelo ci invita oggi a riflettere sulla conclusione del discorso sulla montagna.
In questa parte conclusiva Gesù precisa i tratti fondamentali che permettono di definire l’appartenenza al suo regno.
E’ perciò estremamente importante per noi ascoltare le parole di Gesù per saper affrontare la domanda che ci deve stare particolarmente a cuore: “Posso dire di avere preso la strada buona, quella che mi porta a costruire qualcosa di solido e di duraturo?
Posso sperare che tutto ciò che mi sta appassionando in questa vita ( le amicizie, gli affetti più cari, gli slanci del cuore verso la bellezza e la verità) non sia destinato a essere eroso e inghiottito dentro il vastissimo oceano del nulla eterno?”.
La parola di Gesù è severa e ci obbliga a un rigoroso esame di di coscienza.
Si tratta di fare opera di discernimento per non lasciarci ingannare credendoci giusti quando invece ci si trova nell’errore.
“Non chi dice: Signore, Signore…”
Gesù non denuncia qui il fatto di coltivare una preghiera ripetitiva (del resto, come avrebbe potuto, lui che passava notti intere in preghiera, con il nome del Padre sulle labbra?).
Soltanto voleva farci capire che questo non basta.
Essere fedeli alla messa domenicale, dedicare molto tempo alla preghiera, praticare devozioni di ogni sorta e credere che, dopo aver dato tanto tempo a Dio noi siamo buoni cristiani, rischia di essere una pericolosa illusione.
Conosciamo tutti persone che hanno smesso di frequentare la chiesa con il pretesto che quelli che abitualmente ci vanno non sono migliori degli altri.
E’ un pretesto, senza dubbio, che talvolta serve a mascherare una certa pigrizia spirituale.
E tuttavia, c’è qualcosa di vero in questa osservazione.
E’ precisamente quello che Gesù vuole farci capire:”Pregate, - ci dice- , pregate senza interruzione, ma non dimenticate di verificare la qualità della vostra preghiera nella vostra vita di tutti i giorni.
Non ci sia nessuna separazione tra la vostra pratica religiosa, da una parte, e la vostra vita quotidiana dall’altra”.
Il che vuol dire, in altre parole, che non sarà la lunghezza o il fervore delle nostre preghiere a costituire l’elemento decisivo della nostra appartenenza al regno.
Sarà allora l’efficacia delle cose che facciamo, delle azioni che compiamo?
Anche in questo campo le apparenze sono spesso ingannevoli.
Ci possono essere nella comunità profeti che in realtà sono falsi profeti.
Al tempo della stesura del vangelo di Matteo, c’erano gruppi di cristiani un po’esaltati alcnni dei quali si atteggiavano a profeti, altri si vantavano di saper cacciare i demoni con i loro esorcismi, altri ancora pretendevano di saper compiere miracoli.
Su di essi nel giorno del giudizio pioverà una sentenza tanto dura quanto inaspettata: “Non vi ho mai conosciuti”.
Come è possibile allora che il Signore ci riconosca nel giorno del giudizio come suoi discepoli? Ciò che conta, lo ha detto chiaramente Gesù, è fare là volontà del Padre, cioè amare, perché Dio è amore.
Questa per Gesù è la cosa più importante, tanto da inserirla come invocazione nel “Padre nostro”: “Padre, sia fatta la tua volontà”.
Riprendiamo la domanda iniziale: “Possiamo dire di essere sulla buona strada per essere riconosciuti come operatori di un bene destinato a durare per sempre?”.
La risposta l’abbiamo trovata nel vangelo.
Dio non ci riconosce in quanto persone pie, devote, osservanti e neppure come persone che godano di un certo prestigio per il ruolo che svolgono nella chiesa, ma come uomini e donne di grande carità e pietà.
Sembra quasi di poter dire che non è la chiesa il luogo dove preferibilmente ama riconoscerci, ma sono i luoghi della sofferenza, della fame, del bisogno, della emarginazione.
A me piace immaginare questa scena nel giorno del giudizio.
“Ah, quello lo conosco” dirà Gesù indicando qualcuno della nostra comunità, e quasi a prevenire ogni possibile obiezione si affretterà ad aggiungere: “Sì, lo conosco, perché l’ho visto accanto al letto di un ammalato, l’ho seguito mentre andava a tenere compagnia a un vecchio, l’ho presente perché ha dato lavoro a un immigrato”.
Queste sono le cose che maggiormente rimangono impresse nella memoria del nostro Dio.
C’è un’ultima osservazione da fare.
Per conoscere la volontà del Padre bisogna rimanere in ascolto della sua parola.
Occorre quindi molta capacità di ascolto e, perciò, anche molto silenzio.
E’ nel silenzio della nostra interiorità che la sua voce ci raggiunge.
Allora si comprende che non è una volontà che faccia paura, quasi fosse un volere tirannico che ci domina, ma è come una sorgente di amore che scaturisce nella profondità del nostro essere e ci inonda di gioia e di tenerezza.
Se ci si lascia amare dal Padre, non c’è più bisogno di domandarsi che cosa fare per interpretare la sua volontà.
Identificati a colui che è amore immenso, si diventa dolci, pazienti e soprattutto misericordiosi, portando l’immagine di Dio riflessa nella nostra vita.