mercoledì 3 giugno 2009

Pentecoste (R.A.)
Gv 14,15-20


La chiesa celebra oggi il dono dello Spirito.
Che cosa sia lo Spirito, non è facile dirlo.
Il catechismo ci suggerisce la risposta”Lo spirito è una delle tre persone divine”.
Ma delle tre persone divine rimane la più misteriosa.
Il Padre e il Figlio hanno almeno un nome che richiama un volto.
La parola Spirito, che significa soffio, respiro, richiama piuttosto l’attività con cui si manifesta.
Perciò ci è più facile parlare dell’azione dello Spirito.
Lo faremo seguendo il racconto che della Pentecoste ci ha dato Luca negli Atti degli Apostoli.
Ciò che sembra importante osservare è il passaggio da una condizione mortificata dalla paura a una condizione risvegliata dalla speranza.
La paura la conosciamo tutti.
Ciascuno ha una propria vulnerabilità e patisce l’angoscia nel sentirsi esposto a tanti rischi e sofferenze.
Ma oggi, in cui si celebra la nascita della chiesa, vorrei parlare delle paure di cui soffre la
chiesa.
La chiesa,almeno nei pastori che la governano, soffre anzitutto di una sorte di sindrome dell’accerchiamento.
Si sente cioè assediata da forze ostili che la vorrebbero privata della sua libertà.
Ma la chiesa soffre anche e soprattutto per una progressiva decristianizzazione della società, per l’assottigliarsi del numero di coloro che si mantengono fedeli alle pratiche religiose, per l’eccessiva libertà che ciascuno si prende di fronte ai principi morali che essa non si stanca di richiamare, per il moltiplicarsi di casi di infedeltà, anche all’interno del mondo ecclesiastico.
D’altra parte la chiesa non può facilmente consolarsi per il consenso che essa ottiene da molti sedicenti amici ( i cosiddetti atei devoti) i quali ostentano una vicinanza per motivi di pura convenienza.
Ad essi poco importa di Gesù Cristo e della fede cristiana, mentre interessa un cristianesimo da utilizzare per fini politici, auspicando per l’Europa una identità cristiana intesa come baluardo difensivo contro i non europei.
Vale la pena di ricordare le parole ammonitrici che sono racchiuse in una sorta di aforisma:
“E’ meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”.
Torniamo alle paure di cui soffre la chiesa.
Sono paure molto serie tanto da riguardare la sua stessa sopravvivenza.
”Siamo gli ultimi cristiani?” si è chiesto recentemente padre Tillard, un attento osservatore dei grandi fenomeni della vita sociale e, in particolare, delle vicende della chiesa nel mondo d’oggi.
Ma questa interrogazione potrebbe essere accantonata per lasciare spazio ad un’altra:
“E se dovessimo essere noi i primi cristiani?”.
Di una nuova Pentecoste ha parlato papa Giovanni XXIII a chiusura della prima sessione del concilio, una Pentecoste che dovrebbe assicurare un balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo.
Dove e come potrebbe realizzarsi questa presenza dello Spirito pentecostale?
Guardiamo a quello che ci narrano gli Atti .
C’ è un vento gagliardo che apre le porte del cenacolo e ci sono persone che, asserragliate dentro dalla paura, trovano il coraggio di uscire all’aperto.
La chiesa, è stato detto, con la Pentecoste acquista il coraggio di scendere in piazza.
Ma non bisogna forzare troppo questa espressione.
Del resto negli Atti non si parla di piazze, ma di una folla che si era raccolta davanti alla casa dove stavano i discepoli perché aveva avvertito che là dentro stava succedendo qualcosa di strano. Parlare di grande folla e di piazza rappresenta una forzatura del testo che può fare comodo a quanti vorrebbero una chiesa che non solo non tema la piazza, ma la ami e la cerchi.
In piazza le manifestazioni di massa prendono il sopravvento sull’incontro con le singole persone e gli applausi diventano più importanti delle vibrazioni dei cuori.
La piazza diventa il luogo dove viene allestito lo spettacolo religioso.
Si cerca perciò di stupire, di impressionare, di suscitare entusiasmi non importa se epidermici e di breve durata.
Certamente è bello osservare che la chiesa il giorno di Pentecoste abbia il coraggio di entrare in rapporto con la grande famiglia umana per portare a tutti il messaggio che le è stato affidato.
Ma è bello pensare anche ad una chiesa che rientri, per così dire, in casa.
La chiesa di Pentecoste è anche la chiesa della interiorità.
E l’interiorità è possibile solo se in certi momenti si chiudono le porte, mettendo a tacere le voci e i richiami della piazza.
La chiesa , per imparare a parlare a tutti, deve imparare prima di tutto il linguaggio del silenzio.
Per manifestarsi, deve rinunciare ad apparire e ad autocelebrarsi.
Questa è la via che lo Spirito, il quale ci è dato come consolatore, ci suggerisce come l’unica
via che ci permette di vincere le nostre paure.
“Ma lo Spirito Santo è ancora presente in mezzo a noi?” si chiedono molti cristiani amareggiati per le troppe delusioni patite in questi ultimi cinquanta anni, da quando cioè si è chiuso il concilio.
La risposta la prendo dalla Lettera sullo Spirito che il nostro card. Martini scrisse nel 1997:
“Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro.
C’è, e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge arriva là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi della nostra epoca, che è la perdita del senso dell’invisibile e del trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa”.
Scoprire i segni di questa presenza, nella luce del Concilio Vaticano II, è la nostra speranza e la nostra gioia.

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