venerdì 3 ottobre 2008

XXVI Domenica del tempo ordinario


Matteo 21, 28-32

“I pubblicani le prostitute vi precedono nel regno dei cieli”
Ancora una parola difficile. Un versetto scandaloso.
A chi è rivolta questa sentenza che assomiglia a una invettiva?
I destinatari sono “i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” .
Nella società di allora erano le persone più rispettabili sotto il profilo morale e religioso.
Avevano infatti una grande conoscenza delle Scritture e si impegnavano a mettere in pratica tutte le prescrizioni della legge di Mosè fin nei più piccoli dettagli.
E Gesù ha il coraggio di affermare che nel regno dei cieli queste persone non hanno i posti di onore che vengono loro assegnati nel regno degli uomini.
Non solo. A sopravanzarle saranno “i pubblicani e le prostitute”, persone cioè prive, secondo il modo comune di pensare, di qualsiasi dignità.
Ci si può domandare perché Gesù abbia voluto contestare così radicalmente l’opinione comune con la frase che abbiamo ricordato.
Si potrebbe rispondere citando una delle opere di misericordia che, secondo il vecchio catechismo, parlava della necessità di consolare gli afflitti.
Nessuno meglio di Gesù ha svolto questa azione a favore di tante persone provate da sofferenze diverse.
Gesù al tempo stesso si è preoccupato di affliggere i consolati, di inquietare cioè le coscienze chiuse nel loro perbenismo, appagate della loro posizione sociale e della stima di cui si sentono circondate.
Ecco perché nei loro confronti ha il coraggio di pronunciare parole apertamente provocatorie, non per il gusto di contestare, ma con la speranza di suscitare in loro una reazione positiva che è quella della conversione.
A questo scopo dovrebbe servire anche la parabola narrata nel vangelo: è la storia di due figli che si comportano in maniera diversa.
Entrambi sono invitati dal padre a lavorare nella vigna.
Il primo si rifiuta, ma poi finisce per andarci; il secondo dice di sì, ma poi non ci va.
A chi voleva alludere Gesù raccontando questa piccola storia?
Il figlio che aderisce subito alla volontà del padre, ma solo a parole, noi lo conosciamo troppo bene.
Questo figlio superficiale, ipocrita, pigro siamo noi tutte le volte che diciamo: “Sì, o Signore”, ma senza distaccarci minimamente dalle nostre abitudini e dai nostri principi.
Questo figlio siamo noi con il nostro cristianesimo velleitario, parolaio, inconcludente, con il nostro fervore iniziale che subito si esaurisce in una sterile emozione, con tante professioni di buoni sentimenti e tanti alibi al momento di passare alla concretezza del fare.
Quante chiacchiere, per esempio, sulla carità, quante chiacchiere sul fare fraternità e comunità.
Ciò che è grave è il fatto che a furia di dire tante belle parole neppure ci accorgiamo di essere vuoti e mancanti.
Le belle parole ci danno un decoro morale.
Ma è tutta illusione.
Per fortuna non è mai troppo tardi per lasciarci coinvolgere dall’invito di Dio il quale continua a chiamarci a ogni ora della nostra vita.
Poco importa l’ora in cui andremo a lavorare nella vigna.
La sola cosa che conta è di andarci.
Ed ora è il momento di domandarci che cosa rappresenti l’altro figlio, quello che dice no e poi alla vigna ci va.
Ci sono tra noi molti che sembrano lontani dal regno.
Così li abbiamo giudicati.
Del resto, è questa la loro immagine pubblica .
Ma che cosa sappiamo noi della vergogna, del disgusto, della disperazione che ci può essere in una persona?
Che cosa sappiamo noi della sua nostalgia di innocenza e delle sue lacrime?
Ma quello che è nascosto a noi, non è nascosto al Signore.
Egli vede e apprezza questo travaglio interiore che è già un fare.
Il pentimento è già un fare.
Le lacrime sono già degli atti.
Il linguaggio cattolico nomina l’atto di fede, di speranza, di carità e poi l’atto di contrizione.
L’atto di contrizione, questo spezzare dentro di sé la condizione di prima è già un’azione, una creazione nuova, uno slancio che porta dentro i confini del regno.
Un’altra osservazione.
Ci sono quelli che dicono: “Io nel regno di Dio non ci credo”, perché hanno davanti a sè una certa immagine di cristianesimo che è la caricatura del vangelo, ma che poi di fatto si impegnano a difendere e a promuovere i valori del vangelo lavorando per la giustizia, la pace, la fraternità.
Persone che si comportano in questo modo posssiamo conoscerle e incontrarle ogni giorno.
A volte litigano con Dio e con la chiesa, dicono di rifiutare la fede, non sono praticanti e forse anche, dal nostro punto di vista, sono un po’ trasgressive, ma quando c’è gente che ha bisogno sono pronte a entrare nella miseria del prossimo impegnando la mente e il cuore.
Generosamente e silenziosamente.
Sono quelli che a parole dicono no, ma con gli atti dicono sì.
Non dimentichiamo che in quella grande pagina di Matteo in cui viene orchestrata la scena del giudizio finale, la grande distinzione non sarà tra i credenti e i non credenti secondo le appartenenze ufficiali, ma tra chi prova pietà per il povero e chi rimane insensibile.
E’ un destino, questo, che matura per lo più nel segreto, là dove uno è solo, solo con la sua più profonda autenticità.

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