domenica 29 giugno 2008

XII Domenica del tempo ordinario


Matteo 10, 26-33

“Non temete!”; “Non abbiate paura!”
Sono tante le ragioni per essere preoccupati e inquieti.
Possiamo dire che la paura è un elemento costitutivo del nostro esistere.
Di che cosa abbiamo normalmente paura?
Ci sono paure legate alle nostre vicende personali, sempre esposte alla legge della precarietà.
Ci sono tempi in cui non ci si rende conto, ma poi arriva il momento in cui si è costretti a prendere coscienza di certi aspetti angosciosi della nostra esistenza.
Penso a ciò che si narra di Siddharta, il piccolo principe che poi sarebbe diventato Budda, il “risvegliato” .
Passa la prima parte della sua giovinezza dentro le mura di un castello principesco, al riparo da ogni immagine che potesse turbare la serenità, ma poi arriva un giorno in cui, varcato il recinto protettivo, si imbatte nella povertà, nella sofferenza, nella vecchiaia, nella morte.
Ci sono poi altre paure, legate, queste, a momenti di crisi che riguardano la vita di tutta la collettività: crisi economiche, finanziarie, tensioni politiche, per cui si moltiplicano altre paure particolari: c’è chi ha paura di perdere il lavoro, chi ha paura di non riuscire a pagarsi il mutuo per la casa ( il problema della casa è stato richiamato con forza proprio in questi giorni dal nostro arcivescovo nella sua ultima lettera pastorale), c’è chi teme la presenza di immigrati clandestini o, peggio, le minacce lanciate dalle centrali del terrorismo internazionale.
Ma Gesù nel vangelo insiste oggi su una paura che non è tra quelle che abbiamo ricordato.
Gesù, fin dalla fanciullezza, aveva avuto modo di entrare in relazione con le grandi figure dei profeti, come Geremia, che erano stati duramente perseguitati per la loro fedeltà alla parola di Dio.
E quando ha iniziato la sua missione messianica, sapeva certamente quali resistenze avrebbe dovuto incontrare.
Anche noi, come discepoli di Cristo, dovremmo sapere che la condizione del credente è sempre vulnerabile e passibile di ogni violenza.
O forse siamo così ingenui da pensare che si possa essere cristiani senza dover soffrire per la propria fede?
In un mondo dove ciò che conta è sopravanzare, riuscire, essere competitivi, la sofferenza per il credente è inevitabile..
E possibile che un uomo politico o un imprenditore non debba soffrire nulla per la propria fede quando si trova a misurarsi con un mondo corrotto, governato da una competizione violenta e spregiudicata.
E anche il comune credente, è possibile che non debba patire nulla per la propria fede?
Certo, se si limitasse a praticarla come un fatto privato, nel segreto della coscienza o dentro gli spazi devozionali, può essere che non patisca alcuna forma di disagio.
Ma se il problema è quello di testimoniare, come hanno fatto i discepoli una volta usciti dal cenacolo, è inevitabile incontrare opposizioni e persecuzioni.
”Quello che dico nelle tenebre, ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio, predicatelo sui tetti”, ci dice oggi Gesù.
Non è questione di forzare la voce (in certe occasioni il silenzio è più forte della parola), ma è questione di coraggio, di coerenza, di fedeltà, di fiducia.
Che cosa accadrebbe se dovessimo professare la nostra fede non in un Dio qualsiasi (questo non farebbe impressione), ma nel Dio di Gesù, venuto in mezzo a noi a servire?
Che cosa accadrebbe se dovessimo dimostrare di credere apertamente nelle beatitudini, nella croce di Cristo, nella sua risurrezione, nella vita eterna?
Dire che si corre il rischio di perdere la vita non è un’espressione enfatica.
Basti pensare alla sorte toccata a tanti testimoni del vangelo là dove la società è governata dalle leggi crudeli della mafia o della camorra.
Gesù non ci promette una vita facile, protetta, al riparo da ogni sofferenza.
Gesù ci promette la pace che può rimanere anche nel cuore delle prove più dolorose.
C‘è un Padre, ci dice Gesù: “Il Padre vostro”.
Un Padre che non dimentica nessuno.
Un Padre dalla tenerezza materna a cui sta a cuore la nostra vita più di quanto ci sia dato immaginare.
Per questo ci invita a non avere paura, ad avere fiducia.
Se Dio è accanto a noi come Padre, perché si dovrebbe temere?
Il cristiano può avere il volto segnato dalla sofferenza ma porta dentro, inattaccabile, la pace di chi si sente consegnato come un bambino tra le braccia del padre.
Se possediamo questa fede, siamo pronti anche a credere alle altre parole di Gesù riportate nel testo del vangelo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima.
Temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna.”
“Non hanno il potere di uccidere l’anima” : che cosa è dunque l’anima?
L’anima è l’io profondo di una persona, è la sua dignità inalienabile, è la sua libertà, è la speranza ultima del suo cammino.
L’anima è tutto ciò che appartiene non agli uomini ma a Dio.
Perciò, se tutta la nostra fiducia è in Dio, si può essere certi che nessuno ha il potere di strapparci l’anima.
A questo proposito non posso non ricordare quello che un amico prete, don Michele Do, amava ripetere:”Cedete tutto, ma non cedete mai la vostra anima! Tutto, ma l’anima, mai!”.
E' un ammonimento che ci fa capire come, se è vero che nessuno ha il potere di uccidere la nostra anima, può essere che siamo noi a barattare la nostra anima in cambio di qualche favore immediato.
I persecutori oggi si sono, come dire?, civilizzati.
Alle minacce preferiscono le lusinghe:
“Invece di mettere in carcere i discepoli di Gesù, li invitano sui palchi mondani, se li contendono nei salotti televisivi, li considerano ospiti d’onore riveriti ai ricevimenti ufficiali, insostituibili personaggi decorativi nelle cerimonie folcloristiche” (Pronzato).
E’ chiaro che quando sono in gioco applausi, soldi, potere, poltrone, la difesa della propria anima diventa un problema secondario.
Vale la pena perciò di richiamare, con forza, l’ammonimento che già abbiamo ricordato: “Cedete tutto, ma l’anima, mai!!”
Perché altrimenti vorrebbe dire rinunciare al bene più prezioso che abbiamo.
E non per colpa altrui, ma unicamente per colpa della nostra stoltezza e cecità.

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