domenica 13 luglio 2008

XV Domenica del tempo ordinario


Matteo 13, 1-23

La parabola narra l’avventura della parola di Dio.
La parola di Dio – ci dice anzitutto Gesù – è come un seme pieno di vitalità.
Il seme è una piccola cosa, è un niente per chi non ha capacità di immaginazione, mentre, a pensarci bene, è un niente che può sprigionare una forza insospettata.
Tale è la parola di Dio, che in questo si differenzia radicalmente dalle nostre parole.
Come sono le nostre parole?
Spesso sono chiacchiere vuote e inconcludenti, che danno luogo, nel loro incontenibile riprodursi, a forme patologiche di logorrea, cioè a un fiume di parole sopra un deserto di idee e di sentimenti.
Hanno forza le nostre parole?
Purtroppo hanno forza, e quale forza, solo quando sono vòlte a offendere e a ferire.
Con una parola si può anche uccidere una persona.
Non hanno invece alcuna forza quando, come spesso succede, sono ridotte a monologhi sterili e insensati, quando cioè tutti pretendono di parlare e nessuno è disposto ad ascoltare.
Perché la parola sia forte, creativa, poetica (non si dimentichi che la parola poesia in greco ha attinenza con l’idea di fare), bisogna che sia nutrita di silenzi, di sofferenza e soprattutto di ascolto di una parola più alta che è quella pronunciata dalle labbra stesse di Dio.
Ascoltiamo il profeta Isaia: “Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
Quando Dio parla, realizza ciò che dice.
Nella lingua ebraica una stessa parola (dabar) significa il fare e il dire.
E’ vero, per esempio, che ci si riunisce per ascoltare la parola di Dio, ma è ugualmente vero che,
prima ancora, si è convocati dalla parola di Dio.
I santi hanno avuto il privilegio di sperimentare in modo particolare la forza di questa parola.
Si sa che il grande Agostino si è convertito alla lettura di un passo della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo.
“Tolle et lege” gli aveva detto la voce di un fanciullo.
E Agostino, aprendo a caso la raccolta delle lettere di Paolo, si è lasciato conquistare da quella parola che lo invitava a rivestirsi del Signore Gesù Cristo, abbandonando la sua vita disordinata.
Capita anche a noi talvolta di dire: “Quella parola del vangelo mi ha colpito”.
E’ già un segno della forza della parola la quale rivela tutte le sue potenzialità se, dopo averci scosso, trova dentro di noi ascolto e docilità interiore.
Ma il vangelo ci dice anche che la parola di Dio, mentre racchiude in sè una forza sorprendente, non vuole imporsi .
Se Gesù si serve delle parabole, cioè di un linguaggio povero, sobrio, che parla delle cose semplici e umili della terra, è proprio perché intende rispettare la libertà degli ascoltatori lasciando loro il compito di interpretare la sua parola secondo la loro sensibilità e l’intelligenza del loro cuore.
Ci sono quelli che diventano “duri d’orecchi” e non ascoltano, mentre altri si aprono ad ascoltare e a comprendere.
Dio si espone alla nostra libertà.
Noi possiamo paralizzare la forza della sua parola, non in assoluto perché, se non l’ascoltiamo noi, ci saranno altri ad ascoltarla, ma dentro la nostra vita.
Questo succede quando non interiorizziamo la parola, quando cioè il seme non cade profondamente nel terreno.
Tra i tanti pericoli ipotizzati dalla parabola attraverso l’mmagine dei diversi terreni, merita oggi un’attenzione particolare quello della superficialità, della leggerezza, di un’adesione puramente emotiva ed estetizzante.
Sembra che oggi siano tanti i cuori superficiali, leggeri e volubili, pronti a stabilire un rapporto magico e superstizioso con le cose di Dio.
Mazzolari, il grande parroco di Bozzolo, un giorno in una sua omelia pose questa domanda
“Di che cosa Bozzolo ha maggiormente bisogno, di religione o di ragione?” .
E lui stesso si diede la risposta: “Bozzolo ha maggiormente bisogno di ragione”.
Cosa voleva dire?
Voleva far capire che la religione, quando è vissuta in forme superstiziose, non serve.
E’importante perciò dissodare con la riflessione il terreno destinato ad accogliere la parola di Dio se si vuole che questa non cada là dove la sua vitalità potrebbe essere vanificata.
Comunque, al di là di tutti i nostri limiti, questa parabola ci invita a sperare sempre, a coltivare una invincibile speranza.
Perché il seminatore, che è Dio, non si stanca di seminare anche su terreni che sembrano non promettere nulla in ordine al raccolto, ma continua a seminare in abbondanza, fino a lasciare l’impressione di uno spreco.
Sa benissimo che arriverà un giorno in cui la sua parola saprà toccare un lembo della nostra vita dove essa potrà germinare e dare frutti sovrabbondanti.
Penso ai genitori che danno tutto il loro amore ai figli, trasmettendo loro in particolare la loro fede.
Poi essi sono costretti a verificare il fallimento della loro educazione.
Da un certo giorno i figli non frequentano più la chiesa e sembra che Dio non li interessi più.
E i genitori si colpevolizzano.
Che fare?
Agire come Dio, continuare ad amarli.
Continuare a portarli nella preghiera.
Questo amore non va perduto.
Gesù scommette sul terreno buono.
Arriverà un giorno in cui la parola di Dio darà frutti buoni.
Perciò facciamo nostra questa semplice preghiera: “ Vieni, Signore Gesù, a preparare tu stesso il terreno dei nostri cuori.
Passa ancora a seminare il vangelo nella nostra vita”.

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