Luca 17,11-19
In questo racconto, l’elemento narrativo che immediatamente riusciamo a interpretare è senza dubbio il ringraziamento che il samaritano, dopo il miracolo, sente il bisogno di esprimere a Gesù.
Grazie è una piccola parola che però ha una grande forza significativa e creativa.
Tutti i genitori si preoccupano di insegnare ai loro bambini, fin da piccoli, a dire per favore e grazie.
Questo fa parte di una elementare buona educazione.
Ma queste piccole parole sono in realtà cariche di un senso che il bambino deve a poco a poco scoprire.
E il senso è questo.
Dicendo grazie riconosciamo che nessuno di noi può bastare a se stesso.
Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Non potendo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di ricevere e dunque di domandare.
Inoltre, dicendo grazie, riconosco che l’altro si è mostrato benevolo verso di me.
È come dire ad una persona:”Io credo in te. Io spero in te. Io mi sento voluto bene”.
In fondo queste piccole parole, perfino banali a forza di essere usate senza che ci si pensi, esprimono la dimensione sociale dell’essere umano.
Una comunità umana, tanto più una comunità cristiana, si costruisce attraverso queste relazioni, questi incontri in cui ciascuno riconosce i valori più alti e puri dell’esistenza: la capacità di ammirazione, di fiducia, di gratitudine, di gratuità nel praticare l’amore.
E’ importante dire grazie perché questo è il modo migliore per intuire che tutto è grazia, per risalire a colui che, come Padre, è sempre il primo a donare, a perdonare, ad amare.
Grazie, come diceva Raimondo Lullo, un mistico del XIII secolo, per il semplice fatto che esiste come Padre: “La mia mia gioia e la mia allegrezza vengono dal pensiero che tu esisti”.
Oggi Gesù ci invita a ricordarci di questo nella nostra relazione con Dio.
I dieci lebbrosi sono venuti da lui riconoscendo in lui un maestro, un inviato da Dio.
Ed essi osano chiedere a lui ciò che nessun uomo avrebbe potuto dare in quel tempo: la guarigione dalla lebbra.
Chiedono un favore che supera le forze umane.
In verità è a Dio che si rivolgono, attraverso Gesù.
Ma uno solo ritorna sui suoi passi, a dire grazie.
“E gli altri nove , dove sono?” si chiede Gesù.
C’è forse nelle sue parole una nota, umanissima, di delusione.
Non dimentichiamo che Gesù era in cammino verso Gerusalemme dove sarebbe stato condannato a morire sulla croce.
Perché non pensare che anche lui sentisse il bisogno di essere consolato dalla gratitudine delle persone che andava beneficando?
Anche i consolatori hanno bisogno di essere consolati, anche Dio.
Ma forse la ragione della tristezza di Gesù va cercata altrove.
In fondo, a lui sarebbe bastato il grazie di uno solo.
Se si è rammaricato, era per il fatto che gli altri nove si fossero accontentati della guarigione privandosi della impareggiabile felicità di dire grazie.
Chi si dimostra incapace di ringraziare, non fa un torto al benefattore, ma principalmente a se stesso.
Purtroppo c’è molta gente che ha perso l’abitudine, sempre che l’abbia avuta prima, di ringraziare.
Come se tutto fosse dovuto.
C’è da aver paura di certe persone (e ciascuno di noi ricorda d’aver fatto qualche conoscenza di questo genere) che non sanno mai dire grazie.
“Un cane riconoscente vale meglio di un uomo ingrato”, dice un proverbio.
Ma non vogliamo rattristarci più del necessario osservando la meschinità di certi comportamenti.
Riprendiamo il racconto del vangelo e dimenticando i nove che non sono tornati (forse si immaginavano di avere diritto alla guarigione perché giudei), guardiamo al samaritano, che è l’unico che sente il bisogno di dire grazie.
Questo straniero è l’unico che riconosce che la sua guarigione è un dono gratuito della bontà del Signore.
Era venuto con tutta la sua povertà a chiedere,ritorna con tutta la sua gratitudine per riconoscere che Dio ha risposto alla sua domanda.
“Mi piace immaginare (utilizzo qui una suggestiva immaginazione di A. Pronzato) che quell’uno, di fronte alla amarezza manifestata da Gesù, abbia detto: “Ma io vengo a nome di tutti… Hanno incaricato me di esprimere la riconoscenza”.
Lo so che non sta scritto nel vangelo.
Ritengo tuttavia che non sia proibito inventare qualcosa.
Anche perché la parte dell’uno che rende grazie a nome di tutti la posso pur sempre assumere io…
Però mi piacerebbe che tutti, anche quelli che non hanno il dono della fede, sentissero qualche volta, magari contemplando un tramonto, il bisogno di dire grazie a qualcuno che non conoscono ancora”.
E’ quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie. Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Qualche volta mi sorprendo a pensare (è ancora A. Pronzato che così si confida) che la fede potrebbe cominciare con un “grazie” appena sussurrato timidamente, pur senza un destinatario preciso, e la preghiera potrebbe nascere semplicemente dal bisogno di dire grazie a qualcuno (la lettera maiuscola, non c’è fretta, verrà messa dopo…),
In questo racconto, l’elemento narrativo che immediatamente riusciamo a interpretare è senza dubbio il ringraziamento che il samaritano, dopo il miracolo, sente il bisogno di esprimere a Gesù.
Grazie è una piccola parola che però ha una grande forza significativa e creativa.
Tutti i genitori si preoccupano di insegnare ai loro bambini, fin da piccoli, a dire per favore e grazie.
Questo fa parte di una elementare buona educazione.
Ma queste piccole parole sono in realtà cariche di un senso che il bambino deve a poco a poco scoprire.
E il senso è questo.
Dicendo grazie riconosciamo che nessuno di noi può bastare a se stesso.
Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Non potendo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di ricevere e dunque di domandare.
Inoltre, dicendo grazie, riconosco che l’altro si è mostrato benevolo verso di me.
È come dire ad una persona:”Io credo in te. Io spero in te. Io mi sento voluto bene”.
In fondo queste piccole parole, perfino banali a forza di essere usate senza che ci si pensi, esprimono la dimensione sociale dell’essere umano.
Una comunità umana, tanto più una comunità cristiana, si costruisce attraverso queste relazioni, questi incontri in cui ciascuno riconosce i valori più alti e puri dell’esistenza: la capacità di ammirazione, di fiducia, di gratitudine, di gratuità nel praticare l’amore.
E’ importante dire grazie perché questo è il modo migliore per intuire che tutto è grazia, per risalire a colui che, come Padre, è sempre il primo a donare, a perdonare, ad amare.
Grazie, come diceva Raimondo Lullo, un mistico del XIII secolo, per il semplice fatto che esiste come Padre: “La mia mia gioia e la mia allegrezza vengono dal pensiero che tu esisti”.
Oggi Gesù ci invita a ricordarci di questo nella nostra relazione con Dio.
I dieci lebbrosi sono venuti da lui riconoscendo in lui un maestro, un inviato da Dio.
Ed essi osano chiedere a lui ciò che nessun uomo avrebbe potuto dare in quel tempo: la guarigione dalla lebbra.
Chiedono un favore che supera le forze umane.
In verità è a Dio che si rivolgono, attraverso Gesù.
Ma uno solo ritorna sui suoi passi, a dire grazie.
“E gli altri nove , dove sono?” si chiede Gesù.
C’è forse nelle sue parole una nota, umanissima, di delusione.
Non dimentichiamo che Gesù era in cammino verso Gerusalemme dove sarebbe stato condannato a morire sulla croce.
Perché non pensare che anche lui sentisse il bisogno di essere consolato dalla gratitudine delle persone che andava beneficando?
Anche i consolatori hanno bisogno di essere consolati, anche Dio.
Ma forse la ragione della tristezza di Gesù va cercata altrove.
In fondo, a lui sarebbe bastato il grazie di uno solo.
Se si è rammaricato, era per il fatto che gli altri nove si fossero accontentati della guarigione privandosi della impareggiabile felicità di dire grazie.
Chi si dimostra incapace di ringraziare, non fa un torto al benefattore, ma principalmente a se stesso.
Purtroppo c’è molta gente che ha perso l’abitudine, sempre che l’abbia avuta prima, di ringraziare.
Come se tutto fosse dovuto.
C’è da aver paura di certe persone (e ciascuno di noi ricorda d’aver fatto qualche conoscenza di questo genere) che non sanno mai dire grazie.
“Un cane riconoscente vale meglio di un uomo ingrato”, dice un proverbio.
Ma non vogliamo rattristarci più del necessario osservando la meschinità di certi comportamenti.
Riprendiamo il racconto del vangelo e dimenticando i nove che non sono tornati (forse si immaginavano di avere diritto alla guarigione perché giudei), guardiamo al samaritano, che è l’unico che sente il bisogno di dire grazie.
Questo straniero è l’unico che riconosce che la sua guarigione è un dono gratuito della bontà del Signore.
Era venuto con tutta la sua povertà a chiedere,ritorna con tutta la sua gratitudine per riconoscere che Dio ha risposto alla sua domanda.
“Mi piace immaginare (utilizzo qui una suggestiva immaginazione di A. Pronzato) che quell’uno, di fronte alla amarezza manifestata da Gesù, abbia detto: “Ma io vengo a nome di tutti… Hanno incaricato me di esprimere la riconoscenza”.
Lo so che non sta scritto nel vangelo.
Ritengo tuttavia che non sia proibito inventare qualcosa.
Anche perché la parte dell’uno che rende grazie a nome di tutti la posso pur sempre assumere io…
Però mi piacerebbe che tutti, anche quelli che non hanno il dono della fede, sentissero qualche volta, magari contemplando un tramonto, il bisogno di dire grazie a qualcuno che non conoscono ancora”.
E’ quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie. Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Qualche volta mi sorprendo a pensare (è ancora A. Pronzato che così si confida) che la fede potrebbe cominciare con un “grazie” appena sussurrato timidamente, pur senza un destinatario preciso, e la preghiera potrebbe nascere semplicemente dal bisogno di dire grazie a qualcuno (la lettera maiuscola, non c’è fretta, verrà messa dopo…),
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