Luca 15, 1-32
Dopo le parole aspre che la liturgia ci ha fatto ascoltare domenica scorsa (ricordate: si parlava della necessità di odiare perfino i parenti più stretti per poter seguire Gesù),
oggi ci vengono proposti questi tre racconti che ascoltiamo sempre volentieri perché ci sembrano estremamente consolanti, colmi come sono di tenerezza, di delicatezza, di benevolenza da parte di Dio nel giudicare le nostre fragilità e le nostre miserie.
Ma è proprio vero che questi racconti non contengano nulla che possa impensierirci e guastare il nostro troppo facile compiacimento?
E’importante a questo proposito ripensare alla situazione in cui si è venuto a trovare Gesù.
Gesù, dice il vangelo, era attorniato da pubblicani e peccatori, ma c’erano pure scribi e farisei che mormoravano contro di lui, irritati per il suo atteggiamento troppo condiscendente nei confronti di tutta quella gente “perduta”.
“Allora egli disse loro questa parabola”
Gesù intende parlare anzitutto a questi scribi e farisei mormoranti che rappresentano tutti i benpensanti. Di tutti i tempi.
E se fossimo anche noi nel numero di questi benpensanti, come reagiremmo di fronte ai racconti di Gesù?
Li troveremo ancora deliziosi oppure particolarmente sgradevoli perché verrebbero a turbare la nostra presunta sicurezza di gente che sa come si debba trattare con certe persone?
Certamente è molto bello sentire parlare di un Dio così tenero, accogliente e perdonante, ma se pensiamo che l’esemplarità di Dio deve diventare la norma della nostra vita, saremo tentati anche noi di cancellare l’immagine che di Dio ci trasmettono questi tre racconti.
Ma prima che questo possa avvenire, immergiamoci ancora una volta, con immenso stupore, nella contemplazione del volto di Dio che Gesù ci ha voluto svelare.
E’ un Dio a cui sta a cuore il destino di ciascuno.
E un Dio che “trema” e “soffre” quando le sue creature si trovano smarrite lungo strade che possono portare alla rovina.
Come una madre o un padre che trattengono il respiro chiedendosi: ”Che cosa sarà mai di questa mia figlia, di questo mio figlio, a quest’ora della notte?”.
Un fatto è certo: noi possiamo abbandonare Dio, ma egli non ci abbandonerà mai.
E’ sempre lì, pronto, in attesa del momento favorevole per ristabilire i rapporti.
E’ un Dio di trepidazione e di tenerezza..
Di questa divina tenerezza ci parla il padre della parabola il quale segue con grande trepidazione l’avventura del figlio dilapidatore, lo attende ogni giorno, gli va incontro, gli butta le braccia al collo e organizza una grande festa.
Si parla di un figlio prodigo.
Ma sarebbe anche giusto parlare di un Dio prodigo. E’infatti un Dio di profusione, un Dio scialacquatore, un Dio non ragionevole.
Quello che è inverosimile nella parabola non è che il padre riaccolga il figlio.
Questo fa parte ancora delle cose di cui i genitori sono capaci.
Non tutti, ma ci sono.
Hanno visto i figli abbandonare la casa e partire per esperienze decisamente avventurose,.
Hanno saputo tenere la porta aperta.
Ciò che è incredibile nella parabola è che il padre faccia festa. E quale festa.
Perché faccia festa, questo non lo comprendiamo.
Perché noi ci comporteremmo diversamente.
La nostra mentalità è ben rappresentata dal fratello maggiore della parabola.
Anche se non arriviamo a raccogliere il sasso con cui lapidare il peccatore, questi rimane per noi segnato da una nota di infamia che non si potrà cancellare.
Potremo riprendere i rapporti, ma qualcosa si è guastato. Altro che festa.
Dio agisce diversamente. Perché Dio è fatto così.
Perché è Dio e non un uomo.
La sua passione è quella di salvare.
E perciò non accetta che una sua creatura sia sfigurata, lui che è bellezza trasfigurante.
Non accetta che una sua creatura sia infelice, lui che è gioia creatrice,
Non accetta che una sua creatura provi il gusto del nulla, lui che è sapore infinito di vita eterna.
Una volta, studiando il catechismo, si incontrava subito la domanda: “Chi è Dio?”.
“Dio è l’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra. Dio è immenso …Dio è onnisciente….” così si rispondeva.
Ma la risposta migliore è un’altra.
Se la vogliamo ripetere a noi stessi e confidare agli altri, dovremmo incominciare così: “Un uomo aveva due figli….”.
Ecco chi è Dio.
Ma torniamo al problema che ci siamo posti all’inizio: è proprio vero che questi racconti non ci debbano procurare anche qualche profondo disagio, visto che tutto ciò che viene attribuito a Dio dovrebbe servire come segnavia dei nostri comportamenti?
E’ il caso di richiamare nuovamente che Gesù è stato provocato a raccontare queste parabole dalla presenza di persone che mormoravano contro di lui, colpevole, a loro giudizio, di frequentare e amare persone irrrimediabilmente perdute.
A che servono, pensavano, tanti sforzi per avvicinare ciò che è definitivamente riprovato?
Perché essi hanno sentenziato: l’inferno esiste per davvero; comincia già su questa terra e definisce con molta chiarezza il dominio degli empi che devono sparire e quello dei giusti che devono essere salvati.
Tale è il principio che sostiene e anima ancora oggi tutti gli integrismi di tutte le religioni sotto tutti i cieli.
Di fronte a questa logica di esclusione, logica farisaica (non si dimentichi che fariseo vuol dire “separato”), Gesù propone un atteggiamento di accoglienza.
Per lui il peccatore non è che uno che ha smarrito il cammino. Ma finché vive, nulla è perduto.
Dobbiamo perciò domandarci: “Qual è il nostro atteggiamento verso i nostri compagni di strada che si sono smarriti o sono stati rifiutati dagli altri?
Come cristiani possiamo dire di essere testimoni dell’ instancabile misericordia di Dio?”
Una chiesa fondata sull’accoglienza e non sulla esclusione: è questo il sogno che Gesù ha voluto affidarci attraverso queste parabole.
Forse questa visione può irritare i difensori del rigore delle leggi canoniche.
Poco importa: basta pensare che questa scelta è pure la scelta di Dio.
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