Giovanni 20, 1-18
Questa omelia dovrebbe celebrare il mistero della Pasqua e perciò dovrebbe avere un’intonazione gioiosa che in qualche modo riproponga l’esultanza che di solito accompagna l’annuncio della risurrezione.
A questo proposito si potrebbe ricordare il cosiddetto risus pascalis praticato nel medioevo in diverse città soprattutto tedesche dove, nel corso dei riti pasquali, erano i predicatori a suscitare il riso nell’assemblea raccontando storielle particolarmente esilaranti per sbeffeggiare la morte sconfitta dal Cristo risorto.
Ma quest’anno non ci è concesso di accogliere a cuor leggero questo invito alla gioia.
Abbiamo ancora sotto gli occhi le immagini della catastrofe che ha colpito diversi paesi dell’Abruzzo, non possiamo dimenticare i lamenti strazianti di tante persone che hanno perso tutto in questo tragico evento.
Nascono allora domande che mettono a dura prova la nostra fede.
Perché nel mondo c’è tanta sofferenza? perché tante vite spezzate ancora in tenera età?
C’è stato chi ha ammonito dicendo che nessuno deve sentirsi senza colpa.
Certamente è giusto pensare alla responsabilità degli uomini che, essendo liberi, sono liberi anche di fare il male.
In un passo del Deuteronomio si legge: “Ho posto davanti a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita onde tu viva…”.
Molto spesso l’uomo sceglie la morte e il male che genera infinite sofferenze.
Però questo, dobbiamo ammetterlo, non spiega tutto.
Quando si scatena uno tsunami o un terremoto con una forza così devastante come quello che ha colpito, sorprese nel sonno, tante famiglie della terra d’Abruzzo, è facile domandarsi: “e Dio, dove era in quei momenti così terribili?”.
È la domanda più seria, più grave, più temibile che possa salire nel cuore dell’uomo.
È la domanda che del resto, se non siamo superficiali o incoscienti , ci poniamo ogni giorno, davanti allo spettacolo quotidiano di violenza, di distruzione e morte per cui a volte siamo anche tentati di rivolgerci al Signore con le parole che don Michele Do ha raccolto dalla voce di un contadino della sua valle: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
La nostra riflessione oggi è sollecitata da tanti “perché?” che non trovano una facile risposta .
Dio l’abbiamo trascinato sul banco degli accusati.
Con i nostri “perché?”, peraltro più che motivati e legittimi, chiamiamo, per così dire, Dio a rapporto, gli chiediamo di rendere conto del suo operato, gli rimproveriamo il suo silenzio, la sua apparente indifferenza e apatia e addirittura la sua assenza.
È come se gli dicessimo: “Ma che Dio sei?”.
La risposta di Dio è affidata alla Pasqua di Gesù, alla croce e alla risurrezione.
Anzitutto ci invita a fare memoria ancora di quello che accadde un lontano venerdì pomeriggio di duemila anni fa, fuori dalle mura di Gerusalemme.
Un uomo di 33 anni fu appeso alla croce insieme ad altri due sventurati.
E mentre stava morendo, l’uomo appeso alla croce esclamò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
E il centurione romano che si trovava ai piedi della croce esclamò: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.
Il nostro è un Dio che conosce il patire scendendo fino in fondo nella sconfinata sofferenza del mondo, sempre dalla parte delle vittime, identificandosi con loro.
E la Pasqua diventa perciò il giorno della più grande consolazione.
Mi correggo: potrebbe diventare.
Purtroppo abbiamo perso il senso di questa novità sconvolgente. Gesù è risorto. È vivo. È con noi.
Gesù è accanto a noi come era accanto a Maria, nella apparizione narrata dal vangelo
Ma noi non sappiamo riconoscerlo.
Come se il Signore fosse assente o fosse ancora morto.
Morto in questa nostra società senza valori, morto nei compromessi e nelle ambiguità della politica, morto – è il sospetto che ci prende in qualche momento – anche nelle chiese.
Celebriamo la Pasqua come gente tranquilla, che va alla ricerca di un’omelia tranquilla, senza sussulti e senza troppe tensioni.
Vuol dire che non abbiamo più la fede?
È difficile dire se abbiamo la fede o non l’abbiamo.
Forse è vero che tutti vorremmo credere di più.
Abbiamo nostalgia della fede.Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a credere.
Abbiamo bisogno che Gesù ci chiami per nome come ha fatto con Maria di Magdala.
Gesù le disse: “Maria!”.
Essa si voltò verso di lui e gli disse in ebraico “Rabbunì” che vuol dire “Maestro!”.
Un nome, Maria, e in quel nome c’è il rivelarsi di una presenza, il palpito di un’amicizia che si rinnova.
E’ quello che può avvenire anche per noi.
Ascoltiamo tante parole, anche nelle nostre chiese.
Ci raggiungono, ma non ci scuotono.
Ci sembrano parole generiche, dette per tutti, indistintamente, parole decorative, non parole creative di qualcosa di nuovo.
Ma può anche accadere che tra le tante parole ci sia quella rivolta direttamente a te come se il Signore ti avesse chiamato per nome.
Allora si aprono gli occhi e tutto cambia.
Allora nasce dal cuore una risposta che vale più di tutte le professioni di fede: “Rabbunì, maestro!”
Qui c’è tutto lo stupore della risurrezione.
Qui c’è tutta la gioia della Pasqua.
Se c’è una grazia grande che oggi dobbiamo chiedere al Padre è questa: che ci aiuti a convertire la prima espressione di Maria registrata nel vangelo: “Hanno portato via il mio Signore” in quest'altra “Rabbunì”.
Vuol dire avere intuito la presenza del Risorto.
Vuol dire sentire la passione di correre a portare a tanti nostri fratelli (come per lunga tradizione si fa nel mondo ortodosso.
La buona notizia : “Cristo è risorto. Non avere più paura”.
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