mercoledì 27 agosto 2008

XXI Domenica del tempo ordinario


Matteo 16, 13-20

“Voi, chi dite che io sia?”
Questa domanda, dopo avere attraversato la coscienza dei discepoli, rimbalza ora sulla sponda della nostra esistenza e si ripercuote dentro la cella segreta della nostra interiorità.
Chi è Gesù per noi? Che cosa rappresenta per la nostra vita?
Se mancasse Gesù, cambierebbe qualcosa nel nostro modo di affrontare l’esistenza?
E’ chiaro che ciascuno viene personalmente interpellato e deve dare una risposta che nasca dal suo particolare rapporto con Gesù.
Certamente potrebbe utilizzare intuizione e parole che appartengono alla tradizione cristiana (anche Pietro, del resto, nella sua risposta si serve di categorie religiose preesistenti), ma ciò che conta è che vengano investite di quel particolare pathos che rivela un legame personale, insostituibile e irrinunciabile.
Io credo comunque che le risposte più belle per Gesù siano quelle che, discostandosi dal linguaggio tradizionale, esprimono fede e amore in forme nuove, con la libertà che è propria degli innamorati quando sanno inventare un “lessico famigliare” pieno di immaginazione e di freschezza poetica.
Recentemente uno scrittore francese, Christian Bobin, ha dedicato a Gesù un piccolo libro dal titolo Il Cristo dei papaveri in cui a un cerio punto, per evocare la figura di Gesù nel suo mistero meraviglioso e inesprimibile, ricorre all’immagine del papavero.
Perché questo accostamento così strano e singolare?
Per dire tutta la fragilità e la forza di Gesù.
Il papavero è un fiore fragile ma è anche forte se può lacerare con il suo rosso smagliante la stoffa compatta e omogenea rappresentata da un campo di grano.
Io credo che anche questa risposta, come quella di Pietro, potrebbe meritare l’apprezzamento di Gesù : “Beato te, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma i Padre mio che sta nei cieli”.
Quando arriveremo anche noi a meritare questa beatitudine promessa da Gesù?
Non quando ripeteremo formule cristologiche perfette, ma senza un piccolo sussulto emotivo che esprima la gioia di conoscerlo e di amarlo, ma quando, sia pure usando immagini e parole che qualcuno potrebbe giudicare improprie o addirittura dissacranti, riusciremo a balbettare almeno qualcosa per confidargli:” Non potrei immaginare di vivere senza di te”.
In questo nostro balbettamento riguardante il fascino con cui Gesù ha conquistato la nostra vita, non dovrebbe comunque mancare una nota importante, la stessa che si trova nelle parole di Pietro quando dice: “Tu sei il Figlio del Dio vivente”.
A intenerirci dovrebbe essere soprattutto il fatto che Gesù ci offre la prossimità di Dio, di un Dio che si rivela attraverso il suo volto, la sua umanità, la sua pietà.
Nella Bibbia ci sono due immagini di Dio che si sono poi affermate nella storia della spiritualità.
C’è anzitutto l’immagine di un Dio onnipotente, che governa il mondo dall’alto della sua sovranità,che dà le leggi e le fa osservare con la prospettiva di premi o di castighi.
E’ il Dio che incute rispetto e perfino paura.
Ma c’è un’altra immagine di Dio.
In questo caso Dio non sta sopra l’umanità, come signore e legislatore temibile, ma prende un volto umano, quello di Gesù.
Allora nelle parole di Gesù: “ E voi, chi dite che io sia?” bisognerebbe avvertire la presenza di Dio che attende di essere riconosciuto con i tratti che maggiormente gli stanno a cuore.
Come è lo sguardo di Dio?
Lo sguardo di Dio lo conosco attraverso lo sguardo di Gesù: non è un sguardo indiscreto che ci raggiunge nei nostri piccoli o grandi segreti per poi giudicarci, ma è uno sguardo che ama cogliere la parte migliore di noi stessi per ridarci fiducia nel realizzare i desideri più veri e i sogni più alti.
E come è il cuore di Dio?
Guardo al cuore di Gesù che ha detto: ”Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
Gesù è umile, divinamente umile, nell’offrirci la presenza di Dio come un dono, non una conquista, come una grazia da accogliere, non come un premio da meritare.
Perciò quando il mistero di Dio dovesse creare nodi inestricabili nella mia coscienza, non faccio altro che guardare a Gesù: è lui che mi risolve tante difficoltà.
E quando il pensiero di Dio potrebbe alimentare qualche paura, è ancora Gesù che mi restituisce la pace che vado invocando.
Per questa via posso anche capire che cosa significhi appartenere a quella chiesa a cui Gesù allude quando dice a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Questa chiesa, prima di essere immaginata come una comunità strutturata per mezzo di una precisa gerarchia che trova in Pietro il suo punto di coesione, dovrebbe essere vista come una grande famiglia di testimoni in cui ciascuno, facendo eco alla confessione di fede data da Pietro, è chiamato a dire a Gesù: “Grazie, o Signore, perché tu mi riveli la prossimità, la tenerezza, l’amicizia di Dio, tu che di Dio sei il volto e l’immagine più vera.
Grazie perché è meraviglioso sapere che c’è Dio che ci ama e a noi chiede anzitutto di lasciarci amare”.

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