domenica 23 marzo 2008

Pasqua di resurrezione



Atti 10, 34.37-43
Salmo 117
Colossesi 3, 1-4
Giovanni 20, 1-9

Vorrei anzitutto richiamare alcuni momenti dell’esperienza pasquale vissuta dai discepoli..
Al mattino le donne trovano il sepolcro vuoto e una voce le ammonisce: “Non è qui, è risuscitato”.
Poi Gesù comincia ad apparire.
Appare a Maria Maddalena che però non lo riconosce immediatamente.
Appare la sera ai due discepoli che andavano verso Emmaus: anch’essi non lo riconoscono subito, ma solo quando a tavola compie il gesto di spezzare il pane con loro.
Tenendo conto di questa lentezza nel riconoscere il Risorto, potremmo dire che, mentre è già Pasqua per Gesù, non lo è ancora per i suoi discepoli.
Gesù è risorto, ma la fede dei discepoli, la fede nostra è in ritardo su questo annuncio così sorprendente.
Per accoglierlo, bisogna vincere molte incertezze, superare molte esitazioni: bisogna fare un lungo cammino prima di poter dire con i discepoli: “Davvero il Signore è risorto”.
È importante osservare che questa affermazione, rispetto a quella fatta dagli angeli, si differenzia soltanto per l’avverbio “davvero” che però assume un valore fondamentale.
Il grande pericolo è che la Pasqua rimanga un evento che abbia valore solo per Cristo, ma
non per noi.
Perché diventi Pasqua anche per noi, bisogna anzitutto che lo Spirito Santo ci aiuti a scrivere nei nostri cuori la parola “davvero”.
Potessimo dire anche noi. “Cristo è veramente risorto!”.
Veramente, per davvero, non apparentemente, non simbolicamente.
Vorrei sbagliarmi, ma a me pare che per molti cristiani la risurrezione è semplicemente un modo di dire.
Perché la risurrezione diventi una fede viva e vitale bisogna che essa entri nella nostra esistenza lasciandovi tracce o frammenti di un’esperienza radicalmente nuova.
Il primo frammento consiste in un amore più rispettoso e cordiale nei confronti della vita.
Può sembrare un rilievo superfluo, invece non lo è.
La vita non è abbastanza amata.
Basti vedere come sia sacrificata, violentata, venduta, soppressa, quasi non contasse niente.
O anche come sia spesso consumata dietro interessi banali e superficiali.
C’è da provare pietà di tante esistenze apparentemente piene di vitalità, ma che in realtà si rivelano spente, perché non animate da una profonda simpatia per tutto ciò che di sublime e di divino ci è dato di incontrare nell’ordine della bellezza e dell’amore.
Gesù è stato talmente amante della vita da vincere la morte.
Dalla Pasqua ci giunge pertanto questa forte suggestione ad amare la vita in tutte le sue diverse espressioni. Non soltanto la nostra, ma anche quella degli animali, delle piante, di tutta la natura perché la creazione intera è attraversata da un fremito che è un anelito alla risurrezione.
Secondo frammento di Pasqua: l’esperienza di una maggiore libertà davanti alla morte.
Se Cristo è risorto, se nulla ci può separare da lui, dovremmo sentirci meno esposti alle paure e ai ricatti della morte, come il grande teologo Dietrich Bonhoeffer che poco prima di esser giustiziato in un lager nazista, scrisse: “E’la fine – per me l’inizio – della vita.
Libertà, ti cercammo a lungo, nella disciplina, nell’azione, nel dolore.
Morendo, ora ti conosciamo nel volto di Dio.”.
A Pasqua dovremmo provare tutti, più forte che in altri momenti, il presentimento della morte come inizio.
Dopo la risurrezione di Gesù, dovremmo sapere che c’è un modo di vivere che non conduce alla morte.
I legami che noi intrecciamo quaggiù nell’amicizia rimangono per sempre.
Il più umile gesto di attenzione, uno sguardo di tenerezza, una parola che aiuta, un rancore dimenticato, tutto porta un frutto di eternità, tutto si orienta verso la gioia che rimane.
E questo vuol dire credere nella ”risurrezione della carne”.
Non si tratta infatti di ritrovare il nostro corpo a partire dai nostri resti e dalle nostre ceneri.
Sarebbe ingenuo, sarebbe assurdo pensare così.
Credere alla risurrezione dei corpi vuol dire avere la certezza che ritroveremo, sotto una forma che non ci è dato immaginare, ciò che i nostri corpi ci permettono ora: la relazione, la comunicazione, l’amore, lo stupore legato alla vita dei sensi: tutto ciò che fa corpo con noi.
Credere alla risurrezione dei corpi è credere che nell’al di là Dio ci darà non una vita disincarnata, eterea, ma una esistenza umana completa.
Perciò , quando visitiamo un cimitero (e sarebbe oggi il giorno più consigliabile, non il 2 di novembre), .non parliamo dei nostri defunti relegandoli in un passato lontano che non ritorna più e neppure immaginandoli come dormienti in un riposo eterno, ma come dei viventi, dei risvegliati, in quanto accanto ad ogni tomba abbiamo la possibilità di ascoltare una voce che ci dice: “Non cercatelo qui. È risorto”.
Altro frammento di Pasqua, il più importante, è la capacità di sognare ciò che appartiene alla dimensione dell’inatteso, dell’inedito, dell’impossibile, sia per la nostra storia personale sia per la storia dell’umanità intera.
Viviamo tempi amari,. tempi in cui le pietre tombali dell’ingiustizia, della corruzione, della violenza, del cinismo, della menzogna premono tenacemente sui nostri sepolcri e non c’è modo di
rimuoverle.
Ogni giorno ci porta la nostra razione di tristezze o, per usare un’immagine cara a Elias Canetti, ”una tazza di lacrime per colazione”.
Pasqua è una festa difficile e al tempo stesso ne abbiamo un bisogno insopprimibile.
La festa di Pasqua ci incoraggia a sperare, contro ogni evidenza, che un mondo “altro” è possibile, che una chiesa diversa è possibile.
Fare Pasqua oggi è accogliere l’invito a non avere paura perché lui, il Cristo, è ancora presente in mezzo a noi, a tracciare un cammino di luce in questo tempo buio e a orientare i nostri passi come messaggeri di speranza e di pace.

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