XXIX Domenica del tempo ordinario
Esodo 17, 6-13
Salmo 120
2 Timoteo 3, 14- 4,2
Luca 18, 1-8
“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Queste parole di Gesù vengono spesso citate con una intonazione di lamento da quanti osservano l’affievolirsi del senso religioso e la progressiva secolarizzazione della nostra società.
Come se Gesù alludesse proprio al nostro tempo.
Ma Gesù con questa interrogazione voleva forse semplicemente indicare che la vera fede non è facile.
Certo, c’è una fede facile.
È possibile infatti dire: “Credo in Dio” senza alcun problema.
E’ possibile ancora affermare: “Credo a tutto ciò che la chiesa mi insegna: la creazione, la rivelazione, l’incarnazione, la risurrezione” senza che alcun dubbio venga ad attraversare queste certezze.
Questa è una fede facile, mentre è difficile tentare la vera avventura della fede.
Credere in Dio è un’impresa difficile.
Riconoscere di essere abitati dal mistero di Dio è da vertigine.
Oggi si parla di crisi di fede.
Ma Gesù ne parlava già allora.
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano sui percorsi della propria fede?
Per sapere se abbiamo la fede, bisogna vedere se sappiamo pregare.
Gesù intrattiene i discepoli “sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”.
Ci sono stati cristiani che, nei primi della chiesa, hanno preso alla lettera queste parole e si sono ritirati nella solitudine per poter praticare una preghiera ininterrotta.
Penso a S. Antonio che ha condotto una vita eremitica nel deserto egiziano e a S. Pacomio che invece ha scelto la vita di comunità, sempre nel deserto egizio.
Noi al deserto non ci andremo, certamente, e però, quando ci capita di riflettere sulla necessità di pregare senza interruzione, pensiamo di dover moltiplicare almeno qualche devozione privata.
Ma qui ci troviamo ad affrontare un altro ammonimento di Gesù apparentemente opposto al primo.
“Pregando – ha insegnato Gesù nel Discorso della montagna - non moltiplicate parole come i pagani i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7).
Già il pregare senza interruzione fa problema, perché non riusciamo a capire esattamente quali debbano essere le modalità della nostra preghiera.
Ma ancora più ci mette in crisi la seconda nota richiamata dal vangelo: “senza scoraggiarsi”.
Come è possibile non patire delusioni e stanchezze quando ci si accorge che la nostra preghiera, rivolta verso il cielo con tanta fiducia, ricade su di noi senza avere ottenuto nulla di ciò che avevamo sperato?
Fino a quando dovremmo aspettarci un segno della benevolenza di Dio?
Noi non abbiamo il tempo di aspettare all’infinito, tanto più che viviamo in una cultura la quale ha fatto dell’efficienza e dell’immediatezza le sue note distintive.
La scienza e la tecnica ci hanno portato credere che l’uomo può tutto.
Perché dunque perdere tempo prezioso a pregare, quando la preghiera non serve a nulla ?
Ma la difficoltà maggiore per chi vuole pregare è data dallo scandalo dell’ingiustizia che sta sotto i nostri occhi e che sembra resistere ad ogni forma di preghiera.
Sotto questo profilo la parabola narrata da Gesù è molto espressiva.
In scena c’è una vedova, come poteva essere ai tempi di Gesù.
Una vedova senza assistenza, senza garanzie, senza alcun sostegno giuridico.
Una donna abbandonata alla sua solitudine.
La vedova rappresenta la mancanza, il bisogno, l’assenza.
Di fronte a lei, un giudice senza coscienza che non teme né Dio nè gli uomini.
È una situazione emblematica, che si ripropone anche oggi in forme diverse.
Il compito del giudice dovrebbe essere quello di difendere chi è più debole.
Ma in quella città, come in molte società, l’ingiustizia diventa diritto.
E così capita spesso di vedere che grandi colpevoli sono assolti perché potenti, mentre chi è debole non riesce a farsi riconoscere il proprio sacrosanto diritto.
Quando casi come questi si ripetono, quando sono popoli interi a patire la legge del più forte, lo scandalo è serio.
Don Michele Do, che molti di noi hanno conosciuto come un coraggioso testimone del vangelo, ricordava d’aver raccolto da un contadino questo lamento rivolto a Dio: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Quale risposta ci viene dal vangelo a queste nostre difficoltà sul cammino della fede?
Il vangelo ci dice anzitutto che non bisogna confondere il silenzio di Dio con la sua assenza.
Il silenzio di Dio non è mai vuoto.
Questo silenzio è abitato da una presenza: una presenza non da temere, ma da invocare.
Quando dal fondo della nostra tristezza chiediamo aiuto a qualcuno che sta sopra di noi, non ci rivolgiamo a una divinità capricciosa e arbitraria, ma a un Dio che ama lasciarsi vincere dalla preghiera dell’uomo.
Immergendoci nel mistero dell’amore, proviamo allora un’immensa tenerezza per tutti gli esseri, un desiderio universale di comunione: diventiamo vulnerabili a tutto ciò che tocca l’umanità.
Viene a proposito – credo – la citazione di un vecchio detto latino (si trova in una commedia di Terenzio) che dice: “Niente di ciò che appartiene all’uomo mi è estraneo”
È bello immaginare una solidarietà che si affida alla preghiera: ad una preghiera che coinvolga non solo le nostre facoltà interiori, ma anche il nostro corpo.
Penso alle braccia alzate di Mosè che intercede per i suoi.
Quale storia è quella delle nostre mani! Esse conoscono tutta la nostra vita.
E quando due mani si aprono per pregare, è tutta la santità di una persona che esprime una fiduciosa attesa nei confronti di Dio.
A volte ci capita di avvertire un aiuto inatteso, che ci riempie di stupore.
Non potrebbe essere che qualcuno abbia aperto le mani nel gesto dell’intercessione e che la sua preghiera abbia raggiunto proprio la nostra fragile esistenza sostenendola nel cammino della fede?
Quando sono io a godere di queste invenzioni della grazia, mi piace ripensare alle mani che ho visto protendersi nella condivisione dell’eucaristia e mi è stato concesso di passare dalle mani allo sguardo e dallo sguardo, talvolta, al sorriso.
Pregate sempre, senza stancarvi, ci ha raccomandato Gesù.
Se si è abitati dal mistero di Dio, la preghiera non è più sentita come un dovere, ma acquista la leggerezza e la felicità del respiro.
Nella preghiera due respiri vengono a coincidere, come in un bacio: il respiro nostro, che esprime l’anelito verso il superamento dei limiti dell’esistenza, e il respiro di Dio, il soffio dello Spirito Santo, che è Spirito di amore.
Una tale preghiera, come potrebbe cessare, visto che l’amore non cessa mai?
E saremo testimoni di quella fede che Gesù si ripromette di trovare al suo ritorno.
Non di una fede che si esaurisce nella recita del credo, ma di una fede che sommuove positivamente tutta l’esistenza per un legame nuovo con Dio e con tutte le persone che incontriamo nella luce di Dio.
mercoledì 24 ottobre 2007
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