domenica 24 febbraio 2008

III Domenica di quaresima


Esodo 34, 4-10
Salmo 105
Galati 3, 6-14
Giovannoi 8, 31-59

Le letture presentano due tipi di esistenza.
Il primo, visto come modello negativo, è interpretato dai Giudei di cui si parla nel vangelo.
I Giudei incarnano un’esistenza bloccata, raggrinzita, accartocciata in certi schemi di comportamento, incapace di accogliere la novità rappresentata da Cristo.
Per usare un’espressione che si trova nella prima lettura, sono uomini di “dura cervice”, gente dal collo duro.
Come spiegare questo atteggiamento?
È un atteggiamento che nasce dalla paura.
I Giudei, di fronte a Gesù, hanno paura, anche se ostentano una grande sicurezza: “Noi siamo discendenza di Abramo”.
Gesù ai loro occhi rappresenta una provocazione , una minaccia: è il diverso, colui che con la sua parola li mette in crisi, li obbliga a rivedere le loro posizioni, ad affrontare il problema religioso in termini nuovi.
Se essi, come credono, conoscono la verità, dovrebbero sentirsi liberi.
“La verità vi farà liberi” dice loro Gesù.
Ma essi non sono liberi perché della verità hanno fattto un possesso orgoglioso da difendere gelosamente, non uu’avventura da vivere lungo i sentieri della ricerca, dell’interrogazione, dell’ascolto.
Trovo meravigliosa questa osservazione affidata a una specie di distico: “Verità per i nostri piedi / verità che si possano danzare”.
L’autore, Jean Sulivan, ha pensato a verità dinamiche, leggere, in cammino, sottratte alla pesantezza del possesso.
Quando Gesù ha detto: “La verità vi farà liberi”, deve aver pensato anche lui a una verità danzante, non catturabile da nessuno, ma disponibile per tutti coloro che la vogliano cercare.
Questa verità del resto la conosceva molto bene, perché faceva corpo con lui (“Io sono la verità” ha detto un giorno) e camminava perciò con i suoi passi su tutte le strade dove lo portava la sua straordinaria passione di comunicare.
Ma succede purtroppo anche oggi che chi si sente minacciato nella propria sicurezza reagisca violentemente di fronte a questa verità libera e liberante.
I Giudei passano dall’aggressività verbale a quella fisica: “Raccolsero pietre per scagliarle contro di lui”.
Quando vedi qualcuno che si ritiene in possesso della verità (tanto più se si tratta di una verità “religiosa”), guardagli la mano: facilmente nasconde un sasso.
E il sasso può essere, di volta in volta, il disprezzo, la commiserazione o la denuncia. “Tu non sei cristiano. Tu sei protestante, tu sei marxista, tu sei comunista, tu sei eretico”.
Dio ci scampi dagli intolleranti e dai fanatici che hanno fatto della loro fede un’armatura ideologica e un tiro al bersaglio.
Forse non c’è nulla che spinga di più all’ateismo dell’arroganza di certi credenti o di certi atei devoti che oggi si presentano come intransigenti difensori dei valori del vangelo atteggiandosi a maestri, quando invece bisognerebbe sentirsi tutti umili discepoli.
Abbiamo visto finora un modello di esistenza, quello dei Giudei, governato dalla paura e dalla violenza.
C’è un altro modello, questo positivo, interpretato da Abramo e soprattutto da Gesù.
Anche Gesù avverte un profondo turbamento quando si trova davanti ai Giudei. ma la sua situazione di disagio è ben diversa da quella patita dai suoi avversari.
È la tristezza di chi vorrebbe essere accolto e amato, mentre s’accorge che nessuno è disposto “a dare ascolto alle sue parole”.
L’esperienza ci dice che questa è la sofferenza più insondabile e più distruttiva.
Quando chi ti sta vicino (penso a quello che spesso succede nella vita di coppia) non ti comprende per quello che sei veramente, nella profondità della tua anima, è come sentirsi morire.
Tu vivi, e al tempo stesso hai la sensazione di non esistere più.
Ma Gesù rivela un segreto che gli permette di superare questo sconforto.
Dio, quel Dio che anche i Giudei adoravano, lo sente vicino come Padre, pieno di attenzione e di compresione.
Ci si accorge che Gesù, tutte le volte che parla del Padre, si intenerisce.
Il Padre è tutto per lui: è il suo pensiero, la sua fiducia, la sua pace, la sua speranza.
E si sente talmente unito al Padre da pronunciare queste parole ultime che i Giudei considerano come blasfeme: “Prima che Abramo fosse, io sono”.
Chi potrebbe pronunciare queste parole se non Dio?
Le può pronunciare anche Gesù, perché Gesù dimora nell’”Io sono”di Dio, nel giorno incorruttibile che non ha fine.
E’ vivendo di questa certezza che Gesù può affrontare l’opposizione dei Giudei e poi la croce.
In questo “Io sono" di Dio hanno dimorato e dimorano tutti i testimoni della fede, da Abramo fino alle persone più vicine, famigliari e amici, che ci hanno educato alla conoscenza di Gesù e del suo vangelo.
Di questo amore al vangelo di Gesù vorrei offrire la testimonianza di un amico, don Michele Do, che un giorno ci ha fatto questa confidenza, che trovo bellissima:
“Ecco, io sono l’uomo dei dubbi e non esorcizzo i dubbi; li tengo e cerco faticosamente e lentamente, man mano, di chiarirli, di lasciare che emerga un po’di luce.
Ho, dunque, tanti dubbi, ma ho una sicurezza; se devo affidarmi a una zattera, in questa traversata, questa è la zattera dell’evangelo.
Sento infatti con una sicurezza assoluta che l’immagine che Gesù ci ha dato di Dio, dell’uomo e del destino dell’uomo, chiamato a diventare uno con Dio e in Dio, è la più alta, la più nobile, la più affascinante avventura che si possa immaginare.
E’ l’unica immagine, io dico, meritevole di essere vera.
Mi dico: “Tienti saldo”.Se dovessi inabissarmi voglio farlo aggrappato a questa zattera evangelica come un nodo avvinghiato alla fune”.

sabato 16 febbraio 2008

II Domenica di quaresima


Deuteronomio 5, 1-2.6-21
Salmo 18
Romani 13, 7-14
Giovanni 4, 5-42

A volte penso che per definire il cristianesimo si debba usare più frequentemente la parola follia.
Che senso dare a questa parola?
Si possono distinguere tre tipi di follia.
C’è la follia di quelli che soffrono di malattie mentali.
Follia non voluta, questa, ma subìta: degna perciò di pietà e di estrema attenzione.
C’è poi la follia di chi brucia incenso davanti a tutti gli idoli.
Leggendo il vangelo della samaritana, mi è parso di trovare qualche traccia di questa seconda follia.
La samaritana è una donna che non segue la ragione, ma l’estro, la spontaneità, l’istinto, l’immediatezza della volontà.
Una storia di cinque mariti alle spalle. Vive con un sesto che non è suo marito.
Chi può chiamare normale una donna che si abbandoni a questo vagabondaggio sentimentale?
E poi c è un altro elemento rivelatore: dopo il colloquio con Gesù, torna in paese a dire “Ho incontrato uno che mi ha detto tutto quello che ho fatto”.
Di Gesù ha colto soprattutto questo potere, segno che per lei dovevano contare molto i fenomeni paranormali: di divinazione, di occultismo, di magia.
Non faccio fatica a pensare che questa donna frequentassi chiromanti, leggesse i suoi oroscopi o, come si dice, si facesse fare le carte.
Come dunque definire questa donna? Estrosa,estroversa, vivace?
Certo, ma da un punto di vista etico, anche un po’ folle.
Perché per lei non sembra che esistano più norme morali.
I comandamenti che ci sono stati richiamati dalla prima lettura li doveva conoscere. Ma non tengono più.
Concetti come dovere, impegno, fedeltà, lealtà, bene e male, giusto e ingiusto appartengono a un dizionario che non è più il suo.
Tutto è innocente e buono, una volta che si segue il proprio istinto.
Non è follia questa? Lo so: siamo noi a ragionare così.
Per altri, per molti altri, questo comportamento è espressione di sanità menale, di verità, di autenticità.
E può diventare motivo di compiacimento.
Quanti sono folli e non sanno di esserlo. Anzi sono pronti ad accusare di follia gli altri.
Ma c’è una terza forma di follia.
Ne parlava Francesco: “Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi pazzo nel mondo”.
Perché Francesco ha detto questo?
Perché aveva capito che Gesù agli occhi del mondo si era comportato da pazzo.
Anche agli occhi dei suoi famigliari, se, come si legge nel vangelo di Marco, questi un giorno andarono per riportarlo a casa a viva forza, perché dicevano: “E’ pazzo”.
Anche nel racconto di oggi il suo comportamento non è del tutto normale.
Perché si ferma a parlare con una donna moralmente squalificata con il rischio di compromettere la sua riputazione agli occhi dei discepoli?
E perché, mentre prima doveva avere fame, subito dopo dice di non avere più fame?
E’strano il comportamento di Gesù.
Ma Gesù avrebbe potuto dare una spiegazione quasi con le stesse parole di Francesco. “Il Padre mio mi ha rivelato essere suo volere che io fossi pazzo nel mondo”.
Sì, perché, prima di Francesco, prima di Gesù, se c’è una pazzia è quella di Dio.
E una spia c’è anche nel vangelo di oggi: “E’ giunta l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori...”.
Questo Dio è un Dio imprevedibile, un Dio vagabondo.
Non lo puoi racchiudere dove piace a te, né sul monte Garizim dei samaritani, né nel tempio dei Giudei, a Gerusalemme.
Non lo puoi imprigionare. E’ un Dio sfuggente. Dio è spirito.
Non lo trovi a volte nei templi, soprattutto quando sono espressione di orgoglio religioso, e lo trovi lì, dove meno te lo aspetti, sul margine di un pozzo, a parlare con una donna che a giudizio comune sarebbe stato meglio evitare.
Ecco la verità: noi non abbiamo un Dio ragionevole.
Un Dio ragionevole non si sarebbe incarnato.
Un Dio ragionevole non si sarebbe comportato come ha fatto Gesù.
Un Dio ragionevole non sarebbe finito sulla croce.
Che cosa vuol dire allora essere cristiani?
E’ possibile essere cristiani e non essere un po’ folli nel senso del vangelo?
I primi cristiani non hanno avuto dubbi.
L’apostolo Paolo parlava della pazzia del vangelo.
Purtroppo noi siamo troppo ragionevoli.
Amiamo le giuste misure, la prudenza, il compromesso.
Siamo saggi, ma nell’ordine del mondo.
Per essere saggi nell’ordine del vangelo, dobbiamo invece amare l’eccesso, la dismisura, la sregolatezza.
Sia chiaro: nell’ordine della carità.
Dobbiamo almeno qualche volta dare fuori di testa, uscire dalle nostre limitate misure, rischiare, buttarsi, sfidare il buon senso.
Follia- che poi è saggezza evangelica - è quando sei capace di un gesto di generosità, senza contropartita, e qualcuno accanto a te ti dice: “Ma tu sei matto! Che senso ha quello che stai facendo?” E tu riesci a ripetere a te stesso: “Sì, ha senso. Se sono pazzo, sono contento di esserlo in compagnia di Gesù”.
Follia evangelica è quando sei così innamorato della tua fede che non la nascondi, ma la porti con fierezza, anche se gli altri ti riservano un senso di compassione e di derisione.
Follia evangelica è non lasciasi appagare mai dalle consolazioni umane, ma credere nella parola che promette l’acqua che toglie ogni sete.
Anni fa qualcuno ha detto: “La pazzia è il sale che impedisce alla ragione di marcire”.
Va bene anche per la fede: la follia evangelica è il sale che impedisce alla nostra fede di marcire.
Perché qualche volta non dovremmo avere il coraggio di pregare con queste parole:
“Signore, fammi un po’ pazzo come sono stati i tuoi santi, soprattutto Francesco, come sei stato tu.
Dammi il coraggio della tua pazzia.
Dammi di credere che questa pazzia è la sola saggezza che può salvare questo nostro mondo”.

lunedì 4 febbraio 2008

IV Domenica del tempo ordinario


Matteo 5,1-11

Penso che tutti, ascoltando le parole del vangelo, siamo stati presi da un’emozione profonda.
Un’emozione che sempre si rinnova, anche se queste parole ci pare di conoscerle molto bene, per averle lette e ascoltate tante volte.
Otto volte è risuonata la parola “beati”. La beatitudine qui è proclamata, cantata, celebrata con uno slancio che ci lascia sorpresi.
Immaginiamoci anche noi sul monte delle beatitudini, mescolati tra la folla dei poveri, dei piccoli, degli umili, e lasciamoci penetrare da queste parole così sorprendenti perché inattese:“Beati voi…”.
Ci saremmo aspettati di ascoltare precetti, norme, regole precise di comportamento; avremmo anche temuto di dover sottostare a qualche severa minaccia, come quelle che il Battista aveva usato nella sua predicazione sulle rive del Giordano.
E invece la sua prima parola promette e assicura quella gioia alla quale tutti, seppure su strade diverse, aneliamo.
Qui si rivela il cuore di Dio verso di noi.
Non dovremmo mai stancarci di dire che il nostro Dio, il Dio in cui crediamo, vuole che noi siamo felici.
Come sarebbe ben diversa la nostra chiesa se, invece di denunciare puntigliosamente gli errori degli uomini e di tracciare i percorsi da seguire, fossimo capaci di esprimere questa profonda convinzione: che la gioia si trova al cuore del cristianesimo.
Senza dubbio bisogna riconoscere che, rispetto al passato, qualche segno di conversione non è mancato.
Ci sono state epoche in cui il cristianesimo sembrava evocare solo croce e sofferenza,
Ricordiamo ancora una volta che Nietzsche rimproverava ai cristiani i loro volti sempre rabbuiati, da persone non salvate o incapaci di godere.
Erano tempi, quelli, in cui i sacerdoti, in particolare, erano visti come specialisti in lutti e sepolture.
E’ bello scoprire invece che Dio ci vuole destinati alla gioia e che, se questa manca, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza.
Per i cristiani la felicità esiste, ed è già oggi.
Servirsi delle beatitudini, come s’è fatto in passato, per invitare i poveri e i sofferenti alla rassegnazione, promettendo la felicità in un paradio a venire, è stato un tradimento del vangelo.
Nel testo di Matteo ci sono verbi al futuro e verbi al presente.
Come a dire che la gioia piena sarà data nel futuro di Dio, ma che questa gioia trabocca già nell’oggi e intride situazioni che sono sotto nostri occhi, tanto che Gesù ci invita a osservare: “Guardate: i poveri sono amati da Dio.
Guardate gli artigiani di pace che sono chiamati figli da Dio.
E i puri di cuore che vedono Dio al di là delle apparenze di un mondo duro e intrattabile”.
Certo si tratta di una gioia non facile.+
Non è infatti una gioia data a basso prezzo.
Come è possibile conciliare gioia e sofferenza?
Sembra esserci una contraddizione, un paradosso, una follia..
Per Gesù è possibile: c’è una sofferenza che racchiude ed esprime l’esperienza della gioia.
Del resto molti credenti ne sono testimoni, dai primi martiri agli ultimi.
E non erano persone affette da turbe masochistiche che cercassero morbosamente forme di autopunizione.
Nel giorno della memoria della shoah sarebbe stato giusto ricordare che tante vittime (ebrei e non ebrei, come Massimiliano Kolbe) hanno affrontato la morte cantando i salmi della lode e della speranza.
Come spiegare un fatto così incredibile?
E’l’amore l’unica spiegazione.
Erano persone che credevano nella fecondità e nella forza dell’amore.
Ed erano persone che non si sentivano abbandonate dalla presenza di colui che è soltanto amore.
Se accogliamo questo amore, troviamo il segreto della gioia.
Il mondo che conosciamo si presenta davanti a noi con i suoi drammi, le sue angosce, le sue tensioni, le sue lotte, i suoi fallimenti.
L’uomo delle beatitudini non è uno sciocco o un ingenuo che non conosca i dati oggettivi della storia.
L’uomo delle beatitudini, per le tante notizie rattristanti che occupano le pagine dei giornali soprattutto in questi giorni, sa che ogni mattina lo attende “per colazione una tazza di lacrime” (E.Canetti).
Ma vede che il mondo è abitato da una promessa ed è sostenuto da una grande speranza.
Per questo la gioia di Gesù può circolare in mezzo a noi, nonostante le fatiche e le pesantezze della vita.
Gioia non chiassosa, ma segreta.
Arriva a volte quando meno te l’aspetti. Non sai da dove venga né come.
E’ un fatto imprevedibile.
Si cammina allora con passo leggero verso gli altri, in pace con tutti e, prima ancora, con se stessi.
Al termine della vita ci sarà rivolta questa domanda:
“Ho suonato il flauto per te.
Perché non hai danzato?”(Mt 11, 1).
Non ci capiti di presentarci davanti al Signore senza aver conosciuto la gioia che egli ci ha promesso.
Per questo è importante oggi inebriarsi delle parole delle beatitudini così da sentirne il fascino profondo.
Guardiamo alle beatitudini- così ci suggerisce un commentatore (J. Corbineau) –come si guarda a una vetrata.
La vetrata non fa altro che far cantare la luce.Guardiamo questa vetrata e ci sembrerà di indovinare un volto: è il volto di Gesù, il volto dell’amore di Dio.