Siamo venuti per celebrare la nascita di Gesù.
La liturgia ci parla di musica celeste, di gioia grande, di pace per tutti.
Ma forse ci sentiamo incapaci di aderire pienamente a questo grande “mistero gaudioso”.
Che cosa ci manca?
Nella tradizione popolare francese esiste un singolare personaggio del presepio, chiamato ravi, che vuol dire rapito, incantato, estasiato, pieno di stupore e di gioia.
Qualcuno vorrebbe rimproverarlo perché non ha portato nulla da offrire al bambino Gesù, ma Maria lo difende: lui ha portato il dono più bello: i suoi occhi spalancati, colmi di stupore.
Noi questo spirito d’infanzia facciamo fatica a ritrovarlo.
Veniamo a queste celebrazioni con tutte le resistenze della nostra poca fede e della nostra ostinata razionalità.
Sentiamo risuonare una promessa di pace, un annuncio di salvezza?
Noi non siamo più disposti a seguire questi discorsi che, per le tante delusioni patite in passato, consideriamo falsi e alienanti.
“Dio mi deve spiegazioni. -diceva Ionesco- Quando sarà il momento gli chiederò perché il mondo è così bello e così atroce”.
Ma non c’è bisogno di aspettare quel momento per avere da Dio una risposta alle nostre legittime attese, se appena siamo capaci di sostare accanto al presepio con uno spirito contemplativo e invocante.
“Il Verbo si è fatto carne” ci dice Giovanni nel prologo del suo vangelo.
La parola di Dio si è rivelata nella carne del bambino nato a Betlemme.
Questo bambino non parla: è un infante, nel senso letterale della parola.
In realtà, parla più che se avesse la parola.
Parla non come parlerebbe un adulto, utilizzando concetti, idee, argomentazioni, ragionamenti (in questo caso sarebbe compreso da pochi, da quelli intellettualmente più preparati), ma parla con tutta la fragilità e la povertà della sua nascita in mezzo a noi.
E ci dice cose meravigliose.
Ci dice che Dio è amore.
Ha il volto della mitezza, della dolcezza, della semplicità, della fraternità.
E la nostra terra non è mai abbandonata da Dio.
Come lui non si stanca di amarla, così vorrebbe che neppure noi ci stancassimo di amarla.
Vorrebbe che stabilissimo un rapporto fraterno, simpatico, affettivo con tutta la creazione, con l’acqua, con l’aria, con le piante, gli animali, non profanando mai i beni della terra, ma rispettando e apprezzando.
Ma l’amore di Dio, ci dice ancora il bambino di Betlemme, si rivela soprattutto verso l’uomo.
”Il Verbo si è fatto carne”: il Verbo si è fatto uomo.
Ogni gesto di pietà o di rifiuto compiuto nei confronti dei nostri fratelli diventa un sì o un no che noi pronunciamo nei confronti di Dio.
Non ci capiti di deludere il nostro Dio.
Se così fosse, tutte le nostre belle liturgie natalizie sarebbero celebrazioni vacue, pura retorica religiosa.
E ci sarebbe perfino da vergognarsi.
Negli occhi, nel cuore, nelle mani in ogni fibra della nostra esistenza c’è il sigillo dell’amore di Dio che si è alleato con questa nostra umanità fatta di spirito e di carne, di improvvise esaltazioni e di tenaci avvilimenti.
Perché siano vere celebrazioni del Natale del Signore bisogna che esse portino ad adorare in ogni volto l’immagine di Dio.
Ogni volto umano, per quanto sfigurato dalla colpa, è un’icona, un riflesso del Verbo che si è fatto carne. Dio in Cristo ci restituisce il nostro vero volto, ci riconcilia con noi stessi, ci dona così la sua pace.
Res sacra homo, dicevano gli antichi.
Tanto più lo dobbiamo dire se crediamo nell’incarnazione del nostro Dio.
Perciò il culto da rendere a Dio passa attraverso i gesti che compiamo verso le persone che avviciniamo.
Non è possibile, in altre parole, amare Dio senza amare i fratelli che Dio ama.
E nella grande famiglia umana una tenerezza particolare è riservata da Dio ai poveri, ai deboli, agli incompresi, ai sofferenti: sono essi i più vicini al cuore di Dio.
Questo è il messaggio che ci trasmette il bambino di Betlemme, un messaggio che ci rivela il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.
Mi ha colpito questa affermazione che mi è capitato di leggere recentemente: “Dio si è fatto ‘nessuno’, perché tutti i ‘nessuno’ della terra avessero un volto, un nome, una dignità, una grandezza”.
Perciò, se mai volessimo rimanere in contemplazione di un nostro ideale presepio, dovremmo collocare, accanto a Maria e a Giuseppe, accanto ai pastori, vicinissimi al bambino, soprattutto le persone senza avvenire e senza speranza, tutti quelli che non hanno avuto nella vita la loro parte di tenerezza, tutti quelli che si sentono poco amati e perciò falliti.
C’è posto anche per noi vicino alla culla di Betlemme.
C’è posto se siamo capaci di abbandonare le nostre false sicurezze per ritrovare la misura della verità del nostro esistere, la nostra piccolezza e l’immenso bisogno di sentirci amati.
Questo bisogno di amore riguarda anche il Verbo di Dio che si fa carne e condivide pienamente la nostra umanità.
Anche lui ha bisogno di sentirsi amato e protetto.
Non è forse vero che Dio, da più di duemila anni, va interrogando instancabilmente i nostri cuori per vedere se c’è qualcuno che sia disposto ad amarlo, qualcuno per il quale sia capace di provare per il suo Dio una immensa pietà?
Etty Hillesum, questa straordinaria donna che nell’inferno di un lager nazista ha testimoniato l’amore e la speranza, nonostante avesse davanti agli occhi solo immagini di morte, ha potuto scrivere: “Ora tocca a noi aiutare Dio”.
Tocca a noi aiutarlo ora a nascere, a crescere, a trovare casa, a trovare lavoro, a trovare accoglienza e ospitalità.
Tutta la vita perciò va amata, la nostra e quella degli altri.
Amiamoci perché Dio ci ama.
Il bambino di Betlemme, che abbiamo visto come segno del vero volto di Dio e del nostro vero volto, diventa anche il volto della nostra possibile gioia.
Voglia il Signore non farci mai mancare quella speranza che a Betlemme si è accesa come luce avvolgente (“li avvolse di luce”) per i giorni oscuri della nostra vita.
domenica 3 gennaio 2010
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