venerdì 30 maggio 2008

Solennità del Corpo e Sangue di Cristo


Deuteronomio 8, 2-3.14b-16°
Salmo147
1 Corinzi 10, 16-17
Giovanni 6, 51-58

Siamo soltanto agli inizi del cristianesimo.
E‘ un’affermazione che capita di ascoltare e che a me pare di dover condividere pienamente, soprattutto quando si tratta di avvicinarsi ai grandi misteri della fede.
Ho l’impressione che noi ci siamo affrettati a a spiegare, a sistemare, a razionalizzare, con il risultato di rendere più difficile la comprensione dei segreti che Gesù ci ha voluto rivelare.
Gesù non amava come noi le sottigliezze della mente, ma la semplicità di un discorso che si rivolge soprattutto al cuore delle persone.
Cerchiamo di meditare oggi sul dono dell’eucaristia, lasciandoci condurre dalla parola di Gesù con grande docilità interiore, senza la pretesa di volere spiegare anche ciò che di sua natura appartiene alla dimensione del divino.
Che cosa ci ha detto Gesù?
Ha parlato dell’atto del mangiare.
Siamo nell’ordine di un’esperienza che conosciamo tutti, perché costitutiva del nostro esistere.
E il mangiare presuppone la fame, una condizione di indigenza che ha bisogno di essere
guarita.
Per capire, gustare, assaporare l’eucaristia è necessario prendere coscienza della fame che abita dentro di noi e rode in profondità le risorse del nostro vivere abituale.
Si viene alla celebrazione eucaristica non per un senso del dovere o per i valori simbolici che essa esprime, ma si viene perché si è mossi da una fame profonda.
Fame di che cosa?
Potremmo dire semplicemente: fame di vita, fame di tutto ciò che ci permette di dire: “Ora finalmente mi sento vivere”.
Per rimediare a questa fame Gesù ci parla di pane, quasi a ricordarci che non si tratta di un mangiare in senso metaforico, ma di un mangiare concreto, come concreto è un pane che compare sulla nostra tavola, come concreto era il pane che egli aveva moltiplicato per sfamare la folla che lo seguiva.
In uno scritto di Marguerite Yourcenar, intitolato I trentatré nomi di Dio, ho trovato che uno dei nomi è affidato a questa semplice parola: il pane.
Da questo accostamento così sorprendente il pane non viene smaterializzato fino ridursi a realtà solo simbolica.
E’ Dio invece che in qualche modo si rende presente nel pane così che questo viene a intridersi di una luce particolare.
Nell’eucaristia riscontriamo il pieno avverarsi di quel progetto di amore per cui il figlio di Dio è disceso dal cielo, si è abbassato fino a farsi carne e sangue come uno di noi.
Ma con l’incarnazione non aveva ancora toccato l’ultima soglia della sua divina umiltà.
Parlando ai bambini della prima comunione, una volta mi sono permesso di immaginare con loro questa scena.
Nella famiglia di Dio formata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo c’è stato un momento in cui il Figlio, vedendo quanta miseria ci fosse sulla terra, quanta sofferenza nel cuore degli uomini, quanta solitudine anche tra persone che pure condividevano la stessa vita, si commosse profondamente e confidò questo desiderio.”Voglio essere anch’io con queste creature che soffrono. Voglio essere accanto a loro. Non solo: voglio diventare pane per la loro fame di vita.
Sì, voglio diventare pane”.
Ecco perché Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo.
Lungo questa linea di comprensione che del dono dell’eucaristia ci è stata tracciata da Gesù stesso, troviamo parole sconcertanti e perfino urtanti per la nostra sensibilità: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna”.
Ma sono proprio così scandalose queste parole?
Se dicendo “la carne”e “il sangue” Gesù intendeva parlare della sua identità, allora si può intuire il senso meraviglioso di questo discorso.
Cristo non ci dà soltanto una dottrina o un modello da imitare.
E neppure ci dà solo la presenza dell’Emmanuele, del Dio con noi, ma la presenza di un Dio che è in noi come è in noi il pane che noi mangiamo.
Se poteva bastare toccare le frange del mantello di Gesù per sentirsi miracolati, abbiamo mai pensato quale forza potrebbe esprimere l’eucaristia che le liturgie orientali chiamano “fuoco e Spirito”?
Si comprende perché tutto il discorso sul pane disceso del cielo è scandito dalla parola “vita” e dal verbo “vivere”.
Questa riflessione ci permette di renderci conto del valore che hanno le nostre celebrazioni eucaristiche.
Quando possiamo dire di avere partecipato a una messa che fosse veramente viva?
Ci capita talvolta di confidare: “Ho assistito a una bella messa”.
Perché è stata bella?
Forse perché i canti eseguiti dal coro erano stati preparati con molta cura?
O anche perché c’è stato qualcuno che ha parlato molto bene, spiegando il vangelo?
Una messa è bella quando, comunicando con la presenza reale di Cristo, diventiamo noi stessi presenza reale di Cristo nel mondo.
A volte siamo troppo preoccupati di noi stessi.
Ci sono persone che pregano e fanno la comunione per godere della sua presenza pacificante e rassicurante.
Ma non è questo un modo esemplare di vivere l’eucaristia.
Fare la comunione è nutrirsi della sua presenza viva, dei suoi pensieri, del suo amore così da allargare i confini del nostro cuore.
Si è pronti allora a provare pietà per tutti quelli che non credono o che non sperano.
Si è pronti ad apprezzare ogni gesto di generosità e di solidarietà che venga compiuto nel mondo,
anche da chi segue religioni diverse dalla nostra.
Si viene alla messa come mendicanti (si parlava all’inizio di fame) e si ritorna come donatori.
”Ogni volta che noi avviciniamo questo sacramento, dobbiamo uscire dalla chiesa creature totalmente rinnovate perché tutti abbiano gioia, tutti abbiano accrescimento di vita e di speranza“(Giovanni Vannucci).

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