domenica 2 dicembre 2007

III Domenica di avvento

Isaia 2, 3-5
Salmo 121
Romani 13, 11-14
Matteo 24, 37-44

Se qualcuno mi chiedesse di spiegare il senso esatto di tutte le parole che abbiamo trovato oggi nel Vangelo, direi subito di non essere in grado.
Abbiamo letto, ad esempio, che “due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato; due donne saranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata”.
Che cosa voleva dire esattamente il Signore con queste parole?
Io non saprei indicarlo.
Rimangono anche per me parole misteriose così come restano enigmatici e perfino inquietanti altri passi del vangelo.Devo aggiungere che non mi vergogno di non sapere.Ritengo anzi una fortuna il fatto di non comprendere tutto.
Se riuscissimo a capire e a spiegare tutto, noi potremmo pensare di essere i possessori della parola.
Ora Dio è più grande del nostro cuore. E nessuno può sentirsi proprietario.
Inoltre, se noi pretendessimo di conoscere perfettamente ciò che Dio ci ha detto, saremmo tentati di imporre agli altri la nostra comprensione, come se fosse la sola vera.
Vuol dire lasciare la porta aperta a tutti gli integrismi, a tutti i fanatismi e relative intolleranze.
Per contro, riconoscere che noi non comprendiamo tutto, dispone ad un atteggiamento di umiltà che ci fa sentire davanti al Signore come mendicanti di luce.
Dio non ci parla per soddisfare la nostra curiosità intellettuale.
Egli vuole che, a partire dal nostro desiderio mai appagato, ci sentiamo sempre protesi alla scoperta del suo mistero.
In questo senso si dovrebbe interpretare l’invito a vegliare che Gesù non si stanca di raccomandare in queste liturgie di avvento.“Vegliate dunque” abbiamo ascoltato anche nel vangelo di questa domenica.
Ci chiederemo: perché vegliare? E successivamente: Come vegliare?Perché vegliare, vigilare, prestare attenzione?
Perché il Signore, che verrà alla fine dei tempi nello splendore della sua divinità, viene sempre in mezzo a noi, seppure in modo molto discreto.
È venuto a Betlemme nell’umiltà e nella povertà del nostra natura umana, e continua a venire con lo stesso stile di semplicità, non alla maniera dei “Grandi” della terra, attraverso le vicende che siamo chiamati a vivere.
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” ci ha confidato Gesù nell’Apocalisse.
Egli bussa delicatamente alla porta.
Ma ci sono in noi tante voci che ci distraggono, tante preoccupazioni, tanti progetti diversi per cui non ascoltiamo chi sta bussando alla nostra porta.
Si ripete quello che è avvenuto ai tempi di Noé e che Gesù ha denunciato nel Vangelo.
“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito”: che cosa c’era da rimproverare in questi comportamenti?
Non c’erano eccessi, né dissolutezze, né palesi ingiustizie.
Facevano cose che altrove, nella Bibbia vengono lodate.
Che male c’è nel seguire gli appetiti naturali del vivere?
Chi vuol fare l’angelo, ha detto giustamente qualcuno, si riduce a fare la bestia.
Ciò che viene condannato è quello stato di incoscienza in cui spesso ci si trova a vivere, E’ la mancanza di attenzione e di apertura verso qualcosa di sorprendente che deve ancora avvenire.
E’ vivere come se Dio non esistesse.
Si corre allora il rischio di morire senza aver vissuto.Maurice Zundel, grande mistico del ‘900, ha detto “Se non sei vivo al momento della morte, non lo sarai mai”.
Ma per essere trovati viventi al momento della morte, bisogna saper vegliare.
Ma come vegliare?
Vegliare vuol dire saper costruire, come ha fatto Noè, giorno dopo giorno un’arca che ci possa salvare da ogni possibile naufragio.
Vegliare è dunque una questione di fede e di speranza, di quella speranza di cui ci ha parlato il papa nell’ultima enciclica.
Vegliare è la ferma fiducia di essere portati, custoditi, protetti, salvati al di sopra dei pericoli e della stessa morte, dentro una sorta di arca di Noé.
Ma per vegliare veramente bisogna occuparsi anche della sorte di coloro,che, accanto a noi, dimostrano di vivere bene, senza darsi alcun pensiero di Dio e dell’aldilà.
Con il nostro spirito apologetico abbiamo pensato che queste persone , dopo un’esperienza cosi paganeggiante, dovessero accusare una specie di vuoto pauroso.
Ma onestamente dobbiamo riconoscere che sono tantissime le persone che nei nostri paesi e nelle nostre città vivono come i contemporanei di Noé, con una invidiabile serenità.
E allora sorge un problema: perché inquietare queste coscienze, perché complicare la loro vita con le nostre preoccupazioni di ordine religioso?
Parlare dunque o stare in silenzio?
Possono parlare coloro che, avendo gustato i doni di Dio, sanno che esiste una felicità insospettata, più meravigliosa di quella procurata dai piaceri della vita.
Si tratta perciò di sedurre i nostri “pagani” moderni irraggiando su di essi la gioia della nostra fede.
Dobbiamo saper mostrare loro che il giudice temuto da tante persone al termine della vita è anzitutto il buon pastore.
E quando lo si tiene per mano, non c’è nulla da temere, né la morte, né alcun altro male

Nessun commento: