giovedì 12 giugno 2008

X Domenica del tempo ordinario


Matteo 9, 9-13

Il vangelo ci parla di una nascita.
Uso questo termine perché mi pare che l’incontro con Gesù abbia segnato per Matteo un’esistenza radicalmente nuova, come un venire alla luce, un inizio di cui non avrebbe potuto immaginare gli sviluppi.
Di Socrate si diceva che esercitava sui discepoli l’arte della maieutica, l’arte di sua madre che era ostetrica. Si trattava per lui di portare alla luce della consapevolezza la verità nascosta nel mondo interiore dei suoi ascoltatori.
Gesù si riserva un compito ancor più creativo.
Non aiuta soltanto a trovare ciò che è nascosto, ma inventa qualcosa che ancora non esiste, una prospettiva di vita totalmente inedita, una identità nel suo primo formarsi e fiorire quale è quella del bambino che ha appena lasciato il caldo grembo della madre.
Non si finisce di provare stupore per tutte queste invenzioni di vita che Gesù va disseminando ad ogni suo passaggio.
Le sue parole hanno la freschezza della novità e dell’autenticità.
I suoi inviti arrivano al cuore e vi lasciano un turbamento profondo, come un appello a tentare un’esperienza radicalmente nuova.
E’ quello che il vangelo ci fa’intuire attraverso il breve racconto della vocazione di Matteo.
Matteo, raggiunto dallo sguardo e dall’invito di Gesù, “si alzò e lo seguì”.
In questi due verbi si avverte il trascorrere di una novità che sa di risveglio, di risurrezione, di abbandono fiducioso a una parola colma di sorprendente benevolenza e amicizia.
Segue il banchetto, che è come la celebrazione di una nuova nascita.
E le parole di Gesù fanno rimarcare ancora di più il senso di quell’evento che era per tutti motivo di imbarazzante stupore: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.
Che cosa voleva dire Gesù?
Tento di suggerire una possibile spiegazione.
I sani sono quelli che presumono di avere una identità solida, compatta, non incrinata da alcuna fragilità o perplessità.
Se si dicesse a qualcuna di queste persone: “Tu devi nascere di nuovo; hai bisogno di abbandonare le tue sicurezze, i tuoi schemi mentali, i tuoi comportamenti abituali per inventare nuovi pensieri, nuovi sentimenti, nuove speranze”, si potrebbe facilmente immaginare la risposta:
“Perché dovrei cambiare? Non ne sento proprio la necessità.
Sto così bene nella mia pelle, con l’immagine che ho di me stesso, con quello che mi ritrovo a vivere”.
In casi come questo anche Gesù non può creare nulla perchè ha davanti a sè un’identità solida, compatta, che non lascia alcuna breccia all’irruzione di qualcosa d’altro, a quello spirito di vita che Gesù vorrebbe comunicare.
La conversione dei buoni tutto il vangelo ce lo fa capire è estremamente difficile.
Ben diversa sarebbe la situazione di chi dovesse ogni tanto domandarsi, con grande umiltà:
“Qual è la mia vera identità che mi sto costruendo da trenta, quaranta o da più di sessant’anni?
Che tipo di uomo o di donna ho impersonato finora?
Perché c’è in me tanta durezza e tanta presunzione?
Cosa spero di ottenere con questo egocentrismo che mi assilla continuamente, con questo morboso attaccamento alla mia immagine, con questa esasperata ricerca del successo?
Solo se si riconosce di essere interiormente malati, si può essere aperti all’azione vivificante il Cristo.
Nel salmo 34 leggiamo queste parole: “Il Signore è vicino a chi ha il cuoce ferito, egli salva gli spiriti affranti”.
Solo l’uomo che si sente affranto, cioè franto, frantumato, ferito, può aprirsi alle invenzioni dell’amore di Cristo.
Ecco perché nelle beatitudini si legge che beati sono gli afflitti, i poveri.
Qualcuno potrebbe obiettare che Matteo in realtà non era per nulla povero, anzi, come pubblicano, esattore delle imposte per conto del potere romano, doveva godere di un benessere invidiabile.
Come ha fatto Gesù a scegliere proprio lui?
Certo è sorprendente la libertà con cui Gesù ha costituito il gruppo dei discepoli, fino a sfidare il cosiddetto buon senso.
Accanto a un collaborazionista come Matteo troviamo uno zelota, Simone, appartenente cioè al mondo della resistenza.
Gesù non tiene conto di questi dati esteriori perché ben più importante per lui è l’appartenenza al mondo dei malati o a quello dei sani.
Io credo che anche Matteo si sia posto le domande che abbiamo visto come fondamentali per riconoscere la propria verità interore.
Mentre tutti lo ritenevano una persona felice (come non pensarlo, visto che era così ricco?), lui doveva avvertire la precarietà della sua condizione, la povertà dei suoi ideali, l’aridità di un’esistenza chiusa in se stessa, senza amicizie e senza capacità di donazione.
Matteo ha preso coscienza di questa sua condizione di creatura malata e quando è stato avvicinato da Gesù ha sentito immediatamente l’impulso di alzarsi, di lasciare tutto per tentare con lui un’avventura ben più esaltante di quella legata al mondo del guadagno: un’avventura in cui avrebbe potuto vedere il mondo con occhi nuovi perché qualcuno gli aveva messo dentro un cuore nuovo, capace di lasciarsi amare e di amare.
Che cosa può suggerire a noi questa riflessione?
A me pare che i suggerimenti fondamentali siano due.
Perché si possa provare lo stupore per una vita totalmente nuova, bisogna che ciascuno disarmi le proprie sicurezze, soprattutto la pretesa di avere sempre ragione, prenda coscienza della propria precarietà, si faccia umile mendicante di amore e di felicità.
La seconda osservazione è strettamente legata alla prima.
Abbiamo detto che Gesù aveva questo grande dono: di infondere energie vitali in ogni essere che incontrava.
Ora questo privilegio l’ha affidato a ciascuno di noi.
Dobbiamo perciò essere grati a chi, accanto a noi (penso in particolare a quello che può essere realizzato nella vita di coppia), svolge questa azione in nome di Cristo, a chi ci comunica quotidianamente fiducia e simpatia, a chi accarezza la nostra debolezza come si accarezza un bambino appena nato, con la stessa delicatezza e premura, con lo stesso amore che ci porta a dire segretamente:”No, tu non conoscerai la morte. Voglio che tu viva. Lo voglio: devi vivere!”.

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