martedì 7 ottobre 2008

XXVII Domenica del tempo ordinario


Isaia 5, 1-7
Salmo 79
Filippesi 4, 6-9
Matteo 31, 33-43

Siamo a Gerusalemme. Qualche giorno prima di Pasqua. Forse sulla spianata del tempio.
Gesù sente che oramai la sua avventura è alla fine, che la sua morte è già stata programmata.
Allora, in una sorta di parabola disperata, si apre totalmente “ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo” intrecciando le sue parole con quelle del profeta Isaia.: “Ascoltate…C ‘è un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi se ne andò”.
Con una sorprendente capacità di sintesi, in forma di catechesi, Gesù li intrattiene sulla loro storia che poi è anche la sua, sulla passione e la pazienza di Dio e sul suo assentarsi come segno di amore, perché essi si rendano responsabili.
E al centro di questa narrazione che diventa sempre più tragica per la violenza dei vignaioli che non sono disposti a riconoscere i diritti del padrone, c’è lui, Gesù, che può dire: “Io sono l’erede; il figlio sono io”.
Cerchiamo ora di richiamare e di approfondire qualche tema di questa parabola, mettendola in rapporto con le situazioni che normalmente ci è dato di conoscere.
Sorprende anzitutto la cura estrema che quel padrone dedica al suo podere per assicurarsi un buon raccolto.
Gesù riprende le parole del profeta Isaia per ridire l’amore di Dio per il suo popolo e per ciascuno di noi.
Come è bella questa immagine di Dio, di Dio appassionato della sua vigna, di Dio innamorato di ciascuno di noi perché siamo noi la vigna del Signore.
C’è un Padre che ci ama con una tenerezza meravigliosa, senza stancarsi mai, tanto da poter dire (sono parole che si trovano in Isaia 5,4): ”Che cosa ancora dovevo alla mia vigna che io non abbia fatto?”.
C’è un canto d’amore che Dio intona sulla nostra vita e che dovrebbe tradursi dentro di noi in un’esperienza di dolce stupore: “Dunque, è proprio vero che tu mi ami così tanto? Che mi ami anche quando, per la coscienza delle mie miserie morali mi sento indegno del tuo amore?”.
Un’obiezione: se Dio ama cosi tanto la sua vigna, perché a un certo punto l’abbandona?
Il padrone infatti della parabola parte, se ne va lontano.
Di solito questa partenza è messa in rapporto con l’ascensione.
Ma Gesù ci mostra che già nell’A.T. Dio si comporta come si comporterà il Cristo dopo l’ascensione quando, dopo aver dato tutto, si sarebbe assentato.
Il Dio dell’alleanza è anche il Dio dell’assenza.
Non si tratta di abbandono, di evasione o di diserzione.
La sua “assenza” è un’altra forma del suo amore.
Dire che il padrone è partito per un viaggio è una bella espressione per dire che Dio ci dà fiducia, ci prende sul serio, ci dà spazio rispettando la nostra libertà.
Ma c’è un altro tema nella parabola, e questo ci rattrista non poco: è il rifiuto che gli uomini oppongono alle iniziative d’amore di Dio.
La libertà che il padrone ha concesso ai vignaioli ha dato loro alla testa.
Si credono proprietari, diventano arroganti, violenti, perfino assassini.
L’errore grave è quello di mettere le mani sull’amore, di volerlo possedere, quando l’amore non si possiede, ma si accoglie,.
E l’amore non si conserva se non donando.
La parabola denuncia la pretesa dell’uomo di farsi proprietario dei doni di Dio.
Questa parabola mette in crisi anche la chiesa quando si ritiene proprietaria della salvezza e si mostra gelosa e avara dispensatrice della misericordia di Dio.
E nella chiesa colpisce in particolare quei cristiani dalle mani chiuse e dal cuore altrettanto chiuso, quei cristiani che si ritengono proprietari del buon diritto, della vera morale, della sola verità, cristiani chiusi nella loro buona coscienza di essere eredi per natura o per merito dei doni di Dio.
Per fortuna ci sono anche cristiani che si mettono al servizio della vigna del Signore, con umiltà e semplicità, perché essa dia il frutto sperato.
Come fare frutto?
Ci può aiutare una frase di Gesù che si trova nel vangelo di Giovanni: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (15,5).
E’ facile capire che noi porteremo frutto nella misura in cui saremo uniti a lui.
Ma se Gesù è il figlio che i vignaioli trascinano fuori della vigna per poi ucciderlo, se è la pietra scartata dai costruttori di cui profeticamente si parla nel salmo 118 citato nella parabola, che senso ha scommettere su di lui tutto il senso della propria esistenza?
A meno che si abbia la capacità di credere che la pietra scartata sia diventa pietra angolare, in grado di reggere tutta la costruzione.
E’ questa la lezione che ci ha trasmesso il cardinale Martini in settimana, presso l’auditorium S. Fedele, sul modo con cui si sta preparando ad affrontare il passo estremo che sente ormai vicino.
E’ stata una lezione di grande fede e prima ancora di grande umiltà da parte del cardinale che, presentandosi senza alcun segno di potere, non ha nascosto le difficoltà “a entrare nell’oscurità che fa sempre un po’ paura”, ma che poi ha trovato il passo della fede per affidarsi totalmente a Gesù:
“Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Questo sì che è un COMMENTO al Vangelo! Grazie per le belle parole!