Giovanni 11, 55-57; 12, 1-11
Questa pagina del vangelo di Giovanni ci presenta Gesù che siede a tavola , nella casa ospitale delle sorelle Marta e Maria.
Betania doveva essere per Gesù un luogo molto caro, perché lì poteva trascorrere ore rasserenanti, al riparo da certe asprezze che il contatto con la folla non mancava di procurargli.
Per vivere, si ha bisogno di un po’ di tenerezza, che può esprimersi attraverso piccoli segni quali un sorriso, un ascolto, una semplice parola detta con garbo e amabilità.
Vivere infatti è amare e lasciarsi amare
E questo amore coinvolge tutto il proprio essere, anche il proprio corpo.
Il corpo rivela la persona, il corpo è il segno dell’anima.
Leggendo il vangelo, non ci capita mai di trovare neppure un a volta un invito a diventare puri spiriti, creature pseudoangeliche di cui certe forme di spiritualità hanno preteso di definirne il ritratto, come fosse quello del vero cristiano.
Gesù non è un angelo, ma un uomo vero, un uomo completo.
E Gesù non rinnega mai la sua piena umanità.
Egli si mostra come un uomo molto sensibile con sentimenti profondi, che non ha paura di esprimere.
Per questo l’abbiamo visto piangere nel racconto della risurrezione di Lazzaro.
Si pensa (l’ho trovato scritto) che quasi l’80% degli uomini tra i 15 e i 55 anni hanno molta difficoltà a esprimere le loro emozioni, a piangere , a mostrare il loro cuore.
Abbiamo paura di sentirci vulnerabili, di confessare la nostra fragilità.
Gesù nel vangelo si lascia prendere dalla pietà, è mosso a compassione e non si vergogna di piangere in pubblico, toccato dalle lacrime di Maria.
E quando Maria entra nella sala del banchetto e compie quel gesto meraviglioso versando sui piedi di Gesù un profumo costosissimo e asciugando poi con i suoi capelli sciolti, Gesù non dice neppure una parola per far cessare quella liturgia che agli occhi dei presenti doveva risultare piuttosto imbarazzante.
Vale la pena di osservare che secondo le buone maniere di quel tempo non era concesso ad una donna di sciogliere i suoi capelli in pubblico davanti ad un uomo.
Maria compie questo gesto in silenzio, come se stesse assecondando le movenze di una danza e Gesù lascia che essa esprima a quel modo tutto il suo affetto.
L ’episodio è ricco di grande tenerezza.
Essere umani, è accettare di avere un cuore.
Gesù, il più umano degli umani, non ha paura dei sentimenti, non ha paura del proprio cuore.
Chi nel vangelo non accetta di avere un cuore è Giuda.
Il personaggio di Giuda non è facile da capire.
Certo non va liquidato sbrigativamente con l’etichetta di ladro, come è detto nel vangelo.
È un personaggio chiuso, complesso, tormentato.
Giuda, se mi è concesso di interpretarlo a modo mio, lo vedo come un sognatore dalla mente fredda,
Lo vedrei come un prototipo della cultura attuale.
Nella società occidentale si è privilegiato il mondo oggettivo dell’uomo, cioè la volontà, la determinazione in vista di una riuscita, la razionalità, e questo a scapito del mondo soggettivo che comprende l’emotività, l’affettività, la spontaneità: in una parola, il cuore.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Siamo diventati tutti troppo saggi, troppo razionali, troppo normali.
Quante persone vivono prigioniere della loro funzione e del loro personaggio: sono persone che lavorano, hanno pure successo nella loro attività, fanno molte cose, mea senza quella meraviglia continua e quella passione infinita che solo l’intelligenza del cuore sa suggerire.
Ecco perché prima ho indicato Giuda come prototipo di questa mentalità vedendo in lui un sognatore dalla mente fredda.
Questa mentalità di Giuda, arida, fredda, calcolatrice, non vivificata da un palpito di sentimento o da un soffio di poesia, la conosciamo bene perché la respiriamo attorno a noi e, per poco che siamo sinceri con noi stessi, la troviamo dentro i comportamenti abituali del nostro vivere.
Che cosa conta per noi nella vita?
Che cosa proponiamo ai giovani come primo obiettivo da conseguire?
Conta soprattutto raggiungere una posizione che permetta di guadagnare e di avere successo.
Ma è possibile che tutto il senso della vita debba esaurirsi nella dimensione della praticità e della convenienza?
Quando riusciremo a capire che, al di là dell’interesse per il fare, c’è qualcosa di più grande come il contemplare, il compatire, il condividere, cioè la dimensione stupenda della gratuità?
Se non riscopriamo la bellezza della gratuità, ci condanniamo a una vita sempre più invivibile.
Pensiamo al destino di Giuda: abituato a vedere solo il lato pratico delle cose, ha tradotto la poesia del gesto di Maria in un calcolo e in una deplorazione: trecento denari sprecati!
Con questa mentalità di lì a poco arriverà a dare un prezzo anche alla vita di Gesù.
Ma vorrei che contemplassimo ancora una volta la bellezza del gesto di Maria, un gesto meraviglioso non tanto per la generosità, ma per la pietà, la delicatezza, la tenerezza, la totale gratuità.
E il profumo che inonda tutta la casa è come l’esaltazione di questo amore.
Se non comprendiamo questo discorso sull’amore, come pura gratuità, che cosa possiamo capire del mistero che celebreremo in questi giorni?
Verrebbe voglia di concludere questa riflessione inventando, se mai è possibile, una beatitudine che potrebbe suonare così:. “Beati quelli che sanno amare come Maria di Betania: il loro amore avrà la fragranza di un meraviglioso profumo”.
mercoledì 31 marzo 2010
domenica 3 gennaio 2010
Ottava del Natale nella circoncisione del Signore
All’inizio di un anno nuovo è consuetudine scambiarsi gli auguri.
Gli auguri non mancano neppure nella Bibbia, sebbene sotto altro nome e con ben altra forza.
Gli auguri nella Bibbia si chiamano benedizioni.
Meditando sulle letture di questa liturgia mi sono detto: “Ci sono, nel linguaggio degli uomini, parole più belle, più commoventi, più luminose di queste?”.
Dal Libro dei Numeri ci è stato trasmesso questo messaggio: il nostro Dio è un Dio che ama benedire.
Al museo d’Israele, a Gerusalemme, è esposto un pezzetto di cuoio, vecchio di duemilacinquecento anni (è il più antico documento riguardante un testo scritto della Bibbia) su cui sono riportate proprio le parole con le quali Aronne benedice il popolo d’Israele: “Ti benedica il Signore e ti protegga”.
Ma non accontentiamoci di questa prima indicazione, perché la parola benedizione per il Signore ha un valore e una forza che noi non sappiamo immaginare.
Quando noi parliamo di benedizione pensiamo a formule augurali, amabili e incoraggianti, che però non valgono a modificare il corso delle cose.
Benedire, come dice la parola, è dire bene di una persona, e questo è sempre un fatto molto positivo.
Sappiamo quanto è importante per noi, in certi momenti, sapere che c’è qualcuno che dice bene di noi o sentire da una persona una parola buona, che tocchi in profondità il nostro essere, tanto che a volte ci capita di ascoltare questa invocazione: ”Mi dica una parola buona” o di essere noi a mendicare una parola buona.
Il Signore non si limita a dire una parola buona d’incoraggiamento, ma benedice in modo creativo: augura e al tempo stesso crea ciò che va augurando.
E' interessante perciò prestare attenzione anche alle altre parole che si trovano nella prima lettura: ”Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace”.
La benedizione del Signore è il risplendere del suo volto sul nostro volto.
Qui la benedizione acquista un carattere personale: si stabilisce un rapporto da volto a volto e, poiché il volto rappresenta l’originalità di una persona, è un rapporto da persona a persona, da cuore a cuore.
Inoltre questa benedizione esprime una volontà di comunicare e di donare, come se ciò che appartiene a Dio (la sua luce, il suo amore, la sua pace) si riversasse come una corrente di grazia nel cuore di chi viene benedetto.
Possiamo affermare che quanto stiamo dicendo si è realizzato e si realizzi tuttora?
“Il Signore faccia brillare il suo volto”.
C’è stata una notte in cui il Signore ha fatto brillare il suo volto.
Il sorriso di Dio si è fatto carne e sangue con il volto di un bambino.
E quando i pastori trovarono quel bambino che giaceva in una mangiatoia, furono loro i primi ad essere benedetti con la luce del volto di Dio.
Ora sappiamo cosa vuol dire essere benedetti.
Ora sappiamo anche quello che i pastori non potevano sapere.
Noi siamo benedetti al punto che per mezzo di Gesù Cristo, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo, siamo associati al suo destino di gloria.
Qui dovremmo tacere. Per troppe ragioni.
Non solo perché il mistero supera le parole, ma anche per una sorta di pudore, dato che il nostro cristianesimo è povero di senso mistico, di vera esperienza delle cose di Dio.
Che cosa è la fede per noi?
L’abbiamo ridotta a norma di vita, a programma filantropico, a ideale umanitario.
Ma la fede prima di tutto, è la contemplazione di un volto, quello di Gesù.
Prima di tutto è un innamoramento nei confronti di Gesù.
Il vero credente è colui che si ripete, stupito: ”Ma è proprio vero che sono figlio di Dio?
E’ proprio vero che Dio mi ama fino a questo punto? Da dove viene questa audacia che mi fa dire: ”Abbà! Padre!”?
Se riusciamo a capire qualcosa della benedizione che si è riversata sulla nostra vita, possiamo anche capire i comportamenti che il vangelo ci suggerisce come espressioni del segreto che ci è stato rivelato.
Primo comportamento è quello del silenzio colmo di stupore: ”Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”.
Non finiremo mai di meditare perché non finiremo mai di stupirci.
Questo volto di Gesù va contemplato a lungo, in silenzio, con appena un filo di preghiera: “Fa, o dolce Dio del mio esistere, che qualcosa comprenda, qualcosa viva e realizzi nella mia vita di quanto tu mi riveli”.
C’è poi l’acclamazione: ”I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio”.
Non è possibile non lodare quando ci si sente accolti e amati.
E infine c’è il desiderio di comunicare: ”Riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”.
E’ bello gioire e comunicare gioia.
Si riceve e si dona perché altri ne godano e a questo modo si allarghi la benedizione di Dio.
Se avessimo una vera fede, dovremmo coltivare sempre il desiderio di fermare qualcuno ad un angolo di strada per parlargli della vita non come maledizione –sono già troppi a farlo- ma come benedizione e perciò come promessa di speranza e di pace.
A questo punto possiamo capire perché l’augurio più bello sia quello che ci viene suggerito dalle parole della prima lettura: "Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio, il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace”.
Gli auguri non mancano neppure nella Bibbia, sebbene sotto altro nome e con ben altra forza.
Gli auguri nella Bibbia si chiamano benedizioni.
Meditando sulle letture di questa liturgia mi sono detto: “Ci sono, nel linguaggio degli uomini, parole più belle, più commoventi, più luminose di queste?”.
Dal Libro dei Numeri ci è stato trasmesso questo messaggio: il nostro Dio è un Dio che ama benedire.
Al museo d’Israele, a Gerusalemme, è esposto un pezzetto di cuoio, vecchio di duemilacinquecento anni (è il più antico documento riguardante un testo scritto della Bibbia) su cui sono riportate proprio le parole con le quali Aronne benedice il popolo d’Israele: “Ti benedica il Signore e ti protegga”.
Ma non accontentiamoci di questa prima indicazione, perché la parola benedizione per il Signore ha un valore e una forza che noi non sappiamo immaginare.
Quando noi parliamo di benedizione pensiamo a formule augurali, amabili e incoraggianti, che però non valgono a modificare il corso delle cose.
Benedire, come dice la parola, è dire bene di una persona, e questo è sempre un fatto molto positivo.
Sappiamo quanto è importante per noi, in certi momenti, sapere che c’è qualcuno che dice bene di noi o sentire da una persona una parola buona, che tocchi in profondità il nostro essere, tanto che a volte ci capita di ascoltare questa invocazione: ”Mi dica una parola buona” o di essere noi a mendicare una parola buona.
Il Signore non si limita a dire una parola buona d’incoraggiamento, ma benedice in modo creativo: augura e al tempo stesso crea ciò che va augurando.
E' interessante perciò prestare attenzione anche alle altre parole che si trovano nella prima lettura: ”Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace”.
La benedizione del Signore è il risplendere del suo volto sul nostro volto.
Qui la benedizione acquista un carattere personale: si stabilisce un rapporto da volto a volto e, poiché il volto rappresenta l’originalità di una persona, è un rapporto da persona a persona, da cuore a cuore.
Inoltre questa benedizione esprime una volontà di comunicare e di donare, come se ciò che appartiene a Dio (la sua luce, il suo amore, la sua pace) si riversasse come una corrente di grazia nel cuore di chi viene benedetto.
Possiamo affermare che quanto stiamo dicendo si è realizzato e si realizzi tuttora?
“Il Signore faccia brillare il suo volto”.
C’è stata una notte in cui il Signore ha fatto brillare il suo volto.
Il sorriso di Dio si è fatto carne e sangue con il volto di un bambino.
E quando i pastori trovarono quel bambino che giaceva in una mangiatoia, furono loro i primi ad essere benedetti con la luce del volto di Dio.
Ora sappiamo cosa vuol dire essere benedetti.
Ora sappiamo anche quello che i pastori non potevano sapere.
Noi siamo benedetti al punto che per mezzo di Gesù Cristo, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo, siamo associati al suo destino di gloria.
Qui dovremmo tacere. Per troppe ragioni.
Non solo perché il mistero supera le parole, ma anche per una sorta di pudore, dato che il nostro cristianesimo è povero di senso mistico, di vera esperienza delle cose di Dio.
Che cosa è la fede per noi?
L’abbiamo ridotta a norma di vita, a programma filantropico, a ideale umanitario.
Ma la fede prima di tutto, è la contemplazione di un volto, quello di Gesù.
Prima di tutto è un innamoramento nei confronti di Gesù.
Il vero credente è colui che si ripete, stupito: ”Ma è proprio vero che sono figlio di Dio?
E’ proprio vero che Dio mi ama fino a questo punto? Da dove viene questa audacia che mi fa dire: ”Abbà! Padre!”?
Se riusciamo a capire qualcosa della benedizione che si è riversata sulla nostra vita, possiamo anche capire i comportamenti che il vangelo ci suggerisce come espressioni del segreto che ci è stato rivelato.
Primo comportamento è quello del silenzio colmo di stupore: ”Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”.
Non finiremo mai di meditare perché non finiremo mai di stupirci.
Questo volto di Gesù va contemplato a lungo, in silenzio, con appena un filo di preghiera: “Fa, o dolce Dio del mio esistere, che qualcosa comprenda, qualcosa viva e realizzi nella mia vita di quanto tu mi riveli”.
C’è poi l’acclamazione: ”I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio”.
Non è possibile non lodare quando ci si sente accolti e amati.
E infine c’è il desiderio di comunicare: ”Riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”.
E’ bello gioire e comunicare gioia.
Si riceve e si dona perché altri ne godano e a questo modo si allarghi la benedizione di Dio.
Se avessimo una vera fede, dovremmo coltivare sempre il desiderio di fermare qualcuno ad un angolo di strada per parlargli della vita non come maledizione –sono già troppi a farlo- ma come benedizione e perciò come promessa di speranza e di pace.
A questo punto possiamo capire perché l’augurio più bello sia quello che ci viene suggerito dalle parole della prima lettura: "Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio, il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace”.
Natale del Signore (2009)
Siamo venuti per celebrare la nascita di Gesù.
La liturgia ci parla di musica celeste, di gioia grande, di pace per tutti.
Ma forse ci sentiamo incapaci di aderire pienamente a questo grande “mistero gaudioso”.
Che cosa ci manca?
Nella tradizione popolare francese esiste un singolare personaggio del presepio, chiamato ravi, che vuol dire rapito, incantato, estasiato, pieno di stupore e di gioia.
Qualcuno vorrebbe rimproverarlo perché non ha portato nulla da offrire al bambino Gesù, ma Maria lo difende: lui ha portato il dono più bello: i suoi occhi spalancati, colmi di stupore.
Noi questo spirito d’infanzia facciamo fatica a ritrovarlo.
Veniamo a queste celebrazioni con tutte le resistenze della nostra poca fede e della nostra ostinata razionalità.
Sentiamo risuonare una promessa di pace, un annuncio di salvezza?
Noi non siamo più disposti a seguire questi discorsi che, per le tante delusioni patite in passato, consideriamo falsi e alienanti.
“Dio mi deve spiegazioni. -diceva Ionesco- Quando sarà il momento gli chiederò perché il mondo è così bello e così atroce”.
Ma non c’è bisogno di aspettare quel momento per avere da Dio una risposta alle nostre legittime attese, se appena siamo capaci di sostare accanto al presepio con uno spirito contemplativo e invocante.
“Il Verbo si è fatto carne” ci dice Giovanni nel prologo del suo vangelo.
La parola di Dio si è rivelata nella carne del bambino nato a Betlemme.
Questo bambino non parla: è un infante, nel senso letterale della parola.
In realtà, parla più che se avesse la parola.
Parla non come parlerebbe un adulto, utilizzando concetti, idee, argomentazioni, ragionamenti (in questo caso sarebbe compreso da pochi, da quelli intellettualmente più preparati), ma parla con tutta la fragilità e la povertà della sua nascita in mezzo a noi.
E ci dice cose meravigliose.
Ci dice che Dio è amore.
Ha il volto della mitezza, della dolcezza, della semplicità, della fraternità.
E la nostra terra non è mai abbandonata da Dio.
Come lui non si stanca di amarla, così vorrebbe che neppure noi ci stancassimo di amarla.
Vorrebbe che stabilissimo un rapporto fraterno, simpatico, affettivo con tutta la creazione, con l’acqua, con l’aria, con le piante, gli animali, non profanando mai i beni della terra, ma rispettando e apprezzando.
Ma l’amore di Dio, ci dice ancora il bambino di Betlemme, si rivela soprattutto verso l’uomo.
”Il Verbo si è fatto carne”: il Verbo si è fatto uomo.
Ogni gesto di pietà o di rifiuto compiuto nei confronti dei nostri fratelli diventa un sì o un no che noi pronunciamo nei confronti di Dio.
Non ci capiti di deludere il nostro Dio.
Se così fosse, tutte le nostre belle liturgie natalizie sarebbero celebrazioni vacue, pura retorica religiosa.
E ci sarebbe perfino da vergognarsi.
Negli occhi, nel cuore, nelle mani in ogni fibra della nostra esistenza c’è il sigillo dell’amore di Dio che si è alleato con questa nostra umanità fatta di spirito e di carne, di improvvise esaltazioni e di tenaci avvilimenti.
Perché siano vere celebrazioni del Natale del Signore bisogna che esse portino ad adorare in ogni volto l’immagine di Dio.
Ogni volto umano, per quanto sfigurato dalla colpa, è un’icona, un riflesso del Verbo che si è fatto carne. Dio in Cristo ci restituisce il nostro vero volto, ci riconcilia con noi stessi, ci dona così la sua pace.
Res sacra homo, dicevano gli antichi.
Tanto più lo dobbiamo dire se crediamo nell’incarnazione del nostro Dio.
Perciò il culto da rendere a Dio passa attraverso i gesti che compiamo verso le persone che avviciniamo.
Non è possibile, in altre parole, amare Dio senza amare i fratelli che Dio ama.
E nella grande famiglia umana una tenerezza particolare è riservata da Dio ai poveri, ai deboli, agli incompresi, ai sofferenti: sono essi i più vicini al cuore di Dio.
Questo è il messaggio che ci trasmette il bambino di Betlemme, un messaggio che ci rivela il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.
Mi ha colpito questa affermazione che mi è capitato di leggere recentemente: “Dio si è fatto ‘nessuno’, perché tutti i ‘nessuno’ della terra avessero un volto, un nome, una dignità, una grandezza”.
Perciò, se mai volessimo rimanere in contemplazione di un nostro ideale presepio, dovremmo collocare, accanto a Maria e a Giuseppe, accanto ai pastori, vicinissimi al bambino, soprattutto le persone senza avvenire e senza speranza, tutti quelli che non hanno avuto nella vita la loro parte di tenerezza, tutti quelli che si sentono poco amati e perciò falliti.
C’è posto anche per noi vicino alla culla di Betlemme.
C’è posto se siamo capaci di abbandonare le nostre false sicurezze per ritrovare la misura della verità del nostro esistere, la nostra piccolezza e l’immenso bisogno di sentirci amati.
Questo bisogno di amore riguarda anche il Verbo di Dio che si fa carne e condivide pienamente la nostra umanità.
Anche lui ha bisogno di sentirsi amato e protetto.
Non è forse vero che Dio, da più di duemila anni, va interrogando instancabilmente i nostri cuori per vedere se c’è qualcuno che sia disposto ad amarlo, qualcuno per il quale sia capace di provare per il suo Dio una immensa pietà?
Etty Hillesum, questa straordinaria donna che nell’inferno di un lager nazista ha testimoniato l’amore e la speranza, nonostante avesse davanti agli occhi solo immagini di morte, ha potuto scrivere: “Ora tocca a noi aiutare Dio”.
Tocca a noi aiutarlo ora a nascere, a crescere, a trovare casa, a trovare lavoro, a trovare accoglienza e ospitalità.
Tutta la vita perciò va amata, la nostra e quella degli altri.
Amiamoci perché Dio ci ama.
Il bambino di Betlemme, che abbiamo visto come segno del vero volto di Dio e del nostro vero volto, diventa anche il volto della nostra possibile gioia.
Voglia il Signore non farci mai mancare quella speranza che a Betlemme si è accesa come luce avvolgente (“li avvolse di luce”) per i giorni oscuri della nostra vita.
La liturgia ci parla di musica celeste, di gioia grande, di pace per tutti.
Ma forse ci sentiamo incapaci di aderire pienamente a questo grande “mistero gaudioso”.
Che cosa ci manca?
Nella tradizione popolare francese esiste un singolare personaggio del presepio, chiamato ravi, che vuol dire rapito, incantato, estasiato, pieno di stupore e di gioia.
Qualcuno vorrebbe rimproverarlo perché non ha portato nulla da offrire al bambino Gesù, ma Maria lo difende: lui ha portato il dono più bello: i suoi occhi spalancati, colmi di stupore.
Noi questo spirito d’infanzia facciamo fatica a ritrovarlo.
Veniamo a queste celebrazioni con tutte le resistenze della nostra poca fede e della nostra ostinata razionalità.
Sentiamo risuonare una promessa di pace, un annuncio di salvezza?
Noi non siamo più disposti a seguire questi discorsi che, per le tante delusioni patite in passato, consideriamo falsi e alienanti.
“Dio mi deve spiegazioni. -diceva Ionesco- Quando sarà il momento gli chiederò perché il mondo è così bello e così atroce”.
Ma non c’è bisogno di aspettare quel momento per avere da Dio una risposta alle nostre legittime attese, se appena siamo capaci di sostare accanto al presepio con uno spirito contemplativo e invocante.
“Il Verbo si è fatto carne” ci dice Giovanni nel prologo del suo vangelo.
La parola di Dio si è rivelata nella carne del bambino nato a Betlemme.
Questo bambino non parla: è un infante, nel senso letterale della parola.
In realtà, parla più che se avesse la parola.
Parla non come parlerebbe un adulto, utilizzando concetti, idee, argomentazioni, ragionamenti (in questo caso sarebbe compreso da pochi, da quelli intellettualmente più preparati), ma parla con tutta la fragilità e la povertà della sua nascita in mezzo a noi.
E ci dice cose meravigliose.
Ci dice che Dio è amore.
Ha il volto della mitezza, della dolcezza, della semplicità, della fraternità.
E la nostra terra non è mai abbandonata da Dio.
Come lui non si stanca di amarla, così vorrebbe che neppure noi ci stancassimo di amarla.
Vorrebbe che stabilissimo un rapporto fraterno, simpatico, affettivo con tutta la creazione, con l’acqua, con l’aria, con le piante, gli animali, non profanando mai i beni della terra, ma rispettando e apprezzando.
Ma l’amore di Dio, ci dice ancora il bambino di Betlemme, si rivela soprattutto verso l’uomo.
”Il Verbo si è fatto carne”: il Verbo si è fatto uomo.
Ogni gesto di pietà o di rifiuto compiuto nei confronti dei nostri fratelli diventa un sì o un no che noi pronunciamo nei confronti di Dio.
Non ci capiti di deludere il nostro Dio.
Se così fosse, tutte le nostre belle liturgie natalizie sarebbero celebrazioni vacue, pura retorica religiosa.
E ci sarebbe perfino da vergognarsi.
Negli occhi, nel cuore, nelle mani in ogni fibra della nostra esistenza c’è il sigillo dell’amore di Dio che si è alleato con questa nostra umanità fatta di spirito e di carne, di improvvise esaltazioni e di tenaci avvilimenti.
Perché siano vere celebrazioni del Natale del Signore bisogna che esse portino ad adorare in ogni volto l’immagine di Dio.
Ogni volto umano, per quanto sfigurato dalla colpa, è un’icona, un riflesso del Verbo che si è fatto carne. Dio in Cristo ci restituisce il nostro vero volto, ci riconcilia con noi stessi, ci dona così la sua pace.
Res sacra homo, dicevano gli antichi.
Tanto più lo dobbiamo dire se crediamo nell’incarnazione del nostro Dio.
Perciò il culto da rendere a Dio passa attraverso i gesti che compiamo verso le persone che avviciniamo.
Non è possibile, in altre parole, amare Dio senza amare i fratelli che Dio ama.
E nella grande famiglia umana una tenerezza particolare è riservata da Dio ai poveri, ai deboli, agli incompresi, ai sofferenti: sono essi i più vicini al cuore di Dio.
Questo è il messaggio che ci trasmette il bambino di Betlemme, un messaggio che ci rivela il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.
Mi ha colpito questa affermazione che mi è capitato di leggere recentemente: “Dio si è fatto ‘nessuno’, perché tutti i ‘nessuno’ della terra avessero un volto, un nome, una dignità, una grandezza”.
Perciò, se mai volessimo rimanere in contemplazione di un nostro ideale presepio, dovremmo collocare, accanto a Maria e a Giuseppe, accanto ai pastori, vicinissimi al bambino, soprattutto le persone senza avvenire e senza speranza, tutti quelli che non hanno avuto nella vita la loro parte di tenerezza, tutti quelli che si sentono poco amati e perciò falliti.
C’è posto anche per noi vicino alla culla di Betlemme.
C’è posto se siamo capaci di abbandonare le nostre false sicurezze per ritrovare la misura della verità del nostro esistere, la nostra piccolezza e l’immenso bisogno di sentirci amati.
Questo bisogno di amore riguarda anche il Verbo di Dio che si fa carne e condivide pienamente la nostra umanità.
Anche lui ha bisogno di sentirsi amato e protetto.
Non è forse vero che Dio, da più di duemila anni, va interrogando instancabilmente i nostri cuori per vedere se c’è qualcuno che sia disposto ad amarlo, qualcuno per il quale sia capace di provare per il suo Dio una immensa pietà?
Etty Hillesum, questa straordinaria donna che nell’inferno di un lager nazista ha testimoniato l’amore e la speranza, nonostante avesse davanti agli occhi solo immagini di morte, ha potuto scrivere: “Ora tocca a noi aiutare Dio”.
Tocca a noi aiutarlo ora a nascere, a crescere, a trovare casa, a trovare lavoro, a trovare accoglienza e ospitalità.
Tutta la vita perciò va amata, la nostra e quella degli altri.
Amiamoci perché Dio ci ama.
Il bambino di Betlemme, che abbiamo visto come segno del vero volto di Dio e del nostro vero volto, diventa anche il volto della nostra possibile gioia.
Voglia il Signore non farci mai mancare quella speranza che a Betlemme si è accesa come luce avvolgente (“li avvolse di luce”) per i giorni oscuri della nostra vita.
Iscriviti a:
Post (Atom)