domenica 30 marzo 2008

II Domenica di Pasqua


Atti 5, 12-6+
Salmo 117
Apocalisse 1, 9-11a.12-13.17-19
Giovann 20, 19-31

Oggi, in tutte le chiese del mondo viene letto questo racconto dell’apparizione del Cristo all’apostolo Tommaso.
Attraverso questo racconto ci è dato di riflettere sull’esperienza della vera fede a cui Gesù riserva una beatitudine particolare. “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.
Chi di noi può dire di meritare questa beatitudine?
La vera fede non è una conquista facile, ma richiede un cammino in cui entrano in gioco anche altre persone.
Non so se Tommaso sarebbe potuto arrivare alla fede senza la testimonianza degli altri apostoli.
Noi abbiamo potuto conoscere Gesù Cristo attraverso l’educazione religiosa ricevuta in famiglia o la fede viva di persone che ci hanno fatto conoscere il vangelo.
Ma questo è stato solo l’avvio di un’avventura spirituale a cui ciascuno a un certo punto ha dovuto trovare dentro di sé la sollecitazione decisiva per esprimere il proprio sì incondizionato.
Non dimentichiamo che ci sono tante persone che vorrebbero credere e soffrono di non riuscire a credere.
Il non credente non va confuso con l’ateo che esibisce con orgoglio la sua indisponibilità alla fede.
Come c’è un lutto per la scomparsa di una persona a cui si era particolarmente legati, così si può portare il lutto per la propria fede perduta o il dolore di non averla mai conosciuta.
“Sempre mi sta a lato / la colpa "d’essere stato un disgraziato” ha scritto il poeta Jorge Luis Borges, alludendo forse alla sua incapacità di aprirsi alla beatitudine del vero credente.
E’ un dolore che merita grande rispetto.
Sono tante le persone che meritano questo rispetto.
Non sono persone indifferenti.
Faremmo loro un grave torto se pensassimo che il fatto religioso non le interessi.
Sono persone che hanno messo e continuano a mettere tutta la loro onestà nella riflessione religiosa, tutta la intelligenza e in qualche caso la loro grande cultura.
Rispettare queste persone vuol dire raggiungerle nelle loro difficoltà, riconoscere l’obiettività di molte delle loro osservazioni sulla chiesa e sul comportamento dei cristiani.
Rispettare vuol dire prendere coscienza che molte delle domande di chi non crede non sono estranee al cuore del credente.
L’incertezza, il dubbio possono coabitare nel cuore del credente, mentre non si comprende l’arroganza di certi convertiti i quali si permettono di dare lezioni di fede agli altri, ritenendosi “arrivati”.
Per questo, ritornando al vangelo, ha un grande valore esemplare il fatto che Tommaso abbia potuto esprimere i suoi dubbi nel gruppo degli apostoli senza che nessuno gridasse allo scandalo o sentisse il bisogno di cacciarlo fuori.
Ma come si arriva alla vera fede?
C’è una tentazione che ci tiene lontano dalla beatitudine proclamata e promessa da Cristo.
Siamo tutti come Tommaso: vogliamo toccare, vedere, verificare ciò che appartiene alla dimensione del mistero.
Vogliamo rendere palpabile e visibile anche ciò che è invisibile e non dimostrabile.
Le parole di Gesù a Tommaso fanno capire che non è questa la via da seguire.
Non si deve peraltro pensare che la fede sia un’operazione totalmente estranea al nostro bisogno di toccare e di sperimentare la presenza di Cristo.
C’è l’atteggiamento presuntuoso di chi va alla ricerca di dimostrazioni palesi e c’è l’atteggiamento discreto, umile, confidente di chi si accosta al mistero per lasciarsi toccare da una presenza nascosta.
La fede non diventa veramente viva che a partire dal momento in cui, presto o tardi, essa diventa esperienza vissuta della presenza del Cristo.
Possiamo anche sapere tutto su Gesù, su quello che ha fatto e su quello che ha detto, possiamo anche mandare a memoria tutti i vangeli, ma a che serve se la nostra vita non è trasformata da un po’ di quella follia – follia evangelica - che è il segno inconfondibile di uno stretto legame con lui?
Vuol dire che abbiamo incontrato una dottrina, non una persona.
Oppure abbiamo incontrato un personaggio del passato, non il Cristo vivo che ci rende vivi.
“Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato” ci dice oggi Gesù.
E’un invito a scoprire la vulnerabilità e la forza, l’umiliazione e la gloria del Risorto attraverso un’intima comunione con lui così che i tratti più rilevanti del suo mistero pasquale vengano a imprimersi nella nostra storia personale.
Nasce allora il desiderio di essere, come Gesù, portatori di pace e di perdono.
”Pace a voi" dice Gesù ai discepoli.
La fede autentica non può che essere al servizio della pace.
Non parla il linguaggio della violenza, ma della mitezza.
Il fanatico in realtà non crede in quel Dio che egli intende servire, perché agisce come se Dio non fosse capace di salvare il mondo.
E se a mostrarsi intollerante fosse un cristiano, vuol dire che non ha ancora incontrato il Cristo risorto, con la mitezza delle sua ferite ancora aperte e con la libertà di chi ha vinto la morte.
E con la pace bisogna essere pronti a testimoniare il perdono.
Che non deve essere inteso come prerogativa esclusiva di poche persone consacrate, ma come un atteggiamento specifico di tutta la comunità cristiana.
In un mondo dominato da forti passioni distruttive come il risentimento e la vendetta, dovrebbe sorgere da tutta la grande famiglia di credenti in Cristo un vasto, accorato appello alla riconciliazione e alla fraternità.
Ma bisogna che ciascuno, nel lasciarsi abbracciare dal Cristo risorto, smantelli dentro di sé ogni passione ostile.
Credi tu nel valore della pace e del perdono?Allora potrai dire di credere veramente nel Cristo risorto.

Nessun commento: