Matteo 10, 37-42
Prenderò in esame alcune affermazioni di Gesù, cominciando da quella che certamente ha lasciato in noi un profondo turbamento.
Abbiamo ascoltato infatti parole molto inquietanti perché ci sembrano troppo severe: parole radicali, eccessive, si direbbe perfino violente: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”.
Come è possibile ascoltare queste parole senza provare una sorta di ribellione?
Abbiamo l’impressione che Gesù sia troppo esigente e pretenda l’impossibile.
C’è un amore, quello per i propri famigliari, che è primordiale, spontaneo, istintivo: come sarebbe possibile subordinarlo a qualcosa d’altro?
Eppure, ci dice Gesù, è proprio questo che noi dobbiamo ottenere da noi stessi.
L’amore infatti, quando è esclusivo, può diventare una forma di egoismo e le famiglie rischiano di trasformarsi in realtà chiuse, ripiegate su se stesse.
Nel vangelo di Tommaso, un vangelo apocrifo, ma non per questo privo di attendibilità, tra i 114 logia o detti attribuiti a Gesù, c’è pure questo: “Siate dei passanti”.
A me pare che il senso possa essere questo: “Non lasciatevi sequestrare da nulla, neppure dagli affetti più cari.
Non chiudetevi dentro il perimetro di un amore troppo ristretto.
Tenetevi sempre disponibili per un amore più aperto e pù grande”.
Gesù è diventato un “passante” quando ha lasciato la sua famiglia per seguire la sua strada.
Non intendeva certo rinnegare i legami famigliari, ma piuttosto salvare uno spazio di libertà personale, una disponibilità per qualcosa d’altro, una tensione verso un amore più grande.
Prendere la propria strada, anche a costo di rinunciare alle sicurezze abituali, non è soltanto la scelta personale di chi vuole essere discepolo di Cristo, ma è la sorte comune di tutti quelli che hanno un’anima.
Essi non possono installarsi da nessuna parte senza tradire la loro naturale inquietudine.
Lo spirito li agita.
Lo spirito agita soprattutto il cuore dei giovani e di coloro che sono rimasti giovani.
Perché è vero: se si cerca di difendere la propria tranquillità all’interno dei recinti protettivi abituali, è segno di invecchiamento.
Vuol dire dimenticare un’altra parola attribuita a Gesù: “Il mondo è un ponte: passaci sopra, ma non
stabilirvi la tua dimora”
E’un ammonimento che ci fa capire che se si vuol prendere il cammino che porta all‘altra riva, bisogna recidere ciò che ci trattiene nei limiti della nostra mediocrità.
Questo distacco deve interessare non soltanto i legami famigliari, ma anche il proprio mondo interiore.
Possiamo immaginare che dentro di noi agiscano due soggetti principali, che sono in opposizione tra loro.
Portiamo dentro un io idealista, generoso, altruista, disponibile per le cause più belle e più pure, e portiamo dentro, anche, un io totalmente diverso, governato dallo spirito del possesso, dell’utile, del guadagno.
Viviamo perciò un’esistenza schizofrenica, sollecitata cioè in due direzioni opposte.
Il vangelo oggi ci invita a risolvere questa situazione con una proposta paradossale: “Chi avrà perduto la propria vita…., la salverà”.
Si tratta di perdere il proprio io egoista, di sfrattarlo, di estrometterlo perché soltanto a questo modo avremo la possibilità di crearci interiormente uno spazio aperto all’ospitalità.
Proprio l’ospitalità è uno dei grandi temi di questa liturgia.
A chi bisogna aprire le porte della propria casa e prima ancora del proprio cuore?
“Ecco, io sto alla porta e busso.- si legge nell’Apocalisse - Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me ”(3,20).
Il problema è che Dio bussa alla nostra porta dissimulando la sua presenza sotto sembianze umane.
Nei primissimi tempi della chiesa –vi allude il vangelo - c’erano profeti itineranti che si facevano ricevere dalle famiglie dei credenti: erano predicatori, evangelizzatori, catechisti, missionari che avevano il compito di confermare nella fede i nuovi convertiti.
Profeti oggi da parte di Dio possono essere certe persone che è una fortuna poter incontrare, perché sono presenze benedette che ci parlano di Dio con il loro semplice esserci.
Ci sono momenti in cui prendiamo coscienza che la nostra vita vale in virtù di questi incontri, delle occasioni in cui ci è dato di aprire la nostra casa a queste presenze benedette la cui immagine a distanza di tempo ancora ci plasma e ci costruisce beneficamente.
Ma non possiamo dimenticare che il Signore può presentarsi a noi con il volto del forestiero, dello sconosciuto, del povero.
Ogni tanto Dio ama venire come un visitatore imprevisto la cui apparizione ci sorprende e potrebbe sconvolgere i nostri programmi.
Se pretendiamo sempre di sapere a chi il Signore dovrebbe assomigliare per poterlo accogliere, rischiamo di chiudergli la porta in faccia come già è successo quando “venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”(Gv 1, 11).
Se siamo capaci di ospitare, allora sia anche capaci di donare.
Nel vangelo si parla del bicchiere di acqua fresca (siamo nell’arido Medio Oriente) dato al discepolo di Cristo.
E’ sorprendente che in questo testo la più eroica rinuncia (“perdere la propria vita”) sia associato al gesto più semplice, più facile, più naturale: quello di offrire un bicchiere d’acqua.
Il senso è chiaro l’amore a cui ci chiama il Signore è alla portata di tutti.
Seguire, accogliere, ospitare il Cristo non vuol dire compiere gesti eroici, ma vivere con uno stile di servizio l’umile realtà quotidiana, sul filo degli incontri di cui è intessuta la nostra vita.
Ogni piccolo gesto può essere importante: una gentilezza, un sorriso, una premura, una parola buona, un grazie, un elogio (siamo così avari di apprezzamento!).
Tutto però dovrebbe essere fatto con naturalezza, senza calcolo e senza compiacenze.
Lasciamo che sia il Signore a fare memoria di quel bene, poco o tanto che sia, che ci è dato di realizzare.
Nel giorno del giudizio ultimo verrà portato alla luce anche quel bene che noi avremo dimenticato: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25, 40).