Che cosa rappresenta per noi l’Epifania?
Ne abbiamo fatto la leggenda di un viaggio favoloso, da collocare in una cornice di folclore.
Bisogna restituire all’epifania, almeno all’interno di una celebrazione liturgica, la sua densità teologica e salvifica.
Per questo è necessario aprirsi allo stupore rileggendo con attenzione il testo di Matteo.
Lo scenario evocato dal racconto ha dimensioni cosmiche tanto è vasto non solo in estensione ma anche in altezza.
Comprende infatti il limite estremo del mondo (“venuti dall’Oriente” si dice dei Magi) e la sommità più alta del cielo, là dove si affacciano le stelle.
E vasto è pure lo scenario di ordine storico, con la presenza di una città, Gerusalemme, carica di memorie e il rimando alle scritture in cui sono custoditi secoli di tradizioni religiose.
Questo vasto, immenso scenario ha un punto unificante, che vale cioè come centro di attrazione e di convergenza di tutti gli elementi che abbiamo richiamato.
Questo centro non è né in alto né in oriente e neppure a Gerusalemme.
Il centro di tutto ciò che esiste è Betlemme:”E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda”.
Che senso hanno gli astri e i pianeti su cui un giorno si è interrogato il grande Leopardi: “Che fai tu, luna, in ciel?”?
Che senso hanno le scienze astronomiche e quelle religiose?
E le ricerche smaniose degli uomini che scrutano i cieli e scrutano i libri?
Ci sono tante luci disseminate nel mondo, ma la luce vera, il vero Oriente, è quel bambino che è nato a Betlemme.
Dio si è rivelato e come luogo rivelativo per tutta l’umanità, per gli uomini dell’Oriente e dell’Occidente, per le persone colte e per quelle semplici, ha scelto l’umile condizione di un neonato.
Questo è il messaggio teologico dell’Epifania.
Insieme a questo messaggio, l’Epifania ne esprime un altro che riguarda le nostre risposte, cioè il cammino per arrivare fino a Gesù.
A questo proposito, bisogna considerare come esemplare e normativo il comportamento dei Magi e, prima ancora, quello della stella..
“E le stelle stanno a guardare” aveva detto anni fa uno scrittore denunciando l’impassibilità del cielo nei confronti di tutto ciò che vivono e soffrono gli uomini.
Ma le stelle, ci dice oggi Matteo, non sono impassibili: sono vivaci, partecipi, in movimento, docili a quella gravitazione che viene esercitata dal mistero di Betlemme.
Nel solco luminoso tracciato da una stella si muovono gli uomini venuti dall’Oriente, modellando la loro docilità sulla docilità della stella che li guida.
E’ una docilità a quell’attrazione misteriosa che da Betlemme si è trasmessa alla stella e dalla stella al loro cuore.
I magi diventano perciò dei cercatori dell’assoluto, uomini delle lunghe distanze e delle pazienti interrogazioni, sempre pronti a interpretare ogni segno della creazione e il volto di ogni viandante.
I Magi sono quello che noi non siamo capaci di essere.
Abbiamo davanti una lunga teoria di persone – e tra queste possiamo essere anche noi – che non ha più domande da fare, ma solo risposte da dare, certezze da affermare, con una perentorietà che non ammette obiezioni.
E’ gente che non legge e non pensa, non ama il silenzio e non prega.
Gente che possiede quel piccolo sapere specialistico che riempie di presunzione e non sa mettersi in sintonia con la verità più vasta e più profonda, quella che brilla nella luce di una stella o negli occhi di un bambino.
Ma torniamo ai Magi.
A me piace immaginarli con grandi occhi, occhi dilatati, capaci di vedere anche nella notte, occhi come di uccelli notturni.
Sapete che la civetta è l’animale simbolo dei monaci, degli uomini cioè amanti delle solitudini, capaci di vedere nelle tenebre l’approssimarsi dell’aurora.
Ma i Magi, nonostante i loro grandi occhi, non sarebbero ancora riusciti a vedere nell’oscurità di Betlemme se il loro guardare e interrogare non fosse stato accompagnato da altri gesti.
“Prostratisi, lo adorarono” dice il vangelo.
E poi offrirono doni.
La lezione è trasparente.
Una sapienza senza amore, che luce potrebbe dare?
La sapienza che permette di vedere è solo quella che si nutre di umiltà e di tenerezza.
Gli occhi vedono solo se il cuore è capace di amare.
Un poeta, Edmond Rostand, ha intuito bene questa verità quando ha immaginato - è il tema di un suo componimento - che ad un certo punto del viaggio i Magi avessero smarrito la strada.
Due erano bianchi, il terzo, il più povero, era nero.
Allora i primi due, forti del loro sapere, cominciarono a tracciare al suolo dei cerchi, con il bastone, si misero a calcolare grattandosi ogni tanto il mento per concentrarsi meglio.
Inutilmente. E piansero.
Il terzo, disprezzato dagli altri, disse tra sé: “Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.
E mentre sosteneva il suo secchio per abbeverare i cammelli, vide nello spicchio di cielo riflesso nell’acqua la stella d'oro che danzava in silenzio. Chi Chi è capace di vedere la luce fino a contemplare la luce vera che illumina ogni uomo?
Chi è capace di servire, di abbassarsi di fronte ad ogni creatura che soffre, fosse pure un piccolo animale?
I Magi, davanti a Gesù, si sono abbassati in un gesto di donazione e di offerta.
Si sono fatti piccoli, sulla misura del bambino.
E da quel momento – c’è da crederlo - hanno avuto l’impressione di essere sollevati: sollevati dalla oscurità di tante domande senza risposta, sollevati dalla paura per i tanti Erode che ci sono nel mondo, sollevati dalla schiavitù delle cose che catturano lo spirito.
Ritornando nella loro regione non avrebbero più trovato, a guidarli, una stella, ma la luce oramai la portavano dentro, dopo aver contemplato il bambino.
Se abbiamo celebrato bene questo Natale per aver cercato la verità e interrogato la parola di Dio e, soprattutto, per avere scelto di abbassare il nostro orgoglio e il nostro egoismo davanti a qualche piccolo, immagine viva del piccolo di Betlemme, anche noi questa luce la custodiremo dentro come un dono prezioso.
E che il Signore ce la conservi sempre, anche nei giorni difficili.
domenica 6 gennaio 2008
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