C’è un Natale che conosciamo e un altro Natale che dovremmo conoscere, ma che, in realtà, facilmente ignoriamo.
Il Natale che conosciamo è quello di Betlemme.
Ogni credente, prima che venisse Gesù, aveva coltivato un sogno: di vedere Dio, di poterlo toccare, di incontrarlo faccia a faccia.
A partire dall’aurora dell’umanità, Dio non ha cessato, attraverso avvenimenti e personaggi significativi (si pensi ai profeti), di far filtrare qualche tratto del suo volto segreto.
Ma non erano che tracce di colore su una tela che rimaneva incompiuta.
Dio dimorava nella penombra. Il suo volto rimaneva come velato.
“Dio nessuno l’ha mai visto” scrive Giovanni nel prologo del suo vangelo.
Fino alla notte di Natale in cui, annunciandosi nel grido di un bambino appena uscito dal grembo di sua madre, Dio comincia a svelare il suo volto.
Quel Verbo di Dio che “era in principio” e che Giovanni ha contemplato nella profondità del mistero di Dio, ora ha preso la forma visibile e palpabile di un bambino appena nato.
L’umanità, con la nascita di Gesù, ha avuto la possibilità di vedere e di toccare il suo Dio.
Gesù è la più alta rivelazione di Dio, offerta nella nudità di un bambino.
E qual è il volto di Dio che si rivela in Gesù?
Per capire mettiamo a confronto il comportamento dell’imperatore romano, che era la più grande autorità del mondo allora conosciuto, e quello di Dio.
Cesare Augusto “ordina” (“Ordinò che si facesse il censimento”): è il suo modo di entrare in relazione.
Dio invece “annuncia” (“Vi annunzio una grande gioia”): inaugura un ordine nuovo, dischiude un cammino di libertà.
Cesare Augusto “ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”.
Tutta la terra ridotta in servitù: questo è il sogno dell’imperatore.
Per un editto calato dall’alto, bisogna farsi iscrivere nei registri pubblici per diventare un numero di matricola.
Dio invece annuncia la buona novella per “tutto il popolo” di cui egli non tiene alcuna contabilità, perché non è prevista, per farne parte, alcuna iscrizione preliminare.
Dio non ci dà che un segno: “Questo per voi il segno”.
Bisogna soltanto riconoscerlo.
E’ in quella notte di Natale che venne palesemente riaffermato il valore della libertà.
Questo, di cui abbiamo parlato, è il primo Natale.
Ma c’è un secondo Natale, meno conosciuto, anzi pressoché ignorato, eppure altrettanto importante.
Ne ha parlato l’apostolo Paolo quando, scrivendo ai cristiani del suo tempo, rivolge loro queste parole: “Figlioletti miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo sia formato in voi” (Gal. 4,19), cioè finché Cristo prenda forma in voi.
Ecco l’altro Natale di cui parla la Bibbia, quello in cui Cristo nasce non più in una stalla di Betlemme, ma in ciascuno di noi.
Se esiste questo secondo Natale, allora si capisce subito che il primo Natale, quello di Betlemme, era solo una tappa, non la conclusione di un progetto: il termine siamo noi, nei quali Cristo deve “prendere forma”.
Oggi nessuno potrà vedere Cristo sulla terra, nessuno saprà niente del suo volto, nessuno indovinerà il suo amore estremo se non ci saranno uomini e donne che siano trasparenza del volto di Cristo come Cristo lo è di Dio.
Ecco allora la domanda che l’altro Natale – così l’abbiamo chiamato – ci pone: possiamo dire che Cristo è nato in noi e che noi portiamo la forma di Cristo?
Un cristiano prende la forma di Cristo se ama la povertà di Cristo, la libertà di Cristo, i gesti e le parole di perdono di Cristo.
Un cristiano prende la forma di Cristo quando ha la passione di portare ai fratelli un po’ di luce, di speranza, di fiducia nella vita, di quella pace che è il dono grande del Natale.
A questo proposito, vorrei raccontare una piccola storia che mi è capitato di leggere in questi giorni. E’una storia vera, che ha come protagonista un giovane di 17 anni.
Questi, rimasto orfano, era stato accolto da una famiglia che lavorava la terra, dove veniva trattato più da domestico che da vero figlio.
Mai un gesto di affetto per lui, tanto meno di tenerezza.
Finché un giorno, chiuso nella sua solitudine sempre più esasperata, decise di farla finita con la vita ingerendo un detersivo molto potente e velenoso.
Un medico, prontamente accorso, lo trovò in preda a dolori strazianti e si sentì supplicare: “Aiutatemi a morire!”.
“Vuoi proprio morire?” gli chiese il medico.
“Sì, voglio morire”.
Allora il medico lo prese tra le sue braccia, lo strinse al petto e lo baciò.
È bastata una piccola frazione di tempo perché quel giovane cambiasse radicalmente la domanda e chiedesse: ”Posso sperare di salvarmi?”.
Fu così che, per merito della medicina o , più ancora, per un miracolo dell’amore, quel giovane si salvò.
Ho voluto narrare questa storia perché mi sembra che possa essere ascoltata come una parabola natalizia.
Un cristiano, come l’angelo di Betlemme, deve poter dire: “Vi annunzio una grande gioia”.
È importante perciò domandarsi: che cosa si aspetta la gente per essere felice?
Forse è vero: la salute, un lavoro, poter guadagnare abbastanza, avere soddisfazioni dai figli, essere ascoltati e amati è tutto ciò che vogliono le persone che incontriamo, sia pure con sfumature e accenti diversi.
Possono sembrare attese molto modeste, che non hanno alcun rapporto con la “grande gioia” che come cristiani vorremmo annunciare.
In realtà Gesù ci ama troppo per trascurare questa felicità così elementare che da sempre l’uomo va inseguendo e non sempre riesce a conquistare.
Perciò, chi vuol essere “forma di Cristo”, non deve pensare di offrire programmi di salvezza che siano separati dalla concretezza del vivere, ma deve cominciare a occuparsi del pane, del vestito, della solitudine, del freddo di tante persone.
La “grande gioia” infatti deve incarnarsi in qualche piccola gioia se vuole diventare credibile e suggerire orizzonti più vasti.
È questo il modo di vivere la seconda nascita di Cristo dentro di noi.Si tratta non tanto di celebrare il Natale con una devozione tanto sentimentale quanto sterile e incoerente, ma di vivere dentro di noi la seconda nascita di Cristo condividendo la sua instancabile e totale solidarietà con la sorte di ogni uomo.
domenica 30 dicembre 2007
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