lunedì 12 maggio 2008

Pentecoste


Atti 2, 1-11
I Corinzi12, 3-7.12-13
Giovanni 20, 19-23

Si è soliti pensare che la chiesa abbia avuto inizio il giorno di Pentecoste, con il dono dello Spirito.
Oggi, ricordando quel giorno, ci domandiamo: “Qual è l’idea o il modello di chiesa che Gesù ha voluto trasmetterci con i prodigi della Pentecoste?
In altre parole: come dovrebbe essere la chiesa voluta da Cristo?”.
La chiesa deve anzitutto sentire di avere un’anima.
E l’anima della chiesa è appunto lo Spirito, il soffio vitale, il respiro che Gesù comunica ai suoi discepoli.
Nel vangelo è detto che Gesù “alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo”.
Come Dio aveva fatto un tempo con Adamo, così Gesù comunica con il soffio della sua bocca la vita nuova che dà origine alla sua chiesa.
Perciò ogni discorso sulla chiesa non può ignorare questo suo inscindibile rapporto con lo Spirito.
Senza lo Spirito, che cosa sarebbe mai la chiesa?
Sarebbe un’istituzione puramente umana, tale cioè da poter essere interpretata in termini puramente umani.
E’ quello che capita spesso di dover costatare nei discorsi riservati alla chiesa dai mass-media, sia dalla stampa che dai diversi canali televisivi.
Della chiesa si osserva in particolare l’incidenza che può avere in certe congiunture politiche o nella soluzione di gravi problemi di ordine etico.
Questo modo di giudicare la chiesa può essere assunto anche da molti credenti.
Ci si ferma unicamente su certi aspetti esteriori, si esprime consenso o dissenso a partire da certi fatti contingenti, si fanno previsioni sulla sua durata nel tempo come per qualsiasi altra organizzazione umana.
In ogni caso, s’è persa memoria della sua origine pentecostale.
Ora bisogna restituire alla chiesa quel nucleo di irriducibile mistero che la distingue radicalmente tra tutte le forze operanti nella società.
Di questo mistero cerchiamo di cogliere certi aspetti che sono messi in evidenza dalle letture di questa solenne liturgia.
Uno sguardo, anzitutto, su quel manipolo di uomini che si trovano asserragliati dietro porte saldamente chiuse. Per la paura.
Sono gli ultimi testimoni di un’avventura che si è conclusa ed è finita male.
Non resta loro per sopravvivere che un rifugio di pochi metri quadri, stretti tra quattro mura.
Il loro nascondiglio è una prigione; la loro casa, una tomba.
Questa rappresentazione può trovare consonanze profonde nel mondo d’oggi.
Voglio dire questo: la chiesa di oggi è una chiesa che sembra avere perso la capacità di sperare.
Guardiamoci attorno, anche all’interno delle nostre chiese.
Non è forse vero che ci sembra di non vedere se non volti abbuiati, incupiti da un clima di pesantezza che si respira nella nostra società?
E a sentire certi discorsi, è un continuo lamentarsi, lamento che si aggiunge a lamento, creando uno stato di generale depressione.
Non è certo il caso di coltivare un superficiale e astratto ottimismo, quando non passa giorno senza essere raggiunti da notizie e immagini terrificanti di delitti, di perversioni, di lutti.
Come è possibile continuare a sperare?
Se lo chiedono oggi tanti giovani ai quali come chiesa non sappiamo offrire altro se non parole di paura e di sfiducia., imprigionati, come siamo, dentro la nostra abituale, sterile lamentosità.
Assomigliamo troppo alla chiesa paralizzata dalla paura, prima che fosse visitata dallo Spirito.
Ma è bastato che Gesù si rendesse nuovamente presente con il dono dello Spirito, per assistere a un radicale cambiamento.
La porta, prima sbarrata, diventa un passaggio verso la libertà, i discepoli prima fuggiaschi si trovano ad essere degli inviati.
E il soffio dello Spirito deborda le frontiere della chiesa ed abita oramai il cuore di ogni uomo di buona volontà.
A Pentecoste nasce quella che qualcuno ha felicemente definito la chiesa dello stupore.
Non che i discepoli uscendo dalla loro casa-prigione si proponessero di stupire, di sbalordire, di impressionare. No.
La meraviglia è nata spontaneamente negli ascoltatori i quali avevano l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di insolito e di inspiegabile, di mai visto o sentito.
Coloro che li stavano a sentire non potevano fare a meno di porsi una serie di interrogativi:
“Non sono tutti Galilei?... Com’è che li sentiamo parlare ciascuno la propria lingua nativa?”.
Noi apparteniamo a una chiesa la quale si preoccupa eccessivamente di spiegare, di istruire, di offrire certezze.
Ma la chiesa voluta da Cristo dovrebbe preoccuparsi principalmente di seminare interrogazioni.
Lo stupore di cui si diceva nasce infatti non di fronte alle spiegazioni, ma dinanzi al mistero, a contatto con l’inspiegabile.
A questo punto si pone il problema del linguaggio.
Quale lingua dovremmo usare per essere fedeli all’azione dello Spirito che ci è stato donato?
Quando si parla delle cose di Dio, non serve la lingua degli specialisti, degli eruditi, della gente che sa.
Ho trovato nella predica di un parroco questa stupefacente confessione:”Io non so parlare le lingue. Sono negato, ma non mi cruccio più di tanto.
Mi accontenterei di parlare la vostra lingua, quella che impiegate nella vita quotidiana.
Dirò di più. Mi accontenterei di saper parlare e basta. Ossia: arrivare al vostro cuore per la via diretta, senza astruserie e complicazioni, ma con un timbro di schiettezza e di semplicità”.
Fossimo capaci di parlare con questo stile, fossimo capaci di trasmettere con le nostre parole il dono della pace e del perdono che il Signore ha voluto associare al dono dello Spirito.
Non celebreremmo la pentecoste come un evento lontano, ma come un evento che segna la nostra storia personale, perché protagonisti siamo noi, presenti nel mondo a testimoniare che la speranza è possibile.
E nascerebbe una chiesa non più dominata dalla paura e dalla sfiducia, ma una chiesa dello stupore perché aperta all’azione dello Spirito che fa nuove tutte le cose.

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