domenica 8 novembre 2009

II domenica dopo la dedicazione

Luca 14, 1a.15-24


Ci saremmo aspettati la liturgia della solennità di tutti i santi.

Avremmo riascoltato, con profonda commozione, l’annuncio delle beatitudini, che troviamo nel testo di Matteo.

E invece, per ragioni che non è il caso di volere esplorare, gli operatori della recente riforma liturgica che ha dato vita al nuovo rito ambrosiano, ci hanno fatto celebrare ieri la solennità di tutti i santi assegnando a questa domenica la liturgia del tempo ordinario.

Ma la festa di tutti i santi è troppo importante perché non se ne debba fare parola nel giorno che per lunga tradizione è ad essa dedicato.

“Mi aggirerò per tutta la vita nei paraggi dei santi”: ha scritto un grande pensatore del nostro tempo, Cioran, che si definiva non credente.

Perché questa festa esercita un fascino particolare anche su chi non crede?

Tra le tante ragioni che potrebbero essere richiamate, a me pare che una in particolare meriti tutta la nostra attenzione.

In un tempo (è il nostro) in cui tutte le vie tentate per conquistare la felicità si sono rivelate ingannevoli e derisorie, soprattutto quelle dai percorsi moralmente spericolati, può nascere un’interrogazione che racchiude un sospetto e insieme una speranza.

“Visto che la felicità non appartiene né a chi è ricco né a chi è potente, né al superuomo né al libertino gaudente, non potrebbe essere – ecco l’interrogazione – che l’unica persona felice sia il santo?

Di felicità parlano le beatitudini come pure la parabola che abbiamo trovato nel vangelo dove la felicità viene rappresentata con l’immagine di una grande cena e tutto il racconto è introdotto da un’altra beatitudine: “Beato chi prenderà parte al banchetto nel regno di Dio”.

E’ importante perciò “aggirarsi nei paraggi dei santi”, osservarli da vicino, spiarli nel loro modo di vivere, cercare di carpire il loro segreto, cioè la formula, se così si può dire, del loro essere beati.

Che cosa possiamo osservare?

Che i santi non sono dei superuomini.

Se la chiesa fosse fatta di gente perfetta, chi avrebbe il coraggio di entrarvi?

E’ quello che si domandava Bernanos: vi resteremmo davanti come un contadino, che si rigira tra le mani il cappello, prima di farsi ricevere dai ricchi signori.

Fortunatamente per noi, i santi hanno i loro difetti.

A questo modo li sentiamo più vicini, più umani, più frequentabili.

Non ha senso perciò dire (qualcuno l’ha detto) che è più difficile vivere accanto a un santo che diventarlo personalmente.

Perché la santità, se è vera, è umile e accogliente nei confronti di tutti.

La santità è umile, perché non è una conquista dell’uomo.

Ci sono, per esempio, carriere che sono costruite con un preciso impegno e con il concorso di circostanze favorevoli.

La santità non si costruisce, ma si accoglie.

Il principio della santità non è infatti nell’uomo, ma in Dio.

Santo è colui che si lascia educare dalla sua parola, si lascia plasmare dal suo amore, riconoscendo di essere povero e di dovere tutto all’amore del Padre.

Bisognerebbe che fossimo capaci di dire: “Da me stesso non ho nulla, nulla che possa appagare veramente il mio cuore.

La mia più grande gioia è quella di sapere e di sentire che in ogni momento della mia vita sono amato da Dio con una tenerezza indicibile. Che Dio mi chiama con il mio nome e mi incoraggia, anche quando sono io a non amarmi, perché provo vergogna delle mie colpe o sono avvilito da troppe paure.

Ho fiducia: sono nelle mani del Padre.

E proprio perché l’amore del Padre è tutto per me, sono pronto a fare della mia vita un dono continuo”.

Ecco chi sono i santi.

Potremmo aggiungere: sono le tracce visibili dell’amore invisibile di Dio.

Proprio perché queste persone si sentono amate, senza alcun merito, trovano dentro di sé una disposizione, per così dire, naturale ad amare. E’ un amore che si traduce in premura, in comprensione, in mitezza, in misericordia.

A volte si rimane rattristati quando si ha l’impressione di vivere in un mondo arido, cinico, senza pietà, ma se si è più attenti si scopre un mondo sommerso dove circola la bontà più genuina, quella che non si mette mai in vista e che si esprime con la più grande naturalezza coniugandosi a volte con il sorriso, ma anche con un po’ di autoironia e di umorismo.

Oggi è la festa soprattutto dei santi anonimi nascosti in mezzo a noi.

Non è sempre facile riconoscerli, perché la santità autentica ama la discrezione, il nascondimento, l’umiltà.

Perciò non cerchiamo i santi dove l’aureola è già pronta.

Affidiamoci, nel cercarli, all’intuizione del cuore, a quell’improvviso sussulto, fatto di stupore e di gioia, che ci può procurare un volto, una parola, un gesto complice, una preghiera mormorata accanto a noi.

Sappiamo riconoscere anche noi la santità nascosta.

Apriamo i nostri occhi per riconoscere i santi che ci stanno accanto, uomini e donne che camminano leggeri sulla terra, sempre pronti a fare del bene, le tante mamme dalla dedizione instancabile che portano sul volto il segno della fatica, ma anche la luce di una pace inalterabile.

Mi viene in mente a questo proposito un detto che si trova nel Talmud: “Non potendo essere dappertutto, Dio creò le mamme”.

“Mi aggirerò tutta la vita nei paraggi dei santi”.

Questo desiderio espresso da Cioran deve essere anche nostro, con la speranza di non andare troppo lontano, ma di trovare il primo santo in noi stessi, così come lo ha sognato l’amore del Padre.

venerdì 23 ottobre 2009

Dedicazione della chiesa cattedrale - 2009

Giovanni 10, 22-30

Il tempio (oggi è la festa che ricorda il tempio più importante della diocesi, il Duomo) suggerisce diverse riflessioni che toccano il tema della presenza di Dio nella nostra vita.
Il tempio sembra offrire subito una risposta: Dio lo si può incontrare proprio lì, in quella casa che gli uomini hanno costruito per lui.
Ma questa risposta non soddisfa pienamente, perché è troppo riduttiva nei coti di Dio, il quale attraverso le parole di Gesù alla Samaritana, già aveva fatcapire che non intendeva limitare la propria presenza né al monte Garizim, dove si trovava il tempio dei Samaritani, né a Gerusalemme dove si trovava il grande tempio dei Giudei .
E’ importante perciò contemplare l’immagine del tempio per vedere le correzioni o le precisazioni
che bisogna apportare all’idea che esso sia la casa di Dio.
Il tempio, per quanto grande, è limitato, e Dio è presenza senza confini.
“Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo agli inferi, eccoti” leggiamo nel salmo 138.
E’ giusto pensare che Dio voglia legare la sua presenza a qualche luogo particolare (la dimensione corporea ee del nostrre ha bisogno di riferimenti concreti), ma senza mai dimenticare che, uscendo da un tempio, Dio lo possiamo ancora incontrare in ogni immagine del creato e ad ogni svolta del nostro cammino.
Ogni cosa per chi ha lo sguardo affinato può diventare segno e sacramento della presenza
di Dio.
Ma Dio ama farsi trovare soprattutto nelle creature umane,che perciò diventano icone viventi di Dio.
Ricordo una frase di Duhamel: “E’ tra le ciglia di un piccolo che i giusti intravedono Dio tre o quattro volte nella loro vita”.
Ma è anche vero che i giusti, cioè quellio uno sguardo puro, possono vedere Dio in ogni volto.
E’ certo che Dio non ama farsi rinchiuderspazi troppo ristretti, ma è amante di spazi liberi e aperti, dove palpiti una luce di bellezza o una nota di tenerezza.
Ripartiamo, per un’ulteriore riflessione, dal tempio.
Il tempio di pietra è una costruzione statica e inerte, per quanto possa esprimere, come nelle cattedrali gotiche, un movimento verso l’alto.
Questa strutturale immobilità non potrebbe essere immagine di un Dio sedentario che sta immobile su un trono, come garante della legge della tradizione, o anche di una chiesa chiusa nelle sue certezze, separata dalla vita che si vive lungo i sentieri della storia, la dove l’umanità cerca a fatica di vincere la paura o la rassegnazione di fronte a un futuro che sembra ingovernabile?
Anche questa impressione va corretta, perché il nostro Dio non ama l’immobilità.
E’ un Dio nomade sempre in cammino con tutti quelli che sentono la passione di orizzonti sempre nuovi.
Chi ci fa capire questo? E’ stato soprattutto Gesù coche evocano spesso un padrone il quale lascia la sua dimora per un viaggio lontano, non si sa dove.
Lui stesso, Gesù, è sempre errabondo, come pastore (è un’immagine presente anche nel vangelo di questa domenica) che va cercando nuovi pascoli.
Se Dio ama l’avventura, come è possibile che i credenti in Dio siano invece amanti dei recinti chiusi, dell’inamovibilità delle cose, delle tradizioni inerti, della ripetitività senza il gusto e il rischio dell’invenzione?
Ci siamo lasciati guidare, nella nostra riflessione, dall’immagine del tempio di pietra.
Da essa ci è venuta una lezione sulla fede.
La vita di fede è perenne novità, movimento, amore.
Tanti sono i giovani che dicono di non credere più.
In un certo senso li capisco.
Abbiamo dato l’impressione che la fede si debba vivere in spazi ristretti e soffocanti, dove si respira la noia, a contatto con gente che pretende di governare tutti i movimenti di Dio o che nella religione cerca soltanto compensazioni o garanzie oltre quelle di cui già dispone.
Quando riusciremo a capire e che la vventura stupenda nella ricerca di Dio che sempre si lascia trovare (è lui, in realtà, che ci va cercando) e sempre ci porta più lontano, perché, una volta che ci sembra d’averlo raggiunto, è sempre altrove.
Certo, nelle parole di Gesù c’è un cenno a momenti di particolare intimità tra lui e i suoi discepoli, là dove si parla delle pecore che ascoltano la sua voce.
Questa voce sembra promettere una relazione di particolare tenerezza riservata da Gesù ai suoi discepoli, ma non bisogna esaurire questo accenno soltanto nella bellezza dell’ascolto della voce di Gesù.
Questa voce è stata infatti anche un grido di protesta e di indignazione nei confronti di tutte le ipocrisie che Gesù riscontrava nella società del suo tempo.
E’ bene ricordare che Gesù non vuole come discepoli individui indifferenti, apatici, inerti per i quali tutto va bene.
Gesù non si fida dei tipi che, di fronte a certe situazioni vergognose, non reagiscono.
Non è consentito fare finta di niente e rimanere in silenzio. Il Signore, per parte sua, ha scelto parole taglienti nei confronti di situazioni che mortificavano la dignità delle persone.
Credo che sia proprio l’indignazione ciò che manca nel mondo d’oggi e pure nella Chiesa.
L’indignazione dovrebbe essere un diritto fondamentale, anzi un preciso dovere morale.
Eppure materiale per indignarsi, per fare esplodere il nostro sdegno, ce ne sarebbe in abbondanza. Tutte le volte che nella società vediamo trionfare il cinismo, il disincanto, il disamore, la mancanza di un’autentica passione per l’onestà, la lealtà, la giustizia, bisognerebbe sapere reagire con quella santa collera che ci è stata trasmessa da Gesù.
A me dà sempre una grande emozione, entrando in una chiesa come la nostra, il fare memoria di quanti sono passati in questa chiesa, hanno pregato, hanno calpestato e consumato un poco le pietre del pavimento lasciandovi le tracce delle loro devozioni.
Si tratta per lo più di creature oscure che irradiano una bellezza segreta: è la bellezza dell’umiltà, della semplicità, della docilità a un mistero che dà senso al proprio esistere.
Sul cuore dei veri cercatori di Dio passa il vento dello Spirito ed essi diventano frammenti di luce destinati a risplendere per sempre nel firmamento di Dio.

Assunzione della Beata Vergine Maria - 2009

Le feste liturgiche dedicate a Maria, come questa dell’Assunzione, ne celebrano per lo più i privilegi e la gloria.
A queste feste si accompagna spesso una certa enfasi devozionale che, mentre esalta la esemplarità straordinaria di Maria, rischia di farci dimenticare gli aspetti ordinari, quelli rappresentati dai limiti della nostra condizione umana.
Bisognerebbe non dimenticare mai che nei vangeli Maria occupa uno spazio molto modesto, senza alcun accenno a fatti prodigiosi che avessero qualche parentela con la gloria umana.Bernanos lo ha fatto osservare con molta forza. “La Santa Vergine non ha avuto né trionfo né miracolo. Suo Figlio non ha permesso che la gloria umana la sfiorasse”.
Prima perciò di contemplare Maria come regina del cielo, cerchiamo di umanizzarla, di renderla vicina, di vederla come figlia di questa terra.
Del resto, quando ha parlato di umiltà, lei stessa ha invitato a considerare la sua condizione, fatta di incombenze e di adempimenti, che in nulla dovevano distinguerla dalle altre donne di Nazaret.
Come possiamo immaginare le sue giornate?
Era una casalinga, diremmo oggi, che si occupava delle faccende di casa, come quella di attingere acqua all’unica fonte del villaggio e di lavarvi i panni in compagnia di altre donne.
Era una madre di famiglia che doveva seguire con trepidazione la crescita del figlio.
Era la moglie di un artigiano del villaggio che doveva temere per tutte le incertezze economiche legate al lavoro.
Bisognava perciò fare tante piccole economie e cogliere tutte le occasioni possibili, soprattutto al tempo del raccolto, per integrare con qualche guadagno supplementare le poche risorse disponibili.
In quella casa non si conosceva la ricchezza.
Maria dunque è stata una donna come tante altre, in quel villaggio della Galilea.
Come ha potuto, da questa condizione di radicale umiltà, elevarsi così tanto da raggiungere, anche con il corpo, il Figlio nella gloria della risurrezione?
La risposta la troviamo nelle parole del Magnificat e di Elisabetta
“Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” dice Maria.
Ed Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”.
Maria rivela un’esistenza che si lascia colmare dai doni di Dio, dalle cose grandi che Dio ama realizzare nelle persone umili.
Trovo molto bella questa osservazione di un autore francese: ”Il vero possesso si realizza solo nell’abbandono. Si posseggono solo i regali, non le prede”. (Jean Bastaire).
Noi che abbiamo l’abitudine di mettere su tutte le cose le nostre mani possessive e predatrici, le perdiamo.
Maria invece ha offerto un cuore accogliente e riconoscente al dono di Dio (“Ha creduto” come dice Elisabetta) e questo dono ha preso dimora in lei, prima nel suo grembo di madre, poi nella sua casa di Nazaret e nel suo cuore di discepola del Figlio.
All’interno della sua vita ordinaria ha dato spazio all’azione di Dio di cui ha sentito il fascino e la forza ascensionale tanto da essere anch’essa associata allo slancio della risurrezione.
A pensaci bene, non poteva avvenire diversamente.
Aveva detto Gesù:“ Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte) (Gv 8, 51).
Chi più di Maria ha prestato un ascolto fiducioso e docile alla parola di Gesù?
Del resto, è una legge dell’amore che chi ama, venga a trovarsi là dove è la persona amata.
Elias Canetti ha scritto: “Chi ama, va in giro con un cuore altrui. Chi muore, porta con sé nella tomba il cuore di un altro e il suo cuore continua a vivere in un’altra persona”.
Alla luce di questa verità , possiamo dire che Maria, il giorno della Assunzione, ha ritrovato il suo cuore in Gesù e Gesù ha ritrovato il suo cuore nella madre, per sempre unita a lui nella gloria.
Che cosa ci suggerisce questo mistero di Maria che valga a trasfigurare un poco le nostre esistenze?
Oggi Maria non solo ci insegna le vie del Vangelo, quelle, in particolare, della umiltà, della , semplicità, della accoglienza fiduciosa e gioiosa dei doni del Signore, ma, come vangelo tradotto in immagine di pura bellezza, ci indica quali sono gli orizzonti ultimi della nostra vita che danno un senso a tutto quello che stiamo vivendo.
Maria ci aiuta a fare memoria del nostro futuro.
E poiché ci è promesso un futuro di luce e di bellezza, questa luce può trasfigurare già la vita presente e ci consente di amarla anche quando ci sembra greve e opaca.
Questa luce trasfigura in particolare l’opacità dei nostri corpi.
Un riverbero della luce dell’ assunzione si riflette su tutti i corpi,, sui corpi provati dalle malattie,sui corpi umiliati delle prostitute, sui corpi inerti delle persone che sentono il peso degli anni-
E d’altra parte la stessa luce esalta il lavoro di tutti coloro che si prodigano nel curare i corpi con grande rispetto della loro dignità.
Il Magnificat dell’Assunzione dovrebbe risuonare oggi soprattutto nelle cliniche e negli ospedali, negli ospizi e nei penitenziari.
Anche nei cimiteri.
L’Assunzione è come il riflesso della luce pasquale, una sorta di arcobaleno su un cielo ancora tempestoso o come l’eco di quell’alleluia che ha salutato nel cuore della nostra fede il grande evento della risurrezione.

lunedì 6 luglio 2009


V dopo Pentecoste (R.A.: anno B)

Giovanni 12, 35-50

In questa pagina del vangelo di Giovanni c’è un tema che si impone immediatamente alla nostra attenzione: è il tema della luce.
Tema molto suggestivo quello della luce, che trova in noi risonanze profonde, perché tutti cerchiamo la luce e ogni giorno la invochiamo.
E sentiamo che non ci basta la luce per gli occhi e neppure la luce per la mente, ma che ci occorre una luce che ci raggiunga in profondità, in quella dimensione segreta del nostro esistere che siamo soliti chiamare cuore.
La scienza, certo, ci aiuta a vivere: ci permette di risolvere tanti problemi, di vincere tante paure.
Ma può bastare se manca il senso di quello che viviamo, se manca la luce del cuore?
Può bastare se appena c’è un po’di dolore non capiamo più nulla, se al minimo evento doloroso il cammino della vita, che prima credevamo lineare, diventa un labirinto senza uscita?
“Si vede bene solo con il cuore” diceva Saint-Exupéry.
Vorremmo perciò una luce che accarezzasse il volto, gli occhi, gli affetti, i concetti, le parole, le cose: una luce che accarezzasse soprattutto il cuore.
Esiste questa luce ?
La luce, ha detto Einstein, è l’ombra di Dio che passa.
Questa ombra si è posata nel grembo di Maria (“Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” ha detto l’angelo dell’annunciazione) e il bambino che sarebbe nato a Betlemme sarebbe stato la luce del mondo, ”la luce vera, quella che illumina ogni uomo”.
La parola di Dio, che è luce, si è incarnata in Gesù, ma per il fatto che noi siamo uniti a lui, si è incarnata e si incarna in ciascuno di noi.
Se voglio sapere qualcosa sul mistero del nascere, dell’amare, del soffrire, del morire, mi rivolgo a Gesù e a quella luce che egli ha deposto in me.
Ed è luce che si esprime attraverso i gesti della compassione e dell’amore.
Ha detto Gesù, in un altro passo di questo vangelo: “Compite le opere della luce finché dura il giorno”.
Quali sono le opere della luce?
Sono quelle che nascono dalla sapienza della misericordia, sono le opere della carità.
Allora si diventa presenze luminose, capaci di portare luce attorno a sé.
Ed è facile riconoscere queste presenze.
Già il volto è capace di far trasparire la luce interiore.
Penso al volto di Gesù: doveva essere un volto particolarmente luminoso, se tanti ne hanno sentito immediatamente il fascino e la bellezza: era la trasparenza più pura e palpitante dell’amore del Padre.
Trasparenza: mi sembra la parola giusta.
Trasparenza per non impedire la luce; trasparenza per non offuscare una presenza.
Si tratta di lasciar trasparire l’azione del Signore.
Certo, ci sono volti intristiti dal fatto che riflettono solo paure.
Sono i volti di quelle persone che si lasciano catturare dalle analisi sottili e spietate del nostro tempo e diventano testimoni solo delle ombre e delle oscurità che gravano sulle nostre esistenze.
Ma per fortuna ci sono anche i testimoni della luce che sanno parlare di speranza e di amore.
Sono persone che custodiscono questa pacificante certezza: la vita ha un senso perché c’è qualcuno che ci ama.
Proprio perché queste persone si sentono amate, senza alcun merito, trovano dentro di sé una disposizione, per così dire, naturale ad amare.
E’un amore che si traduce in comprensione, in mitezza, in misericordia.
A volte abbiamo l’impressione di vivere in un mondo arido, cinico, senza pietà, ma se si è più attenti si scopre un mondo sommerso dove circola la bontà più genuina, quella che non si mette mai in vista (il vero bene si nasconde sempre dietro un velo di pudore), ma che si esprime con la più grande naturalezza coniugandosi a volte non solo con il sorriso, ma anche con un po’di autoironia e di umorismo.
Dio ci dona il suo amore che diventa luce e senso per il nostro cammino.
Noi siamo chiamati a donare amore perché sia luce per il cammino degli altri.
Anche il piccolo gesto è importante.
Perché si rischiari il cielo della nostra vita sia della vita di qualche fratello che abbia bisogno di noi.

domenica 21 giugno 2009

III dopo Pentecoste
Gen 2, 18-25
Ef 5,21-33
Mc 10,1-12

C’è un legame molto stretto tra il Vangelo e la prima lettura.
Alcuni farisei si avvicinano a Gesù e, per metterlo alla prova, gli chiedono se sia lecito ad un uomo rimandare la propria moglie.
Il problema che viene sollevato è quello del divorzio. Dopo la creazione, è un problema che ritorna incessantemente, fino ai giorni nostri. E il fatto che il divorzio sia inteso come una questione che si può risolvere per vie legali non diminuisce la sofferenza e il senso di fallimento che porta con sé.
Secondo il racconto della Genesi, al quale Gesù fa riferimento, Dio aveva creato il mondo lungo una successione di giorni e a ogni tappa di questo percorso creativo, contemplando la sua opera, aveva concluso che tutto era riuscito bene: “Dio vide: era bello”.
Solo la creazione di Adamo non lo aveva completamente soddisfatto. Lo vedeva infatti solo e triste. Triste perché solo. Bisognava in qualche modo rimediare.
E’ per questo che Dio porta l’uomo a contemplare le bestie dei campi e gli uccelli dell’aria.
Dare un nome, nella mentalità semitica, voleva dire affermare la propria superiorità.
Chissà -deve aver pensato- forse tra tutte queste creature gli capiterà di trovare quella che potrà salvarlo dalla sua solitudine.
Visto inutile questo tentativo, ne inventa un altro. Fa cadere su Adamo un sonno profondo, sonno che sta a significare l’estasi, di cui si parla spesso nella Bibbia, cioè lo stupore meraviglioso che prende l’uomo tutte le volte che Dio sta operando qualcosa di grande.
E qui si incontra la storia della costola, di questa curiosa chirurgia divina su cui in passato si sono fatti tanti commenti ironici e divertiti.
In passato senza dubbio, ma ora non più, perché una migliore conoscenza del linguaggio simbolico ha permesso di capire questa immagine, che esprime una verità grandissima e meravigliosa: per il fatto che Dio ha formato Eva da una costola di Adamo (e si potrebbe anche dire che ha preso un parte del cuore di Adamo), la donna è della stessa natura, ha la stessa dignità e gode dei medesimi diritti dell’uomo.
A San Tommaso viene attribuita, a torto, perché pare che non l’abbia mai detta, questa frase: “la donna è un errore della Natura”.
Il racconto biblico ci dice invece che la donna è una meravigliosa invenzione di Dio, per nulla inferiore a quella con cui Dio ha creato l’uomo.
Si può capire perché Adamo, davanti alla donna, si abbandoni a un canto d’amore: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”. Secondo la Bibbia si tratta, oltre che della prima parola pronunciata dall’uomo, del primo di tutti i canti d’amore.
Così Dio ha sognato e realizzato il matrimonio. Dio è amore, Dio è relazione, e anche la creatura umana, così come Dio l’ha voluta, è amore e relazione. Immagine di Dio non è l’uomo solo o la donna sola, ma l’uomo e la donna insieme, uguali per dignità, chiamati a una complementarietà fatta di tenerezza, di stupore, di gioia.
Questo sogno in seguito, ci fa sapere il Vangelo, è stato tradito. Non sorprende perciò che da immagini di vita si passi a immagini di morte.
A evocare la morte è anzitutto la durezza di cuore di cui parla Gesù, la sclerocardia che si trova net testo greco. La sclerocardia è la sclerosi del cuore, il rifiuto del cuore umano di battere al ritmo del cuore di Dio, così da accordarsi al suo sogno. Quando avviene questo rifiuto è la morte dell’amore: quando in una coppia entra la sclerocardia non si è più rivolti al futuro, con la freschezza e la fiducia di chi si muove incontro alla novità attesa, ma ci si rivolge al passato per rinfacciarsi le cose peggiori. Il sorgere di una coppia è un atto di nascita; un divorzio, quando all’amore subentra il tribunale, è un atto di decesso.
Purtroppo la sclerocardia è così diffusa che, volendo parafrasare un passo famoso del Vangelo, ci sarebbe da domandarsi: “quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora sulla terra delle coppie che siano capaci di amarsi veramente?”
Ma non è il caso di seguire la linea delle lamentazioni e di avere sempre davanti immagini di fallimenti e di morte. E’ meglio tornare a parlare di vita, a celebrare l’amore nelle sue forme più limpide, secondo il sogno che Gesù ci invita a contemplare parlando dell’inizio della creazione.
E’ sempre bello contemplare l’amore che, come dice l’apostolo Paolo, è la sola vera ricchezza della vita.
Ciascuno può dire: “io vivo nella misura in cui amo; esisto nella misura in cui mi sento amato”.
C’è stato chi ha detto, a proposito del bacio sulle labbra: “Essi si versano la loro anima l’uno nell’altra”. Pensate che sia una frase di uno psicoterapeuta dei nostri tempi? No: appartiene a un santo del XVII secolo, San Francesco di Sales!
Ma la Bibbia aveva detto qualcosa di immensamente più grande, quando ha parlato dell’amore come sacramento di Dio, rivelazione e dono dell’amore di Dio.
Dio è nello sguardo di quelli che si amano. Quando si ama una persona, Dio è presente sul volto dell’altro e il volto dell’essere amato diventa una manifestazione di Dio.
Queste suggestioni sull’amore divino che troviamo nella Bibbia ci permettono non soltanto di scoprire dove sta il segreto della fedeltà nell’amore, ma anche di ripensare nella luce dell’amore la nostra vita di fede.
Il pericolo della sclerocardia può guastare anche i nostri rapporti con Dio: succede quando si aderisce a un credo o a una pratica religiosa per tradizione, per inerzia, per un calcolo interessato; quando si pensa di avere dei meriti di fronte a Dio e alla Chiesa e si pretende che siano riconosciuti, o ancora quando non si è capaci di esprimere gioia e stupore per i doni che Dio ci elargisce.
Le parole del Vangelo “ciò che Dio ha unito l’uomo non separi” non si rivolgono solo agli sposi, ma a ciascuno di noi, che per il battesimo siamo diventati una sola cosa con il Signore.
Per questo possiamo dire:
Per il battesimo siamo diventati una sola cosa con te, Signore, e vogliamo vegliare per non spezzare quell’unità che tu stesso ci hai donato. Conservaci fedeli all’alleanza del nostro battesimo e fa’ che cresciamo nell’amore e nella fedeltà, verso di te e i nostri fratelli.

mercoledì 3 giugno 2009

Pentecoste (R.A.)
Gv 14,15-20


La chiesa celebra oggi il dono dello Spirito.
Che cosa sia lo Spirito, non è facile dirlo.
Il catechismo ci suggerisce la risposta”Lo spirito è una delle tre persone divine”.
Ma delle tre persone divine rimane la più misteriosa.
Il Padre e il Figlio hanno almeno un nome che richiama un volto.
La parola Spirito, che significa soffio, respiro, richiama piuttosto l’attività con cui si manifesta.
Perciò ci è più facile parlare dell’azione dello Spirito.
Lo faremo seguendo il racconto che della Pentecoste ci ha dato Luca negli Atti degli Apostoli.
Ciò che sembra importante osservare è il passaggio da una condizione mortificata dalla paura a una condizione risvegliata dalla speranza.
La paura la conosciamo tutti.
Ciascuno ha una propria vulnerabilità e patisce l’angoscia nel sentirsi esposto a tanti rischi e sofferenze.
Ma oggi, in cui si celebra la nascita della chiesa, vorrei parlare delle paure di cui soffre la
chiesa.
La chiesa,almeno nei pastori che la governano, soffre anzitutto di una sorte di sindrome dell’accerchiamento.
Si sente cioè assediata da forze ostili che la vorrebbero privata della sua libertà.
Ma la chiesa soffre anche e soprattutto per una progressiva decristianizzazione della società, per l’assottigliarsi del numero di coloro che si mantengono fedeli alle pratiche religiose, per l’eccessiva libertà che ciascuno si prende di fronte ai principi morali che essa non si stanca di richiamare, per il moltiplicarsi di casi di infedeltà, anche all’interno del mondo ecclesiastico.
D’altra parte la chiesa non può facilmente consolarsi per il consenso che essa ottiene da molti sedicenti amici ( i cosiddetti atei devoti) i quali ostentano una vicinanza per motivi di pura convenienza.
Ad essi poco importa di Gesù Cristo e della fede cristiana, mentre interessa un cristianesimo da utilizzare per fini politici, auspicando per l’Europa una identità cristiana intesa come baluardo difensivo contro i non europei.
Vale la pena di ricordare le parole ammonitrici che sono racchiuse in una sorta di aforisma:
“E’ meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”.
Torniamo alle paure di cui soffre la chiesa.
Sono paure molto serie tanto da riguardare la sua stessa sopravvivenza.
”Siamo gli ultimi cristiani?” si è chiesto recentemente padre Tillard, un attento osservatore dei grandi fenomeni della vita sociale e, in particolare, delle vicende della chiesa nel mondo d’oggi.
Ma questa interrogazione potrebbe essere accantonata per lasciare spazio ad un’altra:
“E se dovessimo essere noi i primi cristiani?”.
Di una nuova Pentecoste ha parlato papa Giovanni XXIII a chiusura della prima sessione del concilio, una Pentecoste che dovrebbe assicurare un balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo.
Dove e come potrebbe realizzarsi questa presenza dello Spirito pentecostale?
Guardiamo a quello che ci narrano gli Atti .
C’ è un vento gagliardo che apre le porte del cenacolo e ci sono persone che, asserragliate dentro dalla paura, trovano il coraggio di uscire all’aperto.
La chiesa, è stato detto, con la Pentecoste acquista il coraggio di scendere in piazza.
Ma non bisogna forzare troppo questa espressione.
Del resto negli Atti non si parla di piazze, ma di una folla che si era raccolta davanti alla casa dove stavano i discepoli perché aveva avvertito che là dentro stava succedendo qualcosa di strano. Parlare di grande folla e di piazza rappresenta una forzatura del testo che può fare comodo a quanti vorrebbero una chiesa che non solo non tema la piazza, ma la ami e la cerchi.
In piazza le manifestazioni di massa prendono il sopravvento sull’incontro con le singole persone e gli applausi diventano più importanti delle vibrazioni dei cuori.
La piazza diventa il luogo dove viene allestito lo spettacolo religioso.
Si cerca perciò di stupire, di impressionare, di suscitare entusiasmi non importa se epidermici e di breve durata.
Certamente è bello osservare che la chiesa il giorno di Pentecoste abbia il coraggio di entrare in rapporto con la grande famiglia umana per portare a tutti il messaggio che le è stato affidato.
Ma è bello pensare anche ad una chiesa che rientri, per così dire, in casa.
La chiesa di Pentecoste è anche la chiesa della interiorità.
E l’interiorità è possibile solo se in certi momenti si chiudono le porte, mettendo a tacere le voci e i richiami della piazza.
La chiesa , per imparare a parlare a tutti, deve imparare prima di tutto il linguaggio del silenzio.
Per manifestarsi, deve rinunciare ad apparire e ad autocelebrarsi.
Questa è la via che lo Spirito, il quale ci è dato come consolatore, ci suggerisce come l’unica
via che ci permette di vincere le nostre paure.
“Ma lo Spirito Santo è ancora presente in mezzo a noi?” si chiedono molti cristiani amareggiati per le troppe delusioni patite in questi ultimi cinquanta anni, da quando cioè si è chiuso il concilio.
La risposta la prendo dalla Lettera sullo Spirito che il nostro card. Martini scrisse nel 1997:
“Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro.
C’è, e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge arriva là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi della nostra epoca, che è la perdita del senso dell’invisibile e del trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa”.
Scoprire i segni di questa presenza, nella luce del Concilio Vaticano II, è la nostra speranza e la nostra gioia.

lunedì 18 maggio 2009

VI Domenica di Pasqua (R.A.)


Giovanni 15, 26 – 16,4.

Ci avviciniamo alla Pentecoste.
Perciò la liturgia si serve del vangelo di questa domenica (si tratta di un brano preso dal primo discorso di addio di Gesù) per introdurci alla conoscenza di colui che sarà il protagonista di
quell’evento così prodigioso: lo Spirito Santo.
Bisogna subito aggiungere che solo in Giovanni e mai negli altri scritti del Nuovo Testamento lo Spirito Santo viene chiamato Paraclito.
Che cosa significa questo strano appellativo?
E’ una parola greca che significa anzitutto consolatore, ma anche difensore, avvocato, uno che sta dalla nostra parte.
La sua funzione è dunque quella di consolare come pure di difenderci nel caso in cui la nostra fede dovesse subire attacchi insidiosi.
Ma dalle parole di Gesù ci viene confidato che lui stesso è venuto tra noi come Paraclito, prima ancora che i discepoli ricevessero il dono dello Spirito, il giorno di Pentecoste: “Io pregherò il Padre, perché vi dia un altro consolatore, perché resti con voi per sempre”.
Il primo consolatore è dunque lui, o meglio, è lui strettamente unito allo Spirito.
Tutti i vangeli sono lì a testimoniare la sua volontà di farsi servo di tutti, soprattutto di quelli che la società tende a escludere, di coloro che sono sprovvisti di titoli, di onori ufficiali, di dignità nelle gerarchie che contano: individui senza referenze né diplomi, senza funzioni o ruoli riconosciuti.
Lui si trova bene anche tra la gente che viene disprezzata, come i pubblicani, i quali, avendo il compito di riscuotere le imposte in nome del potere romano, erano considerati disonesti e sfruttatori.
In poche parole, Gesù si colloca tra coloro che sono costretti a vivere ai margini della società.
Fosse presente oggi nel nostro mondo, lo troveremmo accanto alle persone che maggiormente soffrono la loro condizione di solitudine: quelli che hanno perso il lavoro o non lo trovano, quelli che non trovano ospitalità nel nostro paese, e che vengono respinti al loro paese d’origine da cui sono fuggiti, spinti dalla fame o sotto il terrore della violenza.
Questa è la prima ragione che fa di Gesù il primo Paraclito del vangelo, il primo consolatore.
Del resto, questa azione consolatoria è presente anche nel vangelo che è stato letto.
Pensiamo allo smarrimento in cui dovevano trovarsi i discepoli mentre prendevano coscienza che Gesù li avrebbe presto lasciati e con lui sarebbe finita per sempre anche la loro meravigliosa avventura.
Che cosa sarebbe stata la loro vita senza di lui?
Che cosa sarebbe rimasto di tanti gesti commoventi compiuti da Gesù, di tante parole stupende raccolte dalle sue labbra?
Sarebbe rimasto solo il ricordo, un ricordo destinato a impallidire fino a spegnersi per sempre.
E la tristezza doveva occupare il cuore dei suoi discepoli.
E Gesù capisce. Intuisce con una sensibilità che potremmo chiamare materna la delusione profonda che dovevano patire i suoi discepoli.
Perciò, mentre dà loro l’addio sapendo quale sarebbe stata, di lì a poco, la sua fine, si preoccupa di mitigare almeno la loro tristezza.
In che modo?
Quando una persona parte per un paese lontano senza la prospettiva di ritornare a rivedere la sua casa, i suoi famigliari e gli amici più cari, quando questo paese lontano è quello che si dischiude al di là della morte, cerca di tenere vivo il suo ricordo lasciando qualche messaggio particolarmente toccante o lasciando in eredità le cose che lo hanno accompagnato nel suo percorso, mentre era in vita.
Gesù, che sta per lasciare i suoi discepoli, ha anche lui qualcosa da trasmettere loro in sua memoria.
No, “non vi lascerò orfani” promette ai discepoli che già si sentivano da lui abbandonati.
E questa promessa si precisa attraverso due doni meravigliosi. Il primo è l’eucaristia con cui il Signore assicura la sua presenza viva, il secondo è la promessa dello Spirito che sarebbe venuto a continuare l’insegnamento di Gesù tanto che qualcuno lo ha definito la presenza invisibile di Gesù.
Ecco come Gesù ha voluto consolare i suoi amici: aderendo pienamente al primo significato della parola paracleto che vuol dire consolatore.
Ma c’è anche l’altro significato di questa parola che, abbiamo visto, sta ad indicare colui che si prende cura di noi come avvocato difensore.
E’ possibile vedere Gesù anche in questo ruolo?
Il vangelo non è fatto solo di parole dolci, misurate, gradevoli all’ascolto, ma anche di parole aspre, scandalose, che ti urtano e ti obbligano a riflettere. E il tono dei discorsi di Gesù non è quello di un saggio che si compiaccia del proprio equilibrio interiore, ma quello di una coscienza indignata, incapace di rassegnarsi e di accettare il corso delle cose.
C’era in Gesù troppo amore per gli uomini. Impossibile per lui trattenere dentro di sé l’ardente desiderio di convertirli, di aprire loro gli occhi e di aiutarli a vivere. Da qui l’impazienza e l’irritazione in presenza di gente che non ha nemmeno alcuna coscienza delle ricchezze spirituali che porta con sé. Bisognerebbe, a questo proposito, immaginare quale potrebbe essere il comportamento di Gesù di fronte al rischio, al pericolo di spiritualizzare troppo il cristianesimo. Certo non approverebbe questa tendenza in atto a spiritualizzare la realtà, basti pensare ad esempio a come il regno di Dio sia stato spiritualizzato, per cui la salvezza è vista come la salvezza dell’anima, il regno di Dio è vio stesclusivamente come l’aldilà. In questo modo non c’è nessun punto d’aggancio con la realtà, con la concretezza storica della vita. Gesù, invece, ci richiamerebbe a fare memoria delle sue parole che sono parole concrete, che incidono non soltanto dentro l’uomo, ma anche nel sociale, nel politico e in tutti gli aspetti della nostra vita.
E ci farebbe capire che di fronte a certe forme palesi di ingiustizia presenti nel nostro mondo, di fronte all’arroganza di certi poteri, di fronte a menzogne spacciate per sacrosanta verità, l’indignazione non solo è ammissibile, ma è doverosa.
La missione dello Spirito Paraclito si ricongiunge con quella di Gesù Paraclito. E insieme sono uniti al Padre.
Perciò, se uno vuole contemplare la sorgente stessa dell’amore, se uno vuole penetrare nel cuore del Padre, là dov’è nato il mondo e la sua bellezza, bisogna che prenda questo cammino che è il Cristo: (nessuno va al Padre se non per mezzo di Cristo), e se vuole avvicinarsi a Cristo se vuole contemplare il Padre con gli occhi del Figlio unico, bisogna che lasci lo Spirito invadere il suo cuore con la sua luce, bisogna che implori umilmente:
“Vieni, Spirito Santo!
Vieni, luce dei nostri cuori!
Vieni, consolatore sovrano!
Vieni, ospite dolcissimo delle nostre anime!”.

mercoledì 6 maggio 2009

IV Domenica di Pasqua (R.A.)


Giovanni 10, 27-30

Succede a volte che durante le letture della messa si rimanga scossi o commossi, toccati comunque e coinvolti.
E ci si domanda:”Perché questo fervore o questa passione inesprimibile, perché questo intenerimento o questo senso di pace profonda?”.
E’ l’esperienza che forse abbiamo fatto anche oggi, soprattutto durante la lettura del vangelo.
Si tratta di un breve testo di Giovanni che fa parte di quel discorso in cui Gesù, provocato dai giudei, si presenta come il buon pastore.
Sono tre le parole che meritano di essere approfondite, per renderci conto della felicità rivelativa di questo testo.
La prima parla è il verbo conoscere.
“Io le conosco” dice Gesù parlando delle pecore.
E altrove si legge: “Le mie pecore conoscono me”( Gv 10, 14).
Noi purtroppo siamo portati a privilegiare le nostre facoltà mentali per cui confondiamo spesso la conoscenza con l’erudizione o il sapere.
Sappiamo molte cose su diversi argomenti, ma non è detto che questo sia un vero conoscere.
Un teologo può possedere molte nozioni su Dio , ma questo non significa che conosca Dio.
Per arrivare a una vera conoscenza, bisogna che ci sia un rapporto mistico con Dio, una comunione molto stretta con la sua parola (è quello che i Padri della chiesa e molti autori spirituali hanno chiamato “manducazione della Parola”): occorre un’ esperienza esistenziale che coinvolga tutta la persona.
Non si dimentichi che nella Bibbia il verbo conoscere viene applicato alla esperienza amorosa di due sposi.
E nel libro del Siracide si legge: “Dio ha dato agli uomini un cuore per riflettere”.
Certamente il cuore è fatto per amare, ma c’è pure un’intelligenza dell’amore.
E’ quella intelligenza sensibile e intuitiva che è propria degli innamorati, dei poeti, dei mistici.
Di questa intelligenza una persona semplice può godere più di un principe della chiesa o di un grande teologo.
Se non fosse così, Dio sarebbe un lusso dei ricchi e degli intellettuali.
In realtà si tratta di un privilegio riservato a coloro che, vivendo strettamente uniti a Cristo, si trovano partecipi della conoscenza che Cristo ha del Padre.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” ha detto Gesù.
Con Cristo entriamo in un tipo di conoscenza del mistero di Dio che non ha nulla di presuntuoso o di possessivo.
E’ una conoscenza velata di pudore come fosse una carezza.
Una carezza dice tutta la tenerezza dell’amore che non si appropria di nulla, riceve tutto e di tutto rende grazie.
C’è un’altra parola nel testo di Giovanni che merita di essere approfondita.
E’ il verbo ascoltare che viene usato da Gesù quando dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce”.
Già la parola voce è particolarmente espressiva: vuol dire che è in gioco un rapporto molto stretto.
La voce o meglio, il tono della voce, assieme allo sguardo e al volto, esprime qualcosa almeno della profonda identità di una persona.
Lo sanno bene gli sposi, i fidanzati, gli amici per i quali la modulazione della voce a volte risulta più significativa delle parole che vengono dette.
Perciò l’ascolto di cui parla Gesù è un’esperienza che va ben oltre il semplice fatto di percepire parole o suoni o messaggi.
Si può udire senza ascoltare, come più volte hanno deplorato i profeti e Gesù stesso: “Il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi” (Mt 13,14).
E noi, che ascolto accordiamo a Gesù?
Non basta essere frequentatori della parola del Signore.
Se nella parola del Signore cerchiamo soltanto una conferma di ciò che crediamo già di sapere mentre censuriamo quello che ci scuote e ci mette a disagio, vuol dire che anche noi siamo diventati “duri di orecchi”.
Ma neppure possiamo dire di essere in ascolto se dovessimo separare il messaggio del Vangelo da colui che ce lo ha affidato.
L’ascolto vero richiede un atteggiamento fiducioso e docile nei confronti di una persona, come del resto suggerisce il verbo latino oboedio (ubbidisco) che è composto dal verbo audio (ascolto).
Dovremmo perciò chiedere spesso la grazia di sapere ascoltare dicendo: “Signore, fa’ che la tua voce mi raggiunga e penetri nel mio cuore come la voce di una persona amata a cui ci si consegna con tutta la propria fiducia”.
Infine ci sarebbe da riflettere sulla vita eterna promessa da Gesù: ”Io do loro la vita eterna”.
Sono tante le parole del linguaggio religioso che non dicono più nulla perché sono diventate vuote e inespressive.
Che cosa può suggerire la parola “vita eterna” al disperato, al drogato, al marito o alla moglie che vedono il loro matrimonio fallito, a tutti coloro che sentono la fatica di trovare ogni giorno una ragione per vivere?
Bisognerebbe che ci mettessimo in rapporto con Gesù il quale ci direbbe: “Che cosa vuol dire per te vivere?.
Non è forse vero che tu hai l’impressione di vivere soprattutto quando stai vivendo un’esperienza di amore, quando ti senti amato e godi di riamare?
Se vivere è questo, ricordati che c’è chi ti ama e continuerà ad amarti con una sorta di irriducibile ostinazione.
Il suo amore è così grande che non c’è niente o nessuno che lo possa cancellare”.
Questa è la vita eterna che già ora possiamo sperimentare.
Si pensi alla gioia di un bambino quando riceve dal papà la mano o viene condotto per mano.
Si sente sicuro, non ha più paura di nulla, si vede accettato come una persona meritevole di ogni attenzione.
In questi termini Gesù ci ha parlato della vita eterna: è una vita affidata tutta alla mano del Signore, mano forte e buona: è la mano di un padre.
Godiamo dunque di questa rivelazione che nel vangelo è tra le più consolanti che ci sia dato di incontrare.
Se poi vogliamo dare una risposta a questo nostro Dio così prodigo di amore, sappiamo quale è la via da seguire.
E’vicino a Dio chi sa coltivare una grande magnanimità, un grandezza d’animo per cui è capace di ospitare tutti dentro la tenda della sua amicizia, anche quelli che da gli altri sono disprezzati e condannati, perché sa che, nonostante tutto, sono persone che il nostro Dio continua ad amare con un amore tenero e tenace.
E’ lontano da Dio chi invece coltiva uno spirito di parte, una volontà di esclusione.
Forse non abbiamo mai pensato che i peccati più gravi li commettiamo non per l’unità, ma per la disunione, nelle famiglie, nelle parentele e in altre forme di vita associata.
Ci conforti però la speranza che si accende in noi mediante la preghiera:
“ Fa’, o Signore, che un giorno siano cancellate tutte le nostre divisioni e trionfi soltanto la dolce legge della tua fraternità”.

III Domenica di Pasqua


Giovanni 14, 1-12

Nel vangelo di Giovanni c’è un lungo discorso di addio di Gesù.
Siamo alla vigilia della sua passione.
E’ l’ultima sera della sua vita, è l’ultima sua cena.
Gesù sente che è giunta la sua ora. Prima di morire, vuole richiamare ai suoi discepoli ciò che del suo insegnamento ritiene essenziale.
Ma prima ancora, pensando al grande turbamento che la sua morte potrebbe procurare, li vuole rassicurare.
Non c’è motivo di temere la morte.
La sua morte non è un fallimento, ma il coronamento di tutta l’opera.
Egli tornerà alla casa del Padre dove preparerà un posto per loro.
A questo punto troviamo un’affermazione che ci lascia un po’perplessi: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Gesù rivela la sua vera identità mediante questa affermazione “Io sono” (ce ne sono tanti di questi “Io sono” nel vangelo di Giovanni che sembrano una eco di quel” Io sono” pronunciato da Dio a Mosè sul monte Horeb).
Dicevo prima di una iniziale perplessità nell’ascoltare queste parole di Gesù.
Per quale motivo?
Perché ci sembrano esorbitanti, eccessive. Che dire?
Se gli uomini non seguono Gesù, vuol dire che non potranno arrivare fino a Dio?
La sola possibilità di salvezza sta dunque nel diventare cristiani?
Bisogna tornare a ripetere, come si faceva prima del concilio: “ Extra ecclesiam, nulla salus”
(Fuori della chiesa, non c’è salvezza)?
Ma questa posizione è estremamente pericolosa, perché espone a molteplici conflitti con altre religioni che si propongono anch’esse come le sole vere religioni.
Per i musulmani, per esempio, siamo noi cristiani a essere nell’errore e a trovarci dalla parte degli infedeli.
E si sa che le guerre combattute in nome di Dio sono state – e lo sono tuttora – le più devastanti e le più luttuose.
Che fare? Come uscire da questa situazione?
E’il caso di relativizzare ogni espressione religiosa visto che, dopo tutto, le diverse religioni si equivalgono e il “buon Dio” è lo stesso per tutti?
Ma questo vuol dire favorire l’indifferenza religiosa.
Per comprendere Gesù bisogna ascoltare ogni sua parola: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Dove va Gesù? verso la casa del Padre e nella casa del Padre non c’è che amore.
Nella casa del Padre c’è un posto che ci attende.
Il nostro camminare ha dunque una meta; la meta è la casa del Padre, la dimora dell’infinita gioia di vivere.
La colpa più grave di noi cristiani, oggi (in passato forse era tutto diverso) è la smemoratezza riguardante la meta ultima del nostro cammino.
Chi di noi la contempla, la vagheggia, la prepara con una tensione interiore che sia come la cifra segreta del nostro esistere?
Siamo in viaggio, come tutti, ma non siamo pellegrini. Il pellegrino è colui che sa dove va.
Non solo: è colui che, fino a quando non ha raggiunto la meta, si sente un po’ straniero dovunque venga a trovarsi.
Noi non possiamo dirci pellegrini perché abbiamo perso la memoria della meta, catturati come siamo dalle piccole soddisfazioni che ci capita di trovare lungo il cammino.
Dovremmo perciò ripetere spesso una invocazione per dire al Signore: “Signore, mettici sempre in cammino con la mente e il cuore rivolti verso la Gerusalemme celeste.
Tieni viva in noi la fame e la sete di pace, di amore, di libertà, di luce. Rendi inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.
Ma quale strada dobbiamo pretendere per non fallire la meta?
“Io sono il cammino”ci dice Gesù.
Non dice:“Io vi insegno il cammino”, bensì:”Il cammino che cercate sono io”.
Per trovare la strada non c’è che da seguire Gesù.
E’la modalità ultima del nostro cammino alla casa del Padre.
Vogliamo richiamare brevemente alcuni aspetti di questa modalità esemplare.
Gesù era innamorato del cammino, sempre sulle strade e proteso verso l’altrove.
Aveva l’impazienza di passare attraverso le folle, nel deserto, sul lago senza lasciarsi trattenere da niente e da nessuno.
La sua meta era sempre più lontana.
Certamente guariva i malati, provava pietà per ogni tipo di fame e voleva trascinare tutti nell’attesa di qualcosa d’altro.
Per essere andato troppo lontano su sentieri che nessuno prima di lui aveva battuto, un giorno si è trovato solo.
Era troppo libero e pericoloso.
Proprio perché era così libero, neppure il sepolcro lo ha potuto trattenere.
Al termine di questa straordinaria avventura troverà ad accoglierlo l’abbraccio, la gratitudine e la gioia del Padre.
Vogliamo sapere come camminare verso la casa del Padre?
Dobbiamo guardare a Gesù, a quello che ha detto, a quello che ha fatto soprattutto a favore di quelli che erano respinti dalla società.
“Io sono la via”: Gesù è il nostro cammino. Un cammino che ci può spaventare tanto da ritenerlo impraticabile.
Come è possibile che la nostra esistenza debba rimanere sempre sotto il segno dell’urgenza, della tensione, dell’inquietudine?
Ci conforti a una lettura più attenta del vangelo, la certezza che c’è un camminare e c’è un dimorare.
La casa suggerisce l’idea del riposo.
Ed è un riposo che non ci viene soltanto promesso, ma già in qualche misura accordato.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” dice Gesù.
Se siamo uniti a Gesù, siamo uniti al Padre, siamo già nella casa del Padre.
Gesù è quindi cammino ed è già il compimento del cammino, Gesù è la strada ed è la meta.
E’lui che nel cammino attraverso i segni della sua presenza ci fa pregustare quanto sia bello “abitare nella casa del Signore”.
Io non so che possa rimanere in noi di questo discorso che trova nel Vangelo di oggi la sua necessità e la sua legittimità. A volte di fronte a certe proposte troppo elevate e di ampio respiro, siamo presi dalla vertigine ci rifiutiamo di seguire.
In realtà le cose alte di Dio possono trovare nella vita di tutti i giorni una traduzione molto esemplare.
Camminare e dimorare con Gesù vuol dire avere fede in lui: “Credete in me”.
Se crediamo in lui lasciandoci educare dalla sua parola, se siamo capaci di affidargli la nostra sofferenza e la nostra speranza, se ci lasciamo condurre a compiere gesti di pietà verso le persone che hanno bisogno di non sentirsi abbandonate, noi camminiamo e dimoriamo in Cristo, e dimorando in Cristo, dimoriamo anche nel Padre di cui già possiamo gustare la tenerezza e la gioiosa accoglienza.
Quando arriveremo alla casa del Padre il nostro posto, quello riservato proprio a noi, lo troveremo facilmente perché l’avremo già conosciuto in questo nostro camminare nella fede, nella speranza e nell’ amore.

III Domenica di Pasqua


Giovanni 14, 1-12

Nel vangelo di Giovanni c’è un lungo discorso di addio di Gesù.
Siamo alla vigilia della sua passione.
E’ l’ultima sera della sua vita, è l’ultima sua cena.
Gesù sente che è giunta la sua ora. Prima di morire, vuole richiamare ai suoi discepoli ciò che del suo insegnamento ritiene essenziale.
Ma prima ancora, pensando al grande turbamento che la sua morte potrebbe procurare, li vuole rassicurare.
Non c’è motivo di temere la morte.
La sua morte non è un fallimento, ma il coronamento di tutta l’opera.
Egli tornerà alla casa del Padre dove preparerà un posto per loro.
A questo punto troviamo un’affermazione che ci lascia un po’perplessi: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Gesù rivela la sua vera identità mediante questa affermazione “Io sono” (ce ne sono tanti di questi “Io sono” nel vangelo di Giovanni che sembrano una eco di quel” Io sono” pronunciato da Dio a Mosè sul monte Horeb).
Dicevo prima di una iniziale perplessità nell’ascoltare queste parole di Gesù.
Per quale motivo?
Perché ci sembrano esorbitanti, eccessive. Che dire?
Se gli uomini non seguono Gesù, vuol dire che non potranno arrivare fino a Dio?
La sola possibilità di salvezza sta dunque nel diventare cristiani?
Bisogna tornare a ripetere, come si faceva prima del concilio: “ Extra ecclesiam, nulla salus”
(Fuori della chiesa, non c’è salvezza)?
Ma questa posizione è estremamente pericolosa, perché espone a molteplici conflitti con altre religioni che si propongono anch’esse come le sole vere religioni.
Per i musulmani, per esempio, siamo noi cristiani a essere nell’errore e a trovarci dalla parte degli infedeli.
E si sa che le guerre combattute in nome di Dio sono state – e lo sono tuttora – le più devastanti e le più luttuose.
Che fare? Come uscire da questa situazione?
E’il caso di relativizzare ogni espressione religiosa visto che, dopo tutto, le diverse religioni si equivalgono e il “buon Dio” è lo stesso per tutti?
Ma questo vuol dire favorire l’indifferenza religiosa.
Per comprendere Gesù bisogna ascoltare ogni sua parola: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Dove va Gesù? verso la casa del Padre e nella casa del Padre non c’è che amore.
Nella casa del Padre c’è un posto che ci attende.
Il nostro camminare ha dunque una meta; la meta è la casa del Padre, la dimora dell’infinita gioia di vivere.
La colpa più grave di noi cristiani, oggi (in passato forse era tutto diverso) è la smemoratezza riguardante la meta ultima del nostro cammino.
Chi di noi la contempla, la vagheggia, la prepara con una tensione interiore che sia come la cifra segreta del nostro esistere?
Siamo in viaggio, come tutti, ma non siamo pellegrini. Il pellegrino è colui che sa dove va.
Non solo: è colui che, fino a quando non ha raggiunto la meta, si sente un po’ straniero dovunque venga a trovarsi.
Noi non possiamo dirci pellegrini perché abbiamo perso la memoria della meta, catturati come siamo dalle piccole soddisfazioni che ci capita di trovare lungo il cammino.
Dovremmo perciò ripetere spesso una invocazione per dire al Signore: “Signore, mettici sempre in cammino con la mente e il cuore rivolti verso la Gerusalemme celeste.
Tieni viva in noi la fame e la sete di pace, di amore, di libertà, di luce. Rendi inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.
Ma quale strada dobbiamo pretendere per non fallire la meta?
“Io sono il cammino”ci dice Gesù.
Non dice:“Io vi insegno il cammino”, bensì:”Il cammino che cercate sono io”.
Per trovare la strada non c’è che da seguire Gesù.
E’la modalità ultima del nostro cammino alla casa del Padre.
Vogliamo richiamare brevemente alcuni aspetti di questa modalità esemplare.
Gesù era innamorato del cammino, sempre sulle strade e proteso verso l’altrove.
Aveva l’impazienza di passare attraverso le folle, nel deserto, sul lago senza lasciarsi trattenere da niente e da nessuno.
La sua meta era sempre più lontana.
Certamente guariva i malati, provava pietà per ogni tipo di fame e voleva trascinare tutti nell’attesa di qualcosa d’altro.
Per essere andato troppo lontano su sentieri che nessuno prima di lui aveva battuto, un giorno si è trovato solo.
Era troppo libero e pericoloso.
Proprio perché era così libero, neppure il sepolcro lo ha potuto trattenere.
Al termine di questa straordinaria avventura troverà ad accoglierlo l’abbraccio, la gratitudine e la gioia del Padre.
Vogliamo sapere come camminare verso la casa del Padre?
Dobbiamo guardare a Gesù, a quello che ha detto, a quello che ha fatto soprattutto a favore di quelli che erano respinti dalla società.
“Io sono la via”: Gesù è il nostro cammino. Un cammino che ci può spaventare tanto da ritenerlo impraticabile.
Come è possibile che la nostra esistenza debba rimanere sempre sotto il segno dell’urgenza, della tensione, dell’inquietudine?
Ci conforti a una lettura più attenta del vangelo, la certezza che c’è un camminare e c’è un dimorare.
La casa suggerisce l’idea del riposo.
Ed è un riposo che non ci viene soltanto promesso, ma già in qualche misura accordato.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” dice Gesù.
Se siamo uniti a Gesù, siamo uniti al Padre, siamo già nella casa del Padre.
Gesù è quindi cammino ed è già il compimento del cammino, Gesù è la strada ed è la meta.
E’lui che nel cammino attraverso i segni della sua presenza ci fa pregustare quanto sia bello “abitare nella casa del Signore”.
Io non so che possa rimanere in noi di questo discorso che trova nel Vangelo di oggi la sua necessità e la sua legittimità. A volte di fronte a certe proposte troppo elevate e di ampio respiro, siamo presi dalla vertigine ci rifiutiamo di seguire.
In realtà le cose alte di Dio possono trovare nella vita di tutti i giorni una traduzione molto esemplare.
Camminare e dimorare con Gesù vuol dire avere fede in lui: “Credete in me”.
Se crediamo in lui lasciandoci educare dalla sua parola, se siamo capaci di affidargli la nostra sofferenza e la nostra speranza, se ci lasciamo condurre a compiere gesti di pietà verso le persone che hanno bisogno di non sentirsi abbandonate, noi camminiamo e dimoriamo in Cristo, e dimorando in Cristo, dimoriamo anche nel Padre di cui già possiamo gustare la tenerezza e la gioiosa accoglienza.
Quando arriveremo alla casa del Padre il nostro posto, quello riservato proprio a noi, lo troveremo facilmente perché l’avremo già conosciuto in questo nostro camminare nella fede, nella speranza e nell’ amore.

martedì 14 aprile 2009

Pasqua di risurrezione


Giovanni 20, 1-18


Questa omelia dovrebbe celebrare il mistero della Pasqua e perciò dovrebbe avere un’intonazione gioiosa che in qualche modo riproponga l’esultanza che di solito accompagna l’annuncio della risurrezione.
A questo proposito si potrebbe ricordare il cosiddetto risus pascalis praticato nel medioevo in diverse città soprattutto tedesche dove, nel corso dei riti pasquali, erano i predicatori a suscitare il riso nell’assemblea raccontando storielle particolarmente esilaranti per sbeffeggiare la morte sconfitta dal Cristo risorto.
Ma quest’anno non ci è concesso di accogliere a cuor leggero questo invito alla gioia.
Abbiamo ancora sotto gli occhi le immagini della catastrofe che ha colpito diversi paesi dell’Abruzzo, non possiamo dimenticare i lamenti strazianti di tante persone che hanno perso tutto in questo tragico evento.
Nascono allora domande che mettono a dura prova la nostra fede.
Perché nel mondo c’è tanta sofferenza? perché tante vite spezzate ancora in tenera età?
C’è stato chi ha ammonito dicendo che nessuno deve sentirsi senza colpa.
Certamente è giusto pensare alla responsabilità degli uomini che, essendo liberi, sono liberi anche di fare il male.
In un passo del Deuteronomio si legge: “Ho posto davanti a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita onde tu viva…”.
Molto spesso l’uomo sceglie la morte e il male che genera infinite sofferenze.
Però questo, dobbiamo ammetterlo, non spiega tutto.
Quando si scatena uno tsunami o un terremoto con una forza così devastante come quello che ha colpito, sorprese nel sonno, tante famiglie della terra d’Abruzzo, è facile domandarsi: “e Dio, dove era in quei momenti così terribili?”.
È la domanda più seria, più grave, più temibile che possa salire nel cuore dell’uomo.
È la domanda che del resto, se non siamo superficiali o incoscienti , ci poniamo ogni giorno, davanti allo spettacolo quotidiano di violenza, di distruzione e morte per cui a volte siamo anche tentati di rivolgerci al Signore con le parole che don Michele Do ha raccolto dalla voce di un contadino della sua valle: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
La nostra riflessione oggi è sollecitata da tanti “perché?” che non trovano una facile risposta .
Dio l’abbiamo trascinato sul banco degli accusati.
Con i nostri “perché?”, peraltro più che motivati e legittimi, chiamiamo, per così dire, Dio a rapporto, gli chiediamo di rendere conto del suo operato, gli rimproveriamo il suo silenzio, la sua apparente indifferenza e apatia e addirittura la sua assenza.
È come se gli dicessimo: “Ma che Dio sei?”.
La risposta di Dio è affidata alla Pasqua di Gesù, alla croce e alla risurrezione.
Anzitutto ci invita a fare memoria ancora di quello che accadde un lontano venerdì pomeriggio di duemila anni fa, fuori dalle mura di Gerusalemme.
Un uomo di 33 anni fu appeso alla croce insieme ad altri due sventurati.
E mentre stava morendo, l’uomo appeso alla croce esclamò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
E il centurione romano che si trovava ai piedi della croce esclamò: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.
Il nostro è un Dio che conosce il patire scendendo fino in fondo nella sconfinata sofferenza del mondo, sempre dalla parte delle vittime, identificandosi con loro.
E la Pasqua diventa perciò il giorno della più grande consolazione.
Mi correggo: potrebbe diventare.
Purtroppo abbiamo perso il senso di questa novità sconvolgente. Gesù è risorto. È vivo. È con noi.
Gesù è accanto a noi come era accanto a Maria, nella apparizione narrata dal vangelo
Ma noi non sappiamo riconoscerlo.
Come se il Signore fosse assente o fosse ancora morto.
Morto in questa nostra società senza valori, morto nei compromessi e nelle ambiguità della politica, morto – è il sospetto che ci prende in qualche momento – anche nelle chiese.
Celebriamo la Pasqua come gente tranquilla, che va alla ricerca di un’omelia tranquilla, senza sussulti e senza troppe tensioni.
Vuol dire che non abbiamo più la fede?
È difficile dire se abbiamo la fede o non l’abbiamo.
Forse è vero che tutti vorremmo credere di più.
Abbiamo nostalgia della fede.Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a credere.
Abbiamo bisogno che Gesù ci chiami per nome come ha fatto con Maria di Magdala.
Gesù le disse: “Maria!”.
Essa si voltò verso di lui e gli disse in ebraico “Rabbunì” che vuol dire “Maestro!”.
Un nome, Maria, e in quel nome c’è il rivelarsi di una presenza, il palpito di un’amicizia che si rinnova.
E’ quello che può avvenire anche per noi.
Ascoltiamo tante parole, anche nelle nostre chiese.
Ci raggiungono, ma non ci scuotono.
Ci sembrano parole generiche, dette per tutti, indistintamente, parole decorative, non parole creative di qualcosa di nuovo.
Ma può anche accadere che tra le tante parole ci sia quella rivolta direttamente a te come se il Signore ti avesse chiamato per nome.
Allora si aprono gli occhi e tutto cambia.
Allora nasce dal cuore una risposta che vale più di tutte le professioni di fede: “Rabbunì, maestro!”
Qui c’è tutto lo stupore della risurrezione.
Qui c’è tutta la gioia della Pasqua.
Se c’è una grazia grande che oggi dobbiamo chiedere al Padre è questa: che ci aiuti a convertire la prima espressione di Maria registrata nel vangelo: “Hanno portato via il mio Signore” in quest'altra “Rabbunì”.
Vuol dire avere intuito la presenza del Risorto.
Vuol dire sentire la passione di correre a portare a tanti nostri fratelli (come per lunga tradizione si fa nel mondo ortodosso.
La buona notizia : “Cristo è risorto. Non avere più paura”.

venerdì 3 aprile 2009

V Domenica di quaresima

Giovanni 11, 1-44

In questo racconto sono presenti tutte le verità fondamentali dell’esistenza: c’è la morte, l’amicizia, il pianto, la speranza più grande.
La prima verità riguarda la morte.
Tutto il racconto è occupato da una liturgia funebre che si esprime attraverso il pianto, il cordoglio, il sepolcro e un forte sentore di corruzione.
E chi legge viene raggiunto da una domanda provocatoria:”Tu credi alla morte?”.
Certo la morte non ha bisogno di essere creduta, tanto si impone sotto i nostri occhi con un’evidenza brutale: la morte trionfa negli atti di terrorismo, là dove ancora non si gode di una pace duratura; nei regolamenti di conti tra bande opposte di mafiosi o di camorristi, o sulle strade dove e tanti giovani lasciano la loro vita per ragioni che tutti conosciamo.
Eppure la domanda: “Tu credi alla morte?” non è fuori luogo.
In un tempo in cui si assiste alla morte in diretta, si assiste anche alla fuga dalla coscienza della morte.
Come se essa non ci riguardasse.
Per capire il valore di questo racconto , bisogna prima recuperare la tragicità della morte.
Bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia.
Una seconda verità richiamata dal racconto è il valore dell’amicizia di fronte alla morte.
Questo testo di Giovanni non parla solo di morte e risurrezione.
E’anche la storia di un’amicizia, quella tra Gesù, Lazzaro e le sorelle.
“Il tuo amico è malato” mandano a dire le due sorelle.
E poco dopo è Gesù stesso a dare a Lazzaro il nome di amico.
L’uso di espressioni come “il nostro amico Lazzaro” è segno di grande famigliarità.
Sul filo di queste annotazioni è facile leggere il miracolo di Lazzaro come il miracolo dell’amicizia e dell’affetto.
Perché Gesù lascia la regione della Perea, dove poteva stare al riparo dalle ostilità dei giudei, per raggiungere Betania esponendosi pertanto a qualche grave rischio per la propria incolumità?
E’quello che i discepoli non capiscono:“Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti, e tu ci vai di nuovo?”.
C’è in questo racconto una specie di legge che si potrebbe formulare così: amare è sempre un perdersi perché l’altro viva.
Gesù questa legge l’aveva insegnata quando aveva detto: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”.
La prova l’abbiamo nel vangelo: Lazzaro vive perché Gesù, che gli è amico, accetta di morire.
Si sa infatti che in seguito al miracolo di Betania i giudei decisero di mettere a morte Gesù.
Questa verità, che il dono della vita si sconta con il proprio morire, non è facile da interpretare.
Non è stato facile neppure per Gesù.
Gesù si commuove profondamente, dice Giovanni, e lo ricorda almeno due volte nel corso della narrazione.
Gesù scoppia in pianto. E’qualcosa che ci tocca, ci stupisce, ci commuove,
C‘è chi ha fatto osservare che la bellezza e la grandezza di questo miracolo sono tutte racchiuse nel pianto di Gesù.
Perché piange Gesù?
Perché questo suo pianto incontenibile, irrefrenabile, senza ritegno e senza vergogna?
Gli esegeti suggeriscono diverse spiegazioni, ma la più attendibile sembra essere questa: Gesù se la prende con le forze oscure del male e della morte.
Elias Canetti, il grande scrittore mitteleuropeo che considerava la morte come il male primordiale, voleva che la si odiasse, le si sputasse in faccia, venisse maledetta,.
Gesù piange e in questo suo pianto c’è come un moto di risentimento, di collera contro la morte.
E’ un modo per dire no alla morte, per rifiutarne la logica implacabile e crudele.
Penso a certi cristiani che si vergognano di piangere anche in occasione di lutti particolarmente dolorosi, che si sforzano perfino di mostrare un volto sereno e sorridente perché altrimenti sarebbe come tradire la fede nella risurrezione.
Trovo invece molto sagge le parole di un giovane parroco milanese il quale ha scritto: “Io credo che il Signore non voglia regalarci la risurrezione senza prima averci regalato le lacrime.
Le lacrime sono un dono. Ci danno il diritto di piangere senza vergogna.
Sono lacrime che lavano gli occhi perché si possano aprire a un mistero ancora più grande della morte, quello della risurrezione (Davide Caldirola)”.
Ed ora una parola sulla risurrezione.
Noi vorremmo sapere soprattutto come sarà la vita futura.
Ma la nostra curiosità rimane inappagata.
Lazzaro non dice nulla della esperienza che gli è stata riservata una volta superata la soglia della morte.
Ma altri passi del vangelo ci fanno capire che la vita eterna è essere con Cristo.
“Oggi sarai con me in paradiso” dice Gesù al ladrone sulla croce.
Si comprende come sia possibile affermare che la risurrezione non è solo per il futuro, ma già per il tempo che stiamo vivendo.
Se siamo uniti a Cristo, risurrezione e vita, godiamo già di una vita risorta,
Ci sono persone che spiritualmente sono vecchie o addirittura spente.
E lo dimostrano per il fatto che si trovano irrigidite nei loro pregiudizi, nelle loro paure, nel loro inguaribile pessimismo, nella difesa egoistica dei loro privilegi.
Non c’è scioltezza, autoironia, speranza, apertura alla novità.
Se hanno rapporto con Dio, conoscono solo un Dio vecchio che rende vecchi.
Ma Dio è giovane, e la giovinezza di Dio si è rivelata in Gesù.
Nessuno è più vivo e più libero di Gesù.
Con la sua vita intensa, appassionata, generosa, Gesù vuole insegnarci che cosa significa vivere.
Vivere non è sopravvivere, vegetare, consumare il proprio tempo rincorrendo soddisfazioni effimere, ma vivere è comunicare, donare, amare, perdere la propria vita per gli altri.
Se siamo con Gesù, già ora possiamo condurre una vita risorta, una vita al riparo da ogni conformismo e da ogni rassegnazione, una vita innamorata della verità, della bellezza, della fierezza di non essere servi di nessuno.
Non diciamo perciò come Marta: “Io so che risorgerò nell’ultimo giorno”, ma piuttosto diciamo: “Signore Gesù, io so che posso risorgere ogni giorno.
Pronuncia anche su di me le parole con cui hai richiamato Lazzaro alla vita: “Vieni fuori!”.
Vieni fuori, esci dall’oscurità del sepolcro in cui ti trovi con la tua vita spenta.
Sciogliti da tutte le tristezze e le paure che ti tengono prigioniero.
Vieni alla luce, vieni alla vita.
Potrò così essere giovane come te, giovane di amore, giovane di coraggio, giovane di immensa, dolcissima pietà”.

lunedì 2 marzo 2009

I° di Quaresima


Matteo 4, 1-11

“Ecco era è il tempo favorevole, ecco: ora è il giorno della salvezza, nessuno si faccia trovare nel giorno di redenzione, ancora schiavo del vecchio mondo di peccato”: sono parole, queste, che vengono da molto lontano (appartengono al profeta Isaia ) e che nel corso di questa liturgia sentiremo richiamare come invito a valorizzare questo tempo quaresimale che inizia proprio oggi.
Quaresima: quaranta giorni come quelli che Gesù ha vissuto nel deserto e che, a loro volta, alludono ai quaranta anni passati dal popolo d’Israele nel deserto prima di insediarsi nella terra che Dio aveva promesso.
Prima di affrontare il testo di Matteo, bisognerebbe risolvere due possibili obiezioni che altrimenti potrebbero interferire come elementi di disturbo nella nostra riflessione.
Gesù viene tentato.
Ma come è possibile immaginare una situazione di questo genere.
Gesù è il figlio di Dio:come potrebbe essere tentato?
Il fatto è sorprendente..
Ma, a pensarci bene, Gesù non avrebbe potuto evitare di essere tentato.
Se l’incarnazione non è stata una finzione, Gesù era veramente figlio di Dio, ma , al tempo stesso, perfettamente uomo per cui, proprio per questo stretto rapporto con la condizione umana, doveva nel deserto conoscere i nostri smarrimenti, le nostre esitazioni, la fatica di dover scegliere tra due proposte ugualmente interessanti e contrapposte l’una all’altra.
Perciò è credibile che Gesù sia stato tentato.
E tentato lo sarà lungo tutto il corso della sua vita, tentato perfino sulla croce, quando i capi religiosi lo provocheranno gridandogli di scendere dalla croce, se mai ne fosse stato capace.
Anche Gesù pertanto deve aver pregato per non soccombere di fronte alla prova.
E ci è facile immaginare che il penultimo versetto del Padre nostro: e non ci indurre in tentazione, prima di suggerirlo ai discepoli Gesù l’abbia più volte confidato al Padre nelle lunghe conversazioni che aveva con lui nel cuore della notte.
Tempo fa –ricordate – si è discusso molto sulla opportunità di correggere questa invocazione che sembra voler addossare a Dio la responsabilità delle tentazioni a cui siamo continuamente esposti.
Come è possibile immaginare (è la seconda obiezione da rimuovere) che proprio Dio voglia attentare alla nostra incolumità di creature fragili che già faticano a muoversi in un mondo sempre più disumano?
Se poi ci si mette anche Dio a complicare le cose.
Ma io non credo che il testo debba essere corretto. Solo va capito.
Del resto, non trovate una qualche rassomiglianza con l’inizio del vangelo di oggi?
“Fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo”
E’ lo Spirito che trascina Gesù nel deserto.
Dobbiamo dunque scandalizzarci anche per queste parole?
"Non c'è alcuna ragione di scandalo" scriveva anni fa Pietro Citati iu un bellissimo commento al Padre nostro comparso su un giornale laico (Repubblica 1 febbraio 1996). Il quale poi proseguiva dicendo: " Come ogni ebreo, come ogni cristiano, Matteo sapeva benisimo che Dio induce in tentazione specialmente chi ama. Aveva tentato (o messo alla prova, se vogliamo usare un'espressione più scolorita) Adamo, Abramo, Giobbe, Israele, e una tremenda frase rabbinica diceva.Non c'è alcun uomo che Dio non abbia tentato?".
Allora si può capire il senso vero delle parole del Padre nostro.
Noi non preghiamo per essere risparmiati da ogni tentazione.
La tentazione infatti può essere trasformata in un'occasione favorevole al nostro cammino spirituale, in uno scatto o in un salto di qualità nel nostro modo di inerpretare e di vivere il nostro rapporto con Dio e con i fratelli.
."Ciò che non ci uccide, ci rende più forti" diceva Nietzsche riprendendo le parole dei Padri del deserto i quali affermavano che senza"prove", senza "tentazioni" non sarebbe possibile alcnna crescita spirituale.
Se poi riusciamo a fare un po' di deserto nella nostra vita, a cercare spazi di silenzio custodendo nel cuore un grande desiderio di verità e di autenticità, ci sarà più facile capire che cosa conta veramente nella vita e che cosa non conta, e potremo dare all'invocazione del Padre nostro questa precisa intonazione "Signore, accettiamo le prove che tu ci mandi, perché servono a purificare la nostra fede. Solo ti chiediamo di essere risparmiati da tentazioni che siano superiori alle nostre deboli forze".
A questo punto è opportuno che ci domandiamo: "Quali sono le teanazioni più pericolose, più insidiose perchè più diaboliche?" .
Quando si parla di tentazioni, il pensiero - è un debito che si paga a un'educazione di tipo moralistico - si rivolge immediatamente alla sfera della sessualità.
Si tratta senza dubbio di una tentazione possibile, ma bisogna dire che nella Bibbia non occupa il primo posto.
La libidine del potere (basta osservare lo spettacolo indecoroso che danno di sè certi uomini poltici) è molto più forte della libidine che nasce dagli istinti della carne.
Nel racconto che abbiamo letto si parla di tre tentazioni, ma in realtà si tratta di tre aspetti o modalità di un'unica tentazione, quella del potere.
Il Tentatore, avvicinandosi a Gesù, cerca di indurlo a rappresentare Dio come pura onnipotenza:
"Se sei figlio di Dio, dimostra a tutti di essere un Dio onnipotente. E' quello che gli uomini pretendono.E' inutile parlare loro di fede e di amore. Vogliono altro.
Non vedi che credono solo nella forza e nei risultati immediati?
Scegli la via della magia, del miracolo facile, della esibizione spettacolare, e vedrai che tutti ti seguiranno".
Questa tentazione era veramente drammatica per Gesù: voleva dire scegliere la via
della forza rinunciando a quella dell'amore.
Nella nostra vita questa tentazione prende corpo nelle pieghe della nostra debolezza come desiderio di possedere di più per sentirci più forti, di occupare, se è possibile, i primi posti, di strappare qualche applauso per appagare la nostra vanità.
E, una volta presa questa strada, la tentazione ci porta a invocare un Dio che sia unicamente un Dio forte, prodigo di miracoli, disposto a risolvere i nostri problemi, difensore delle persone oneste e della sua chiesa.
Qui è l'immagine stessa di Dio che viene stravolta.
Dio non è più padre, non è più amore.
E' perciò una grazia immensa sapere che Gesù ha vinto la tentazione accettando di rimanere debole per conquistarci non con la forza, ma con l'amore.
Alle seduzioni del tentatore bisogna rispondere consegnandoci ad un'altra seduzione. Questa non ci parlerà di potere , di prestigio, di successi immediati, ma farà vibrare il nostro cuore per la gioia ineffabile di sentire che Dio ci è accanto come Padre con uno sguardo colmo di infinita tenerezza, e che avrà per ciascuno di noi una parola, detta con amore, più forte di ogni sofferenza e perfino della morte.

domenica 15 febbraio 2009

Penultima dopo l’Epifania

Luca 7, 36-50

Una considerazione, anzitutto, di ordine generale.
Riguarda il nostro modo di rapportarci alla Parola di Dio.
Possiamo dire di ascoltarla con una partecipazione intensa e profonda e, almeno in qualche momento, anche con un coinvolgimento emotivo?
S tratta sempre di rimanere sorpresi, colti alla sprovvista dalla Parola.
Bisognerebbe accostarsi a ogni pagina del vangelo, come se fosse la prima volta.
Contro l’indurimento provocato dall’abitudine l’unico antidoto è la sorpresa.
Il fattore sorpresa è l’elemento costitutivo più importante del racconto che abbiamo letto nel vangelo di Luca.
Oggi, in altre parole, non possiamo non rimanere stupiti, se è vero che, prima di essere sorpresi noi, lo sono i protagonisti del racconto.
Vediamoli.
Gesù è invitato a pranzo da un fariseo di cui il vangelo ricorda il nome: è Simone.
Si sa che cosa Gesù pensasse dei farisei.
Che si faccia trovare nella casa di uno di essi dimostra che egli non si negava a nessuno, fosse pure un fariseo.
Egli, che viveva poveramente, accetta l’invito di un notabile.
Come si è svolto il pranzo in casa di Simone il fariseo.
Dopo un’accoglienza nel segno di una correttezza formale, alquanto fredda, tutto si è svolto come da copione.
Fino a un certo punto.
All’improvviso compare in sala, inaspettata, una donna.
Tutti in città dovevano sapere chi fosse: ”una peccatrice", dice il vangelo o, per essere più precisi, una prostituta..
Il fariseo accusa il colpo.
Si parlava prima del fattore sorpresa come elemento portante di tutto il racconto.
Per il fariseo la sorpresa è legata allo scandalo che patisce per la presenza indebita di quella donna nella sua casa e per i gesti che essa si permette di dedicare a Gesù senza che Gesù opponga un gesto di rifiuto .
Vediamo ora il secondo personaggio importante del racconto, proprio quello della donna peccatrice.
Se ha avuto il coraggio di varcare la soglia della casa di Simone il fariseo, è perché doveva sentire un bisogno immenso di esprimere la sua gratitudine.
Certamente aveva avuto occasione di ascoltare Gesù e di sentire che le sue parole le avevano toccato il cuore tanto da essere alleggerita del peso del suo passato.
Allora deve essersi chiesta: “Che cosa dovrei fare per dire il mio grazie? Non posso non fare qualcosa”.
Avendo saputo che Gesù si trovava nella casa di Simone il fariseo, fa tacere tutte le possibili obiezioni sulla convenienza di ciò che sta per fare, mette da parte ogni rispetto umano ed entra in quella casa.
E qui succede una cosa straordinaria, che certamente non era stata prevista.
E’ il caso di rivedere la scena.
Gesù ci pare di vederlo con il fianco sinistro appoggiato o disteso sul divano, come usava allora.
La donna gli si avvicina, e mentre è intenta a profumargli i piedi, improvvisamente si scioglie in un pianto irrefrenabile tanto da bagnare i piedi di Gesù con le sue lacrime copiose.
Che fare? Come asciugarli?
Essa non può lasciare i piedi di Gesù bagnati di lacrime.
Allora scioglie i suoi capelli e con i suoi capelli asciuga i piedi di Gesù.
Poi, portata dal suo slancio affettivo, ripetutamente li bacia.
Silenzio attorno a questa donna: come si permette una tale famigliarità?
Silenzio anche da parte di Gesù che la lascia fare senza una parola di insofferenza o di rimprovero.
Mentre la sorpresa del fariseo, come si è detto, era legata allo scandalo per quella scena che ai suoi occhi doveva apparire disgustosa, la sorpresa della donna potrebbe essere definita la sorpresa della grazia.
E Gesù? è lui l’autore di questa duplice sorpresa. E’ lui che la crea.
Anzi si potrebbe dire che Gesù è la sorpresa di Dio che ha posto la sua dimora in mezzo a noi.
La sua presenza è sempre motivo di novità radicali, di profondi cambiamenti, di salutari interrogazioni.
Perciò, come si diceva all’inizio, bisogna ascoltare la sua parola con il cuore aperto allo stupore.
Se mi si chiedesse quali sono per me i motivi di stupore che trovo nel vangelo che è stato letto, ne indicherei principalmente due.
Il primo è dato dalle parole di Gesù a commento della parabola dei due debitori.
Ma bisogna fare molta attenzione perché a leggere superficialmente il testo si è portati a credere che chi ama di più è maggiormente perdonato da Dio.
Ma la verità è diversa.
Non è il nostro amore a conquistare il perdono, ma è il perdono di Dio che ci permette di amare.
L’iniziativa è sempre di Dio.
È lui che perdona tutto, che dà gratuitamente la pace, che dispone ciascuno a gustare il profumo della gioia.
Gesù, che è venuto a rivelarci la misericordia del Padre, la sua tenerezza infinita,
ha offerto alla donna “peccatrice” del vangelo un amore che essa non aveva ancora conosciuto, un amore totalmente gratuito.
In questa prospettiva, non sono stati i gesti della donna a meritare il perdono, ma è stato il perdono a suscitare nella donna una grande commozione che si esprime attraverso la dolcezza di quelle lacrime versate sui piedi di Gesù.
Questo per me è motivo di sorpresa particolarmente consolante.
Vuol dire infatti che la prima cosa che mi è richiesta da Dio è di lasciarmi amare.
Allora mi sarà facile trovare una risposta a questo grande amore.
La risposta più bella sarà quella di rivelare il vero volto del Signore a tutti coloro che non osano pensare di essere amati, ma rimangono fermi all’immagine di un Dio che li giudica e li punisce.
Altro motivo di sorpresa è il fatto che Gesù rivolge al mondo femminile un’attenzione particolare , rivoluzionaria per quei tempi in cui i rabbini escludevano le donne dalla cerchia dei discepoli.
Gesù invece non teme di dare scandalo lasciandosi avvicinare dalle donne tanto che (così ci informa Luca, nei versetti che seguono immediatamente il testto del vangelo) aveva al suo seguito un gruppetto di donne che assistevano qella piccola comunità in diversi modi.
E’una rivoluzione, quella iniziata da Gesù, che ancora non è stata completamente attuata se si pensa che la chiesa, a dispetto di tanti attestati di dignità concessi alla donna con grande magnanimità, contiunua a guardare alla donna con una certa diffidenza come se essa adombrasse un serio pericolo per i discepoli di Cristo.
Fintanto che la donna sarà tenuta ai margini, la chiesa non potrà presentare un volto veramente materno e non potrà essere, come dovrebbe, la chiesa della tenerezza.
Accogliamo perciò la sorpresa che ci ha riservato il vangelo in attesa di salutare una sorpresa ancora più grande,quando ci sarà dato di vedere finalmente realizzata l’immagine di chiesa che Gesù ha sognato.

domenica 1 febbraio 2009

IV dopo l'Epifania


Luca 8, 22-25

Che cosa ci vuol dire questo racconto?
Si tratta di un miracolo compiuto da Gesù sulle forze scatenate della natura che dimostrerebbe la superiorità di Gesù su tutte queste forze ostili.
Ma questo tipo di lettura è troppo superficiale.
Vuol dire non accorgersi che ogni particolare del racconto suggerisce qualcosa di più profondo rispetto a ciò che immediatamente sembra significare.
Il linguaggio, in altre parole, possiede una grande ricchezza allusiva in quanto rimanda a qualcosa d’altro, di nascosto, di segreto, che noi siamo chiamati a disoccultare.
È quello che ora intendiamo fare prendendo in esame alcuni elementi della narrazione.
Il primo elemento particolarmente interessante è l’invito di Gesù ad attraversare il lago:”Passiamo all’altra riva!”.
Nel vangelo di Tommaso (un vangelo apocrifo, cioè non riconosciuto dalla chiesa, scoperto una cinquantina di anni fa nell’Alto Egitto), c’è questa frase attribuita a Gesù:“Siate come dei passanti”.
Che cosa voleva dire Gesù?
Che la vita è un continuo passaggio.
È bene ricordare che il mondo è come un ponte e che non si costruisce la propria dimora su un ponte.
Ma se è vero che siamo tutti esseri di passaggio, che siamo passeggeri nel senso più trasparente della parola, c’è da chiedersi: dove ci porta questa legge che Gesù ci ha richiamato?
“Passiamo all’altra riva” ha detto Gesù.
Qui non c’è solo un’indicazione geografica. Si sapeva che l’altra riva, quella ad est del lago, era abitata da popolazioni pagane e perciò da forze ostili a Dio.
L’altra riva, secondo il linguaggio ricco di rimandi e di allusioni che Luca ha scelto per narrare questo miracolo, rappresenta la dimensione della alterità o della diversità, quel mondo cioè che ci appare inquietante, perché lontano, sconosciuto e misterioso.
Nella società attuale l’altra riva potrebbe essere rappresentata dalla massa degli immigrati i quali danno a volte l’impressione di costituire un mondo chiuso e separato con cui è difficile comunicare per il fatto che custodiscono gelosamente le loro tradizioni religiose e culturali.
Inoltre, l’altra riva la puoi trovare anche nella vita di coppia, con la persona che tu pensi di amare e di conoscere più di ogni altra.
Perché ogni persona è un mistero inaccessibile che non può essere mai cancellato.
Infine non è possibile ignorare che l’altra riva richiama facilmente il mondo dell’invisibile e dell’eterno al quale si accede affrontando il duro passaggio della morte.
“Passiamo all’altra riva”: l’invito di Gesù comporta tante difficoltà ed è motivo perciò di smarrimenti, di sofferenze, di angosce.
Chi ci può aiutare in quei momenti in cui, paralizzati dalla paura,vediamo l’orizzonte oscurarsi e abbiamo l’impressione di trovarci nella stessa condizione dei discepoli sul lago di Tiberiade?
Possiamo chiedere aiuto alla chiesa quando anch’essa ci sembra a volte una fragile imbarcazione sballottata, come in questi giorni, da onde troppo violente?
Quando si prende coscienza del pericolo, soprattutto quando la tempesta ci raggiunge più da vicino, nella vita di coppia o di famiglia, ci sorprendiamo a gridare: “Non t’importa , Signore, che noi periamo?”.
Ma Dio ci ascolta?
Abbiamo impressione che Dio dorma. Come dorme Dio nell’antico testamento, tanto che il salmista e i profeti si sentono costretti a gridargli: “Destati, Signore, perché dormi? Svegliati”.
La risposta, nel vangelo, la conosciamo: è data dal miracolo.
Gesù, che prima dormiva, viene risvegliato e fa tacere il vento placando le acque minacciose.
È interessante osservare che l’evangelista utilizza termini tecnici che, in greco, esprimono la morte e la risurrezione.
In altre parole, Gesù che dorme su un cuscino in fondo alla barca prefigura Gesù che riposa nel profondo della tomba, mentre Gesù che, risvegliato e stando in piedi in mezzo alla barca, interpella e provoca il vento, annuncia l’altro Gesù, in piedi nella tomba e vittorioso sulla morte, il mattino di Pasqua.
Ma c’è un’altra risposta su cui conviene riflettere.
“Dov’è la vostra fede?” chiede Gesù ai discepoli, ammonendoli sulla loro scarsa capacità di avere fiducia in lui. .
Qui la fede richiesta da Gesù è soprattutto fiducia.
Non si tratta di una fede intesa come adesione a un insieme di credenze definite con assoluta precisione o di una fede professata solo verbalmente..
Questa fede-fiducia è qualcosa che nasce dal cuore di una persona.
E’ la ferma persuasione che sulla barca della nostra avventura umana ci sarà sempre un passeggero clandestino, pronto a prendere in mano il timone e a condurci in salvo.
Vorrei concludere questa riflessione con un pensiero di Bernanos il quale un giorno si è domandato che cosa è la fede e ha trovato questa risposta: “La fede è ventiquattro ore di dubbi meno un minuto di speranza”.
A me sembrano parole molto consolanti.
I dubbi li conosciamo: ci accompagneranno sempre fino al termine del nostro cammino.
Ma, forse, potrà bastare, per essere riconosciuti come veri credenti, un minuto di speranza, purché questa speranza porti un nome, quello di Gesù, nostro dolcissimo amico, inseparabile compagno di viaggio e guida verso l’altra riva.