Matteo 7, 21-27
Il vangelo ci invita oggi a riflettere sulla conclusione del discorso sulla montagna.
In questa parte conclusiva Gesù precisa i tratti fondamentali che permettono di definire l’appartenenza al suo regno.
E’ perciò estremamente importante per noi ascoltare le parole di Gesù per saper affrontare la domanda che ci deve stare particolarmente a cuore: “Posso dire di avere preso la strada buona, quella che mi porta a costruire qualcosa di solido e di duraturo?
Posso sperare che tutto ciò che mi sta appassionando in questa vita ( le amicizie, gli affetti più cari, gli slanci del cuore verso la bellezza e la verità) non sia destinato a essere eroso e inghiottito dentro il vastissimo oceano del nulla eterno?”.
La parola di Gesù è severa e ci obbliga a un rigoroso esame di di coscienza.
Si tratta di fare opera di discernimento per non lasciarci ingannare credendoci giusti quando invece ci si trova nell’errore.
“Non chi dice: Signore, Signore…”
Gesù non denuncia qui il fatto di coltivare una preghiera ripetitiva (del resto, come avrebbe potuto, lui che passava notti intere in preghiera, con il nome del Padre sulle labbra?).
Soltanto voleva farci capire che questo non basta.
Essere fedeli alla messa domenicale, dedicare molto tempo alla preghiera, praticare devozioni di ogni sorta e credere che, dopo aver dato tanto tempo a Dio noi siamo buoni cristiani, rischia di essere una pericolosa illusione.
Conosciamo tutti persone che hanno smesso di frequentare la chiesa con il pretesto che quelli che abitualmente ci vanno non sono migliori degli altri.
E’ un pretesto, senza dubbio, che talvolta serve a mascherare una certa pigrizia spirituale.
E tuttavia, c’è qualcosa di vero in questa osservazione.
E’ precisamente quello che Gesù vuole farci capire:”Pregate, - ci dice- , pregate senza interruzione, ma non dimenticate di verificare la qualità della vostra preghiera nella vostra vita di tutti i giorni.
Non ci sia nessuna separazione tra la vostra pratica religiosa, da una parte, e la vostra vita quotidiana dall’altra”.
Il che vuol dire, in altre parole, che non sarà la lunghezza o il fervore delle nostre preghiere a costituire l’elemento decisivo della nostra appartenenza al regno.
Sarà allora l’efficacia delle cose che facciamo, delle azioni che compiamo?
Anche in questo campo le apparenze sono spesso ingannevoli.
Ci possono essere nella comunità profeti che in realtà sono falsi profeti.
Al tempo della stesura del vangelo di Matteo, c’erano gruppi di cristiani un po’esaltati alcnni dei quali si atteggiavano a profeti, altri si vantavano di saper cacciare i demoni con i loro esorcismi, altri ancora pretendevano di saper compiere miracoli.
Su di essi nel giorno del giudizio pioverà una sentenza tanto dura quanto inaspettata: “Non vi ho mai conosciuti”.
Come è possibile allora che il Signore ci riconosca nel giorno del giudizio come suoi discepoli? Ciò che conta, lo ha detto chiaramente Gesù, è fare là volontà del Padre, cioè amare, perché Dio è amore.
Questa per Gesù è la cosa più importante, tanto da inserirla come invocazione nel “Padre nostro”: “Padre, sia fatta la tua volontà”.
Riprendiamo la domanda iniziale: “Possiamo dire di essere sulla buona strada per essere riconosciuti come operatori di un bene destinato a durare per sempre?”.
La risposta l’abbiamo trovata nel vangelo.
Dio non ci riconosce in quanto persone pie, devote, osservanti e neppure come persone che godano di un certo prestigio per il ruolo che svolgono nella chiesa, ma come uomini e donne di grande carità e pietà.
Sembra quasi di poter dire che non è la chiesa il luogo dove preferibilmente ama riconoscerci, ma sono i luoghi della sofferenza, della fame, del bisogno, della emarginazione.
A me piace immaginare questa scena nel giorno del giudizio.
“Ah, quello lo conosco” dirà Gesù indicando qualcuno della nostra comunità, e quasi a prevenire ogni possibile obiezione si affretterà ad aggiungere: “Sì, lo conosco, perché l’ho visto accanto al letto di un ammalato, l’ho seguito mentre andava a tenere compagnia a un vecchio, l’ho presente perché ha dato lavoro a un immigrato”.
Queste sono le cose che maggiormente rimangono impresse nella memoria del nostro Dio.
C’è un’ultima osservazione da fare.
Per conoscere la volontà del Padre bisogna rimanere in ascolto della sua parola.
Occorre quindi molta capacità di ascolto e, perciò, anche molto silenzio.
E’ nel silenzio della nostra interiorità che la sua voce ci raggiunge.
Allora si comprende che non è una volontà che faccia paura, quasi fosse un volere tirannico che ci domina, ma è come una sorgente di amore che scaturisce nella profondità del nostro essere e ci inonda di gioia e di tenerezza.
Se ci si lascia amare dal Padre, non c’è più bisogno di domandarsi che cosa fare per interpretare la sua volontà.
Identificati a colui che è amore immenso, si diventa dolci, pazienti e soprattutto misericordiosi, portando l’immagine di Dio riflessa nella nostra vita.
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