martedì 14 aprile 2009

Pasqua di risurrezione


Giovanni 20, 1-18


Questa omelia dovrebbe celebrare il mistero della Pasqua e perciò dovrebbe avere un’intonazione gioiosa che in qualche modo riproponga l’esultanza che di solito accompagna l’annuncio della risurrezione.
A questo proposito si potrebbe ricordare il cosiddetto risus pascalis praticato nel medioevo in diverse città soprattutto tedesche dove, nel corso dei riti pasquali, erano i predicatori a suscitare il riso nell’assemblea raccontando storielle particolarmente esilaranti per sbeffeggiare la morte sconfitta dal Cristo risorto.
Ma quest’anno non ci è concesso di accogliere a cuor leggero questo invito alla gioia.
Abbiamo ancora sotto gli occhi le immagini della catastrofe che ha colpito diversi paesi dell’Abruzzo, non possiamo dimenticare i lamenti strazianti di tante persone che hanno perso tutto in questo tragico evento.
Nascono allora domande che mettono a dura prova la nostra fede.
Perché nel mondo c’è tanta sofferenza? perché tante vite spezzate ancora in tenera età?
C’è stato chi ha ammonito dicendo che nessuno deve sentirsi senza colpa.
Certamente è giusto pensare alla responsabilità degli uomini che, essendo liberi, sono liberi anche di fare il male.
In un passo del Deuteronomio si legge: “Ho posto davanti a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita onde tu viva…”.
Molto spesso l’uomo sceglie la morte e il male che genera infinite sofferenze.
Però questo, dobbiamo ammetterlo, non spiega tutto.
Quando si scatena uno tsunami o un terremoto con una forza così devastante come quello che ha colpito, sorprese nel sonno, tante famiglie della terra d’Abruzzo, è facile domandarsi: “e Dio, dove era in quei momenti così terribili?”.
È la domanda più seria, più grave, più temibile che possa salire nel cuore dell’uomo.
È la domanda che del resto, se non siamo superficiali o incoscienti , ci poniamo ogni giorno, davanti allo spettacolo quotidiano di violenza, di distruzione e morte per cui a volte siamo anche tentati di rivolgerci al Signore con le parole che don Michele Do ha raccolto dalla voce di un contadino della sua valle: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
La nostra riflessione oggi è sollecitata da tanti “perché?” che non trovano una facile risposta .
Dio l’abbiamo trascinato sul banco degli accusati.
Con i nostri “perché?”, peraltro più che motivati e legittimi, chiamiamo, per così dire, Dio a rapporto, gli chiediamo di rendere conto del suo operato, gli rimproveriamo il suo silenzio, la sua apparente indifferenza e apatia e addirittura la sua assenza.
È come se gli dicessimo: “Ma che Dio sei?”.
La risposta di Dio è affidata alla Pasqua di Gesù, alla croce e alla risurrezione.
Anzitutto ci invita a fare memoria ancora di quello che accadde un lontano venerdì pomeriggio di duemila anni fa, fuori dalle mura di Gerusalemme.
Un uomo di 33 anni fu appeso alla croce insieme ad altri due sventurati.
E mentre stava morendo, l’uomo appeso alla croce esclamò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
E il centurione romano che si trovava ai piedi della croce esclamò: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.
Il nostro è un Dio che conosce il patire scendendo fino in fondo nella sconfinata sofferenza del mondo, sempre dalla parte delle vittime, identificandosi con loro.
E la Pasqua diventa perciò il giorno della più grande consolazione.
Mi correggo: potrebbe diventare.
Purtroppo abbiamo perso il senso di questa novità sconvolgente. Gesù è risorto. È vivo. È con noi.
Gesù è accanto a noi come era accanto a Maria, nella apparizione narrata dal vangelo
Ma noi non sappiamo riconoscerlo.
Come se il Signore fosse assente o fosse ancora morto.
Morto in questa nostra società senza valori, morto nei compromessi e nelle ambiguità della politica, morto – è il sospetto che ci prende in qualche momento – anche nelle chiese.
Celebriamo la Pasqua come gente tranquilla, che va alla ricerca di un’omelia tranquilla, senza sussulti e senza troppe tensioni.
Vuol dire che non abbiamo più la fede?
È difficile dire se abbiamo la fede o non l’abbiamo.
Forse è vero che tutti vorremmo credere di più.
Abbiamo nostalgia della fede.Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a credere.
Abbiamo bisogno che Gesù ci chiami per nome come ha fatto con Maria di Magdala.
Gesù le disse: “Maria!”.
Essa si voltò verso di lui e gli disse in ebraico “Rabbunì” che vuol dire “Maestro!”.
Un nome, Maria, e in quel nome c’è il rivelarsi di una presenza, il palpito di un’amicizia che si rinnova.
E’ quello che può avvenire anche per noi.
Ascoltiamo tante parole, anche nelle nostre chiese.
Ci raggiungono, ma non ci scuotono.
Ci sembrano parole generiche, dette per tutti, indistintamente, parole decorative, non parole creative di qualcosa di nuovo.
Ma può anche accadere che tra le tante parole ci sia quella rivolta direttamente a te come se il Signore ti avesse chiamato per nome.
Allora si aprono gli occhi e tutto cambia.
Allora nasce dal cuore una risposta che vale più di tutte le professioni di fede: “Rabbunì, maestro!”
Qui c’è tutto lo stupore della risurrezione.
Qui c’è tutta la gioia della Pasqua.
Se c’è una grazia grande che oggi dobbiamo chiedere al Padre è questa: che ci aiuti a convertire la prima espressione di Maria registrata nel vangelo: “Hanno portato via il mio Signore” in quest'altra “Rabbunì”.
Vuol dire avere intuito la presenza del Risorto.
Vuol dire sentire la passione di correre a portare a tanti nostri fratelli (come per lunga tradizione si fa nel mondo ortodosso.
La buona notizia : “Cristo è risorto. Non avere più paura”.

venerdì 3 aprile 2009

V Domenica di quaresima

Giovanni 11, 1-44

In questo racconto sono presenti tutte le verità fondamentali dell’esistenza: c’è la morte, l’amicizia, il pianto, la speranza più grande.
La prima verità riguarda la morte.
Tutto il racconto è occupato da una liturgia funebre che si esprime attraverso il pianto, il cordoglio, il sepolcro e un forte sentore di corruzione.
E chi legge viene raggiunto da una domanda provocatoria:”Tu credi alla morte?”.
Certo la morte non ha bisogno di essere creduta, tanto si impone sotto i nostri occhi con un’evidenza brutale: la morte trionfa negli atti di terrorismo, là dove ancora non si gode di una pace duratura; nei regolamenti di conti tra bande opposte di mafiosi o di camorristi, o sulle strade dove e tanti giovani lasciano la loro vita per ragioni che tutti conosciamo.
Eppure la domanda: “Tu credi alla morte?” non è fuori luogo.
In un tempo in cui si assiste alla morte in diretta, si assiste anche alla fuga dalla coscienza della morte.
Come se essa non ci riguardasse.
Per capire il valore di questo racconto , bisogna prima recuperare la tragicità della morte.
Bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia.
Una seconda verità richiamata dal racconto è il valore dell’amicizia di fronte alla morte.
Questo testo di Giovanni non parla solo di morte e risurrezione.
E’anche la storia di un’amicizia, quella tra Gesù, Lazzaro e le sorelle.
“Il tuo amico è malato” mandano a dire le due sorelle.
E poco dopo è Gesù stesso a dare a Lazzaro il nome di amico.
L’uso di espressioni come “il nostro amico Lazzaro” è segno di grande famigliarità.
Sul filo di queste annotazioni è facile leggere il miracolo di Lazzaro come il miracolo dell’amicizia e dell’affetto.
Perché Gesù lascia la regione della Perea, dove poteva stare al riparo dalle ostilità dei giudei, per raggiungere Betania esponendosi pertanto a qualche grave rischio per la propria incolumità?
E’quello che i discepoli non capiscono:“Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti, e tu ci vai di nuovo?”.
C’è in questo racconto una specie di legge che si potrebbe formulare così: amare è sempre un perdersi perché l’altro viva.
Gesù questa legge l’aveva insegnata quando aveva detto: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”.
La prova l’abbiamo nel vangelo: Lazzaro vive perché Gesù, che gli è amico, accetta di morire.
Si sa infatti che in seguito al miracolo di Betania i giudei decisero di mettere a morte Gesù.
Questa verità, che il dono della vita si sconta con il proprio morire, non è facile da interpretare.
Non è stato facile neppure per Gesù.
Gesù si commuove profondamente, dice Giovanni, e lo ricorda almeno due volte nel corso della narrazione.
Gesù scoppia in pianto. E’qualcosa che ci tocca, ci stupisce, ci commuove,
C‘è chi ha fatto osservare che la bellezza e la grandezza di questo miracolo sono tutte racchiuse nel pianto di Gesù.
Perché piange Gesù?
Perché questo suo pianto incontenibile, irrefrenabile, senza ritegno e senza vergogna?
Gli esegeti suggeriscono diverse spiegazioni, ma la più attendibile sembra essere questa: Gesù se la prende con le forze oscure del male e della morte.
Elias Canetti, il grande scrittore mitteleuropeo che considerava la morte come il male primordiale, voleva che la si odiasse, le si sputasse in faccia, venisse maledetta,.
Gesù piange e in questo suo pianto c’è come un moto di risentimento, di collera contro la morte.
E’ un modo per dire no alla morte, per rifiutarne la logica implacabile e crudele.
Penso a certi cristiani che si vergognano di piangere anche in occasione di lutti particolarmente dolorosi, che si sforzano perfino di mostrare un volto sereno e sorridente perché altrimenti sarebbe come tradire la fede nella risurrezione.
Trovo invece molto sagge le parole di un giovane parroco milanese il quale ha scritto: “Io credo che il Signore non voglia regalarci la risurrezione senza prima averci regalato le lacrime.
Le lacrime sono un dono. Ci danno il diritto di piangere senza vergogna.
Sono lacrime che lavano gli occhi perché si possano aprire a un mistero ancora più grande della morte, quello della risurrezione (Davide Caldirola)”.
Ed ora una parola sulla risurrezione.
Noi vorremmo sapere soprattutto come sarà la vita futura.
Ma la nostra curiosità rimane inappagata.
Lazzaro non dice nulla della esperienza che gli è stata riservata una volta superata la soglia della morte.
Ma altri passi del vangelo ci fanno capire che la vita eterna è essere con Cristo.
“Oggi sarai con me in paradiso” dice Gesù al ladrone sulla croce.
Si comprende come sia possibile affermare che la risurrezione non è solo per il futuro, ma già per il tempo che stiamo vivendo.
Se siamo uniti a Cristo, risurrezione e vita, godiamo già di una vita risorta,
Ci sono persone che spiritualmente sono vecchie o addirittura spente.
E lo dimostrano per il fatto che si trovano irrigidite nei loro pregiudizi, nelle loro paure, nel loro inguaribile pessimismo, nella difesa egoistica dei loro privilegi.
Non c’è scioltezza, autoironia, speranza, apertura alla novità.
Se hanno rapporto con Dio, conoscono solo un Dio vecchio che rende vecchi.
Ma Dio è giovane, e la giovinezza di Dio si è rivelata in Gesù.
Nessuno è più vivo e più libero di Gesù.
Con la sua vita intensa, appassionata, generosa, Gesù vuole insegnarci che cosa significa vivere.
Vivere non è sopravvivere, vegetare, consumare il proprio tempo rincorrendo soddisfazioni effimere, ma vivere è comunicare, donare, amare, perdere la propria vita per gli altri.
Se siamo con Gesù, già ora possiamo condurre una vita risorta, una vita al riparo da ogni conformismo e da ogni rassegnazione, una vita innamorata della verità, della bellezza, della fierezza di non essere servi di nessuno.
Non diciamo perciò come Marta: “Io so che risorgerò nell’ultimo giorno”, ma piuttosto diciamo: “Signore Gesù, io so che posso risorgere ogni giorno.
Pronuncia anche su di me le parole con cui hai richiamato Lazzaro alla vita: “Vieni fuori!”.
Vieni fuori, esci dall’oscurità del sepolcro in cui ti trovi con la tua vita spenta.
Sciogliti da tutte le tristezze e le paure che ti tengono prigioniero.
Vieni alla luce, vieni alla vita.
Potrò così essere giovane come te, giovane di amore, giovane di coraggio, giovane di immensa, dolcissima pietà”.