sabato 6 ottobre 2007

XXVII Domenica del tempo ordinario


Luca 17, 5-10

“Aumenta la nostra fede”
E’ meravigliosa questa preghiera.
Pregare perché si accresca in noi la fede vuol dire riconoscere che la fede è un dono e che questo dono non può mai diventare un possesso definitivo, ma ha sempre bisogno di essere rinnovato.
Non si finirebbe di fare l’elogio di questa preghiera.
Eppure, così come è formulata, questa preghiera può nascondere qualche sottinteso che va corretto.
E questo lo diciamo per due motivi.
Il primo motivo sta nel verbo “aumenta”.
È un verbo che suggerisce una dimensione quantitativa, quindi misurabile, accertabile.
Ma la fede non si può misurare.
Si possono misurare i fenomeni religiosi: le devozioni, le vocazioni al sacerdozio, i battesimi amministrati in una parrocchia, le bibbie vendute in un anno…
Ma qui siamo nel campo della religione, non ancora della fede.
Fede e religione non coincidono.
Basti pensare che ci può essere una pratica religiosa non sostenuta dalla fede.
C’è poi un secondo possibile sottinteso da correggere.
Se la fede è misurabile, allora può nascere la presunzione che ci porta a
dire: “Io ho la fede”.
Ma nessuno può dire: “Io ho la fede”.
Noi non siamo possessori. Siamo, modestamente, dei cercatori.
Non siamo degli “arrivati”; siamo dei partenti, dei principianti.
Certo, noi ameremmo vivere di certezze, avere risposte sicure per ogni problema.
Sulla porta di una chiesa ho trovato questa scritta: “Vieni! Qui troverai le risposte”.
Ma la vera fede non consiste nel possedere certezze.
Il cristiano non è l’uomo dei punti esclamativi, ma è l’uomo dei punti interrogativi, della interrogazione incessante.
In questa direzione ci orientano le parole stesse di Gesù: “Se aveste fede quanto un granellino di senape…”.
Gli apostoli chiedono una fede visibile, Gesù fa capire che la vera fede appartiene a un altro ordine, a quello delle cose invisibili.
Il granellino di senapa era considerato come il più piccolo di tutti i semi: così minuscolo che proverbialmente designava tutto ciò che è pressoché imprendibile.
Con questa immagine Gesù voleva far capire che la fede è significata più dalla mancanza che dalla pienezza.
La fede è come una fiamma discreta che ti accende lo sguardo, una piccola musica che risuona nel tuo cuore.
Chi si accorge? La fede ha la leggerezza di un bambino.
Noi abbiamo per lo più la mentalità dell’uomo adulto.
E l’uomo adulto è colui che è portato a calcolare, ad addizionare, ad accumulare.
Perciò l’uomo adulto preferisce la religione alla fede.
Perché la religione – lo si diceva già prima - si può quantificare (“Ho ascoltato tutte le messe di precetto, ho fatto la carità che dovevo, ho rispettato tutti i primi nove venerdì del mese….”), mentre la fede si sottrae ad ogni calcolo.
Leggera è la fede, è un niente di cui non ci possiamo gloriare.
Ma quando c’è questo niente, quale forza è capace di esprimere: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”.
L’immagine usata da Gesù è senza dubbio strana: che senso ha vedere un albero trapiantato nel mare?
Ma ho trovato una spiegazione che mi ha reso luminosa questa parabola.
“Questo albero sono io. Questo albero è ciascuno di noi…
Sradicato dalla fede, strappato alla terra delle evidenze troppo marcate, dei recinti da sempre frequentati, l’albero si pianta nel mare, simbolo dell’immenso.
La fede mi consegna all’infinito del mistero di Dio”(Bernard Feillet).
Volendo dare a questa intuizione un’articolazione più concreta,
potremmo dire che la fede ha il potere di strapparmi alle abitudini profondamente radicate nella mia vita, abitudini che portano ad assecondare i ricatti dell’egoismo, i pregiudizi, le resistenze quando si tratta di praticare l’accoglienza, di perdonare, di amare…
La fede, dopo aver vinto queste resistenze, ci immerge nell’oceano immenso della pietà di Dio, nella straripante immensità del suo amore.
E se, in questa opera di conversione, ci pare di aver ottenuto qualche risultato significativo, soprattutto in ordine ai grandi valori della riconciliazione e della fraternità, se, ad esempio, siamo riusciti a perdonare le offese, a dimenticare i torti ricevuti, a rispondere alla violenza con la dolcezza, dobbiamo essere pronti non a vantarci, ma a dire: “Siamo servitori inutili”.
Di che cosa possiamo vantarci, quando ci muoviamo nell’ordine della grazia?
Tutto è grazia, tutto è dono di Dio.
Purtroppo nella chiesa sono ancora molte le persone malate di protagonismo, convinte della propria insostituibilità, sempre pronte a ricordare a tutti i propri meriti.
Persone ingombranti e persino indisponenti per la loro smania di voler apparire.
Gesù ama invece le persone leggere, che si prendono alla leggera, che sanno un poco volare al di sopra gli altri, senza rendersi conto, come Francesco che in certi momenti sentiva il bisogno di cantare e di danzare.
Un proverbio scozzese dice: “Gli angeli sanno volare perché prendono se stessi alla leggera”.
“Siamo servi inutili” dobbiamo ripeterci.
E, come chiesa, siamo “una banda di buoni a nulla” (Maillot).
Questo lo diciamo non per deprimerci, ma per gioire del fatto che, nonostante tutto, Dio vuole avere bisogno di noi.
Un giorno ci accoglierà forse con queste parole: “Venite a me, voi, buoni a nulla!”
Ma lo dirà con un sorriso, con tutta la simpatia riservata a chi non si vanta di nulla, ma si presenta con la povertà dei propri mezzi e con la ricchezza della propria fiducia.

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