sabato 26 gennaio 2008

Santa Famiglia



Siracide 3,3-7.14-17
Colossesi 3, 12-21
Luca, 12.39-40
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La famiglia di Nazaret compie un pellegrinaggio al tempio.
Che cosa rappresenta il tempio, qualsiasi tempio, nel mondo religioso della persona credente?
Forse non si sbaglia dicendo che il tempio rappresenta il sentimento della stabilità e della continuità.
Fuori del tempio si svolge il fluire disordinato della vita, nel segno di improvvisi e imprevedibili cambiamenti.
Il tempio invece evoca l’ordine, la gerarchia dei rapporti, il culto della tradizione, quindi un senso di stabilità.
Si sa che molti uomini di cultura, soprattutto all’inizio del secolo scorso, si sono convertiti scegliendo di entrare nella chiesa cattolica perché questa sembrava offrire proprio quei valori di stabilità e di sicurezza che abbiamo visto richiamati dalla funzione del tempio.
Qualcosa di analogo sembra succedere oggi, se è vero che ci sono atei che si scoprono devoti.
Devoti di chi?
Non di colui che abita nel tempio (continuano infatti a professarsi atei), ma di certi valori rassicuranti che sono rappresentati dal tempio.
Se però noi oggi leggiamo attentamente questo racconto che troviamo nel vangelo di Luca, ci accorgiamo che il tempio, per la presenza di Cristo, non svolge più la tradizionale funzione rassicurante, ma rovescia completamente questa immagine.
Il tempio viene associato alla novità, alla contestazione del passato, al superamento di ciò che è vecchio.
E’ infatti nel tempio che Gesù pronuncia questa frase rivoluzionaria: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
In che senso si tratta di una parola rivoluzionaria?
Affermare che c’è un Padre che sta al disopra di ogni paternità umana vuol dire che i rapporti tra le persone, soprattutto all’interno delle famiglie, vanno interpretati e vissuti con una sensibilità nuova.
Se c’è un Dio che è Padre prima di te, la tua paternità o la tua autorità viene relativizzata per cui non puoi pensare di esercitare, come spesso succede, uno spirito di possesso o di dominio sulle persone.
Puoi dire “mio figlio”, ma senza enfatizzare troppo l’aggettivo possessivo, perché quel figlio, prima che tuo, è figlio di Dio.
Puoi dire “mia moglie”, ma rispettando e onorando in lei il mistero del suo personale rapporto con Dio.
Gesù, con le parole pronunciate nel tempio, ha smantellato i rapporti fondati su un amore che, più che amore dell’altro, è inconsciamente e morbosamente solo amore di se stesso.
Era quello che voleva dire Andrè Gide, celebre scrittore francese del secolo scorso, quando in un suo romanzo scrisse: “Famiglie, io vi odio”.
La frase scandalizzò molte persone, mentre si sarebbe dovuto capire quanto di giusto e di evangelico ci fosse in questo suo grido.
Non è stato del resto Gesù a dire:”Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”(Lc 14, 26)
Certo non si tratta di rinnegare il quarto comandamento, ma di odiare quello che in una famiglia si oppone alla vera crescita della persona.
Frequentare il tempio in cui si ascoltano queste parole di Gesù è come poter dire:”C’è un Dio che è dalla mia parte perché mi vuole liberare da tutte le tutele costringenti e mortificanti.
E lo stesso Dio mi ricorda che io devo esercitare con grande rispetto e delicatezza l’autorità sulle persone che mi sono affidate, mettendomi al servizio del progetto che esse sono chiamate a realizzare, seguendo la voce interiore dello Spirito”.
E’chiaro che in questa nuova prospettiva i ruoli all’interno della famiglia non sono mai rigidamente fissati per sempre, ma devono essere continuamente ricreati e rinnovati.
Si pensi ancora a Gesù nel tempio: sembra che a insegnare le cose di Dio non siano i sacerdoti o i dottori in teologia, ma un ragazzino venuto chissà da dove.
La stessa cosa potrebbe – dovrebbe – avvenire anche in una famiglia: non c’è nessuno che abbia da solo il diritto di parlare e di decidere per tutti, ma ciascuno deve mettersi in ascolto, perché la verità può essere portata da tutti, anche dal bambino più piccolo, quando dice cose che, proprio perché vengono da una voce innocente, hanno spesso il potere di sorprendere e di mettere in crisi la presunta sapienza del mondo adulto.
Il racconto del vangelo ci presenta dunque il tempio in una luce nuova.
Perciò chi ama lo status quo, le gerarchie fisse, l’attaccamento al passato resti lontano dal tempio, dove c’è una perenne novità rappresentata dalla presenza di Cristo.
Stia lontano lui e tutti quelli che vorrebbe proteggere da ogni ventata di novità.
Sarebbe troppo pericoloso avvicinarsi.
E’ vero che il racconto si chiude con il ritorno di Gesù a Nazaret, dove rimane sottomesso a Maria e a Giuseppe.
Apparentemente tutto rientra nella normalità
In realtà quella disobbedienza di Gesù e le parole dette nel tempio avevano segnato, in quella
famiglia ed ora in ogni famiglia umana che si lasci educare dal vangelo, un passaggio rivoluzionario nel modo di vivere i rapporti per poter crescere insieme “in sapienza, età e grazia”.
“Le cose del Padre”non impedivano a Gesù di rimanere in quella casa e vi rimarrà per più di vent’anni, ma con una riserva: sarebbe venuto il momento in cui liberamente avrebbe preso le distanze da quella casa, pur sapendo che la sua decisione non sarebbe stata facilmente accettata.
L’ubbidienza non è una virtù, è stato detto da don Milani con grave scandalo dei benpensanti.
E’ importante ubbidire, ma è importante anche resistere, quando all’interno di una famiglia si respira una sorta di filosofia della vita (quante cose si potrebbero dire in proposito) che è difforme da quella insegnata da Gesù.
Celebriamo oggi il giorno della memoria per ricordare la shoah, lo sterminio degli ebrei nei lager nazisti e la persecuzione antiebraica anche nel nostro paese con le leggi razziali promulgate proprio 70 anni fa.
Come non interrogarsi sulla responsabilità di tante famiglie nella diffusione dell’antisemitismo o comunque nel seminare anche oggi sospetti e diffidenze nei confronti di chi è diverso per razza, religione o cultura?
Sono temi, quelli che abbiamo trattato, molto complessi e delicati, che andrebbero affrontati con una riflessione pacata e silenziosa come ha fatto Maria la quale – si legge nel vangelo - “serbava tutte queste cose nel suo cuore”.
Certe cose, soprattutto quelle che non si capiscono, bisogna macerarle nel silenzio e, ancor più, nella preghiera, perché possano esprimere tutta la novità e la sapienza con cui Gesù ha orientato la nostra esistenza, aprendo davanti a noi percorsi di grande, indicibile, insopprimibile libertà.

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