mercoledì 6 maggio 2009

IV Domenica di Pasqua (R.A.)


Giovanni 10, 27-30

Succede a volte che durante le letture della messa si rimanga scossi o commossi, toccati comunque e coinvolti.
E ci si domanda:”Perché questo fervore o questa passione inesprimibile, perché questo intenerimento o questo senso di pace profonda?”.
E’ l’esperienza che forse abbiamo fatto anche oggi, soprattutto durante la lettura del vangelo.
Si tratta di un breve testo di Giovanni che fa parte di quel discorso in cui Gesù, provocato dai giudei, si presenta come il buon pastore.
Sono tre le parole che meritano di essere approfondite, per renderci conto della felicità rivelativa di questo testo.
La prima parla è il verbo conoscere.
“Io le conosco” dice Gesù parlando delle pecore.
E altrove si legge: “Le mie pecore conoscono me”( Gv 10, 14).
Noi purtroppo siamo portati a privilegiare le nostre facoltà mentali per cui confondiamo spesso la conoscenza con l’erudizione o il sapere.
Sappiamo molte cose su diversi argomenti, ma non è detto che questo sia un vero conoscere.
Un teologo può possedere molte nozioni su Dio , ma questo non significa che conosca Dio.
Per arrivare a una vera conoscenza, bisogna che ci sia un rapporto mistico con Dio, una comunione molto stretta con la sua parola (è quello che i Padri della chiesa e molti autori spirituali hanno chiamato “manducazione della Parola”): occorre un’ esperienza esistenziale che coinvolga tutta la persona.
Non si dimentichi che nella Bibbia il verbo conoscere viene applicato alla esperienza amorosa di due sposi.
E nel libro del Siracide si legge: “Dio ha dato agli uomini un cuore per riflettere”.
Certamente il cuore è fatto per amare, ma c’è pure un’intelligenza dell’amore.
E’ quella intelligenza sensibile e intuitiva che è propria degli innamorati, dei poeti, dei mistici.
Di questa intelligenza una persona semplice può godere più di un principe della chiesa o di un grande teologo.
Se non fosse così, Dio sarebbe un lusso dei ricchi e degli intellettuali.
In realtà si tratta di un privilegio riservato a coloro che, vivendo strettamente uniti a Cristo, si trovano partecipi della conoscenza che Cristo ha del Padre.
“Io e il Padre siamo una cosa sola” ha detto Gesù.
Con Cristo entriamo in un tipo di conoscenza del mistero di Dio che non ha nulla di presuntuoso o di possessivo.
E’ una conoscenza velata di pudore come fosse una carezza.
Una carezza dice tutta la tenerezza dell’amore che non si appropria di nulla, riceve tutto e di tutto rende grazie.
C’è un’altra parola nel testo di Giovanni che merita di essere approfondita.
E’ il verbo ascoltare che viene usato da Gesù quando dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce”.
Già la parola voce è particolarmente espressiva: vuol dire che è in gioco un rapporto molto stretto.
La voce o meglio, il tono della voce, assieme allo sguardo e al volto, esprime qualcosa almeno della profonda identità di una persona.
Lo sanno bene gli sposi, i fidanzati, gli amici per i quali la modulazione della voce a volte risulta più significativa delle parole che vengono dette.
Perciò l’ascolto di cui parla Gesù è un’esperienza che va ben oltre il semplice fatto di percepire parole o suoni o messaggi.
Si può udire senza ascoltare, come più volte hanno deplorato i profeti e Gesù stesso: “Il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi” (Mt 13,14).
E noi, che ascolto accordiamo a Gesù?
Non basta essere frequentatori della parola del Signore.
Se nella parola del Signore cerchiamo soltanto una conferma di ciò che crediamo già di sapere mentre censuriamo quello che ci scuote e ci mette a disagio, vuol dire che anche noi siamo diventati “duri di orecchi”.
Ma neppure possiamo dire di essere in ascolto se dovessimo separare il messaggio del Vangelo da colui che ce lo ha affidato.
L’ascolto vero richiede un atteggiamento fiducioso e docile nei confronti di una persona, come del resto suggerisce il verbo latino oboedio (ubbidisco) che è composto dal verbo audio (ascolto).
Dovremmo perciò chiedere spesso la grazia di sapere ascoltare dicendo: “Signore, fa’ che la tua voce mi raggiunga e penetri nel mio cuore come la voce di una persona amata a cui ci si consegna con tutta la propria fiducia”.
Infine ci sarebbe da riflettere sulla vita eterna promessa da Gesù: ”Io do loro la vita eterna”.
Sono tante le parole del linguaggio religioso che non dicono più nulla perché sono diventate vuote e inespressive.
Che cosa può suggerire la parola “vita eterna” al disperato, al drogato, al marito o alla moglie che vedono il loro matrimonio fallito, a tutti coloro che sentono la fatica di trovare ogni giorno una ragione per vivere?
Bisognerebbe che ci mettessimo in rapporto con Gesù il quale ci direbbe: “Che cosa vuol dire per te vivere?.
Non è forse vero che tu hai l’impressione di vivere soprattutto quando stai vivendo un’esperienza di amore, quando ti senti amato e godi di riamare?
Se vivere è questo, ricordati che c’è chi ti ama e continuerà ad amarti con una sorta di irriducibile ostinazione.
Il suo amore è così grande che non c’è niente o nessuno che lo possa cancellare”.
Questa è la vita eterna che già ora possiamo sperimentare.
Si pensi alla gioia di un bambino quando riceve dal papà la mano o viene condotto per mano.
Si sente sicuro, non ha più paura di nulla, si vede accettato come una persona meritevole di ogni attenzione.
In questi termini Gesù ci ha parlato della vita eterna: è una vita affidata tutta alla mano del Signore, mano forte e buona: è la mano di un padre.
Godiamo dunque di questa rivelazione che nel vangelo è tra le più consolanti che ci sia dato di incontrare.
Se poi vogliamo dare una risposta a questo nostro Dio così prodigo di amore, sappiamo quale è la via da seguire.
E’vicino a Dio chi sa coltivare una grande magnanimità, un grandezza d’animo per cui è capace di ospitare tutti dentro la tenda della sua amicizia, anche quelli che da gli altri sono disprezzati e condannati, perché sa che, nonostante tutto, sono persone che il nostro Dio continua ad amare con un amore tenero e tenace.
E’ lontano da Dio chi invece coltiva uno spirito di parte, una volontà di esclusione.
Forse non abbiamo mai pensato che i peccati più gravi li commettiamo non per l’unità, ma per la disunione, nelle famiglie, nelle parentele e in altre forme di vita associata.
Ci conforti però la speranza che si accende in noi mediante la preghiera:
“ Fa’, o Signore, che un giorno siano cancellate tutte le nostre divisioni e trionfi soltanto la dolce legge della tua fraternità”.

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