sabato 29 settembre 2007

XXVI Domenica del tempo ordinario

Amos 1a. 4-7
Salmo 145
1 Timoteo 6, 11-15
Luca 16, 19-31

Dal racconto che abbiamo letto prendiamo tre elementi che ci serviranno come traccia per la nostra riflessione.
Parleremo del “nome”, del “grande abisso”, della “parola di Mosè e dei profeti”.
“ Un mendicante di nome Lazzaro” si legge nella parabola.
Questo mendicante non ha niente: è solo, abbandonato, ignorato.
Però ha un nome, anzi è ricco del suo nome, perché Lazzaro vuol dire: “Dio aiuta”.
Il ricco invece è senza nome.
”C’era un uomo ricco” dice la parabola: un essere anonimo.
E’ un particolare non casuale, ma intenzionale.
Ed è un particolare importante.
Nella cultura semitica infatti il nome esprimeva l’identità profonda di una persona, la sua verità, la sua storia.
Perché il ricco che, senza dubbio, era più conosciuto di Lazzaro, non ha un nome?
Perché è un uomo senza storia e senza dignità.
Potremmo dire, senza uno spessore umano.
Non tanto perché ama i lauti banchetti e i vestiti ricercati.
Non dimentichiamo che anche il padre del figlio prodigo ha fatto uccidere il vitello grasso e ha dato una festa con musica e danza.
E non dimentichiamo che il figlio è stato rivestito delle vesti più belle, con l’anello al dito.
Ciò che invece definisce negativamente la sua esistenza è il fatto che questo banchettare lautamente con il vestire di porpora e bisso era diventato la sua regola di vita.
“Quotidianamente” osserva il vangelo.
Qual è la sua filosofia della vita, o la sua religione,o la sua fede?
Il suo credo coincide con quello che esibisce e che consuma.
Fosse almeno cattivo…
Sarebbe il segno di una personalità, sia pure malata.
Ma qui non c’è personalità.
Qui c’è il vuoto.
Rappresenta tutte la esistenze molli, inerti, grevi, pesanti del loro vuoto.
Esistenze fondate sulle apparenze fatue, sullo sperpero insensato.
Esistenze che vivono dell’effimero e sono votate all’effimero.
Un giorno il ricco morì e fu sepolto.
Soltanto di lui, non del povero, si dice che fu sepolto.
Come se fosse vissuto unicamente in funzione di questo momento, per essere interrato.
Vogliamo immaginare la scena?
Un bel discorso del rabbino, commovente, le condoglianze dalle famiglie dei cinque fratelli e fiori, tanti fiori…
Un funerale brillante.
Ancora una volta il trionfo dell’apparenza a mascherare il vuoto di un’esistenza.
Forse non è sbagliato pensare che di personaggi simili ne esistono anche oggi, soprattutto oggi, in questa nostra società dei consumi e dell’immagine.
E se fossimo anche noi in qualche misura tra questi?
L’altro elemento utile per la nostra riflessione è il “grande abisso”: “Tra noi e voi è stabilito un grande abisso”.
Lo stesso abisso esisteva già prima tra il ricco e Lazzaro.
Quanti abissi si scavano continuamente!
Abissi tra i paesi ricchi e i paesi poveri, abissi tra quelli che dettano le leggi dell’economia e quelli che sono costretti a subirle, abissi tra quelli che godono di mille raccomandazioni e quelli che devono avere una grande pazienza per tutto.
Abissi che separano persone che pure vivono sotto lo stesso tetto e si trovano alla stessa tavola.
La prossimità fisica in questi casi rende ancora più drammatica la distanza affettiva e spirituale.
Forse un abisso c‘è anche dentro di noi a separare un io che fa la parte di Lazzaro e un altro io che interpreta la parte del ricco senza nome.
C’è, in altre parole, un io povero, fragile, che invoca, per vivere, il pane della verità e dell’amore e c’è un io soddisfatto, dissipato, troppo intento a rimirare se stesso per accorgersi di chi sta bussando alla porta.
C’è bisogno di ponti gettati su tutti questi abissi per avvicinare il ricco e il povero, chi spreca e chi non ha nulla, il nostro io che geme e quello stordito che non sa ascoltare.
Chi ci darà la forza per operare questo miracolo?
Qui entra in gioco il terzo elemento della parabola: “Hanno Mosé e i profeti”.
È una risposta che forse ci delude.
Ameremmo, come il ricco della parabola, un aiuto più decisivo.
Se tornasse, per esempio, qualcuno dall’aldilà, come tutto sarebbe più facile.
Ma Gesù non è disposto ad assecondare la nostra domanda.
I miracoli più spettacolari, i richiami più solenni non servono: non hanno mai cambiato niente nel mondo.
Ciò che conta, è l’ascolto della parola di Dio.
Certo, c’è ascolto e ascolto.
Anche il ricco, si può pensare, ogni sabato in sinagoga ascoltava Mosè e i profeti.
E forse, prima di ogni banchetto, si concedeva la lettura di un brano della scrittura.
Ma non c’era in lui un vero ascolto.
Le orecchie erano aperte, ma il cuore era sordo.
È possibile dunque ascoltare senza mai incontrarsi né con Dio né con Lazzaro: senza mai convertirsi.
Occorre allora un altro tipo di ascolto.
Un mio amico prete usa frequentemente un’espressione molto efficace: bisogna - dice- macinare la parola.
:Mi pare di capire che cosa voglia dire bisogna triturarla, assaporarla, metabolizzarla, così che diventi in noi carne, passione, vita.
E poiché sappiamo che la parola si è fatta carne in Gesù, bisogna che si stabilisca tra noi e Gesù un rapporto così stretto da poter ripetere tutto quello che lui ha compiuto. Allora può nascere la passione di lanciare ponti sopra tutti gli abissi, come ha fatto lui, per raggiungere chi è dimenticato, mortificato, chiuso nella sua solitudine.
Non si tratta di promettere soltanto un capovolgimento di situazioni in una vita futura. I poveri sono stanchi di discorsi paternalistici che non fanno altro che perpetuare situazioni di scandalosa ingiustizia.
Tutto verrebbe rimandato all’aldilà.
Basta avere un po’ di pazienza. Allora ci sarà lo scambio delle parti.
I ricchi all’inferno e i poveri in paradiso.
E così giustizia sarà fatta.
No, Gesù non è venuto a predicare questa rassegnazione, ma a renderci partecipi della sua indignazione contro ogni ingiustizia.
È adesso che bisogna raddrizzare le cose storte, come del resto ammoniva il profeta Amos lanciando i suoi “guai!” contro gli spensierati e i bontemponi del suo tempo. Certo, per Gesù c’è una parola di salvezza anche per i ricchi,dalla vita sprecata e insignificante, a patto che, recuperata la dignità della persona, possano ritrovare il nome perduto in cui, come nel nome di Lazzaro, sia custodito questo messaggio di speranza: “Dio salva”.

domenica 23 settembre 2007

XXV Domenica del tempo ordinario


Amos 8, 4-7
Salmo 112
2 Timoteo 2, 1-8
Luca 16, 1-13

“Non potete servire a Dio e a mammona”
Mammona è la personificazione della ricchezza.
La parola, che appartiene al dialetto aramaico, ha la stessa radice dell’ebraico amen e pertanto sta a significare ciò è stabile e fermo.
Mammona rappresenta la ricchezza come un mito, come qualcosa di assoluto, quasi fosse una divinità.
Mammona si pone perciò in contrasto con Dio per cui è necessario scegliere: o Dio o mammona.
Sia chiaro: Gesù non condanna la ricchezza in sé e, in generale, i beni materiali, ma l’uso perverso che se ne può fare.
E questo succede quando la ricchezza esercita un fascino così totalizzante ed esclusivo da occupare le coscienze individuali e collettive come il valore supremo,
In questo caso, invece di essere a servizio dell’uomo, esercita sull’uomo una tirannia distruttiva.
In nome di questo dio terribile che è il dio denaro, quanti disordini spaventosi siamo costretti a registrare su questo nostro pianeta: guerre, droga, mafia, prostituzione, sfruttamento
Questo dio denaro è capace di distruggere tutto: coppie, famiglie, relazioni, istituzioni
Il potere devastante del denaro è efficacemente illustrato dalla denuncia che ne fa il profeta Amos.
Qui sono presi di mira soprattutto i commercianti disonesti che ricorrono a tutti gli accorgimenti possibili per aumentare i loro guadagni.
A questo modo i poveri diventano sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi
Ma anche il vangelo con la parabola strana dell’amministratore infedele fa capire a quali situazioni di estremo pericolo può condurre l’attaccamento smodato ai beni materiali.
Il problema è quello di liberare l’uomo dalla servitù nei confronti di questo idolo vorace che è il denaro, di desacralizzarlo in modo che esso non rappresenti più una divinità (mammona appunto) contrapposta a Dio, ma sia ricondotto alla sua funzione di strumento finalizzato alla crescita ordinata dell’uomo nel rispetto della giustizia e della convivenza sociale.
Le letture ci danno indicazioni molto utili perché possiamo attuare questa conversione.
Anzitutto bisogna coltivare una grande passione per la giustizia.
Troppe volte ci limitiamo a porre domande sulla giustizia al “Dio giusto”.
Troppo comodo chiedersi:” Perché Dio permette certe cose?”.
Dovemmo invece capovolgere la domanda e chiederci: “Perché noi tolleriamo questo stato di cose?”.
Sarà forse perché, poco o tanto, abbiamo tutti delle compromissioni o delle complicità con situazioni ingiuste o anche perché ci siamo formati un’idea sbagliata delle nostre responsabilità come cristiani nel mondo.
Non basta infatti “badare ai fatti propri”, o curare gli interessi del proprio gruppo o difendere i diritti della chiesa.
Primari sono i diritti del vangelo che coincidono con i diritti della giustizia.
La passione per la giustizia dovrebbe diventare in noi inquietudine, rimorso, coraggio di dire parole che scottano, come ha fatto i profeta Amos, che non si è limitato a una denuncia generica, ma ha saputo dare del ladro al ladro chiamando le cose e le persone con il loro nome.
Per coltivare la passione per la giustizia, c’è bisogno anche di modelli.
E c’è da augurasi che la chiesa, nel voluminoso catalogo dei santi, voglia trovare una visibilità sempre maggiore per “i martiri per la giustizia” che non mancano nel nostro tempo.
Penso a mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato mentre stava celebrando la messa, penso ai preti uccisi dalla mafia e con loro anche a tante nobili figure di laici osteggiati e uccisi perché hanno avuto il coraggio di protestare contro gli abusi del potere.
Paolo raccomanda di pregare per tutti quelli che stanno al potere perché possano trascorrere una vita calma e tranquilla.
Noi saremmo tentati di pregare perché i detentori del potere abbiano una vita difficile e poco tranquilla.
Ma non si tratta di abbracciare il malcontento oggi diffuso nella società italiana.
Si tratta piuttosto di fare opera di discernimento per onorare chi veramente agisce secondo le norme della lealtà e della onestà, per il bene della comunità, e per condannare chi invece si lascia governare dalla logica degli interessi privati, anche se mascherata da pubbliche e assidue professioni di fedeltà nei confronti della chiesa.
Ma passiamo ora alla .parabola narrata nel vangelo.
È una parabola imbarazzante e perfino scandalosa, visto che Gesù sembra lodare il comportamento di quell’amministratore infedele.
Ma a noi interessa cogliere l’esortazione con cui Gesù conclude la parabola: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”.
Si parlava all’inizio della necessità di desacralizzare il dio denaro che ci schiavizza, ci aliena, se diventa il valore supremo del nostro esistere.
E già avevamo trovato nelle prime due letture indicazioni molto utili per realizzare questa conversione.
Ma ora Gesù intende darci la lezione essenziale riguardante il buon uso della ricchezza.
Fatevi degli amici! usate i vostri beni come strumento di condivisione e d’amicizia!.
Spalancate le vostre mani nel gesto del dono, regalate un po’ di luce, di gioia e di speranza a chi è povero e sofferente.
Sarà il migliore investimento che avrete fatto delle vostre ricchezze, perché collocate nella banca del cielo.
A questo modo vi sarete fatti degli amici che un giorno parleranno bene di voi, presso l’Amico che vi attende.

















sabato 15 settembre 2007

XXIV domenica del tempo ordinario


Luca 15, 1-32

Dopo le parole aspre che la liturgia ci ha fatto ascoltare domenica scorsa (ricordate: si parlava della necessità di odiare perfino i parenti più stretti per poter seguire Gesù),
oggi ci vengono proposti questi tre racconti che ascoltiamo sempre volentieri perché ci sembrano estremamente consolanti, colmi come sono di tenerezza, di delicatezza, di benevolenza da parte di Dio nel giudicare le nostre fragilità e le nostre miserie.
Ma è proprio vero che questi racconti non contengano nulla che possa impensierirci e guastare il nostro troppo facile compiacimento?
E’importante a questo proposito ripensare alla situazione in cui si è venuto a trovare Gesù.
Gesù, dice il vangelo, era attorniato da pubblicani e peccatori, ma c’erano pure scribi e farisei che mormoravano contro di lui, irritati per il suo atteggiamento troppo condiscendente nei confronti di tutta quella gente “perduta”.
“Allora egli disse loro questa parabola”
Gesù intende parlare anzitutto a questi scribi e farisei mormoranti che rappresentano tutti i benpensanti. Di tutti i tempi.
E se fossimo anche noi nel numero di questi benpensanti, come reagiremmo di fronte ai racconti di Gesù?
Li troveremo ancora deliziosi oppure particolarmente sgradevoli perché verrebbero a turbare la nostra presunta sicurezza di gente che sa come si debba trattare con certe persone?
Certamente è molto bello sentire parlare di un Dio così tenero, accogliente e perdonante, ma se pensiamo che l’esemplarità di Dio deve diventare la norma della nostra vita, saremo tentati anche noi di cancellare l’immagine che di Dio ci trasmettono questi tre racconti.
Ma prima che questo possa avvenire, immergiamoci ancora una volta, con immenso stupore, nella contemplazione del volto di Dio che Gesù ci ha voluto svelare.
E’ un Dio a cui sta a cuore il destino di ciascuno.
E un Dio che “trema” e “soffre” quando le sue creature si trovano smarrite lungo strade che possono portare alla rovina.
Come una madre o un padre che trattengono il respiro chiedendosi: ”Che cosa sarà mai di questa mia figlia, di questo mio figlio, a quest’ora della notte?”.
Un fatto è certo: noi possiamo abbandonare Dio, ma egli non ci abbandonerà mai.
E’ sempre lì, pronto, in attesa del momento favorevole per ristabilire i rapporti.
E’ un Dio di trepidazione e di tenerezza..
Di questa divina tenerezza ci parla il padre della parabola il quale segue con grande trepidazione l’avventura del figlio dilapidatore, lo attende ogni giorno, gli va incontro, gli butta le braccia al collo e organizza una grande festa.
Si parla di un figlio prodigo.
Ma sarebbe anche giusto parlare di un Dio prodigo. E’infatti un Dio di profusione, un Dio scialacquatore, un Dio non ragionevole.
Quello che è inverosimile nella parabola non è che il padre riaccolga il figlio.
Questo fa parte ancora delle cose di cui i genitori sono capaci.
Non tutti, ma ci sono.
Hanno visto i figli abbandonare la casa e partire per esperienze decisamente avventurose,.
Hanno saputo tenere la porta aperta.
Ciò che è incredibile nella parabola è che il padre faccia festa. E quale festa.
Perché faccia festa, questo non lo comprendiamo.
Perché noi ci comporteremmo diversamente.
La nostra mentalità è ben rappresentata dal fratello maggiore della parabola.
Anche se non arriviamo a raccogliere il sasso con cui lapidare il peccatore, questi rimane per noi segnato da una nota di infamia che non si potrà cancellare.
Potremo riprendere i rapporti, ma qualcosa si è guastato. Altro che festa.
Dio agisce diversamente. Perché Dio è fatto così.
Perché è Dio e non un uomo.
La sua passione è quella di salvare.
E perciò non accetta che una sua creatura sia sfigurata, lui che è bellezza trasfigurante.
Non accetta che una sua creatura sia infelice, lui che è gioia creatrice,
Non accetta che una sua creatura provi il gusto del nulla, lui che è sapore infinito di vita eterna.
Una volta, studiando il catechismo, si incontrava subito la domanda: “Chi è Dio?”.
“Dio è l’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra. Dio è immenso …Dio è onnisciente….” così si rispondeva.
Ma la risposta migliore è un’altra.
Se la vogliamo ripetere a noi stessi e confidare agli altri, dovremmo incominciare così: “Un uomo aveva due figli….”.
Ecco chi è Dio.
Ma torniamo al problema che ci siamo posti all’inizio: è proprio vero che questi racconti non ci debbano procurare anche qualche profondo disagio, visto che tutto ciò che viene attribuito a Dio dovrebbe servire come segnavia dei nostri comportamenti?
E’ il caso di richiamare nuovamente che Gesù è stato provocato a raccontare queste parabole dalla presenza di persone che mormoravano contro di lui, colpevole, a loro giudizio, di frequentare e amare persone irrrimediabilmente perdute.
A che servono, pensavano, tanti sforzi per avvicinare ciò che è definitivamente riprovato?
Perché essi hanno sentenziato: l’inferno esiste per davvero; comincia già su questa terra e definisce con molta chiarezza il dominio degli empi che devono sparire e quello dei giusti che devono essere salvati.
Tale è il principio che sostiene e anima ancora oggi tutti gli integrismi di tutte le religioni sotto tutti i cieli.
Di fronte a questa logica di esclusione, logica farisaica (non si dimentichi che fariseo vuol dire “separato”), Gesù propone un atteggiamento di accoglienza.
Per lui il peccatore non è che uno che ha smarrito il cammino. Ma finché vive, nulla è perduto.
Dobbiamo perciò domandarci: “Qual è il nostro atteggiamento verso i nostri compagni di strada che si sono smarriti o sono stati rifiutati dagli altri?
Come cristiani possiamo dire di essere testimoni dell’ instancabile misericordia di Dio?”
Una chiesa fondata sull’accoglienza e non sulla esclusione: è questo il sogno che Gesù ha voluto affidarci attraverso queste parabole.
Forse questa visione può irritare i difensori del rigore delle leggi canoniche.
Poco importa: basta pensare che questa scelta è pure la scelta di Dio.



sabato 8 settembre 2007

XXIII Domenica del tempo ordinario



Sapienza 9, 13-18
Salmo 89
Filemone 9-10;12-17
Luca 14, 25-33


La sapienza – ce lo ha fatto capire la prima lettura – ha un ruolo fondamentale in ordine alla salvezza.
Ma che cosa è mai questa sapienza?
La parola, lo sappiamo bene, ha assunto nei tempi coloriture e sfumature diverse.
Nell’antichità sapiente era soprattutto il filosofo e, in particolare, il filosofo che si occupava di problemi di ordine morale.
In seguito venne considerato sapiente l’uomo dotto, colui che possedeva una grande erudizione ed era versato in molte discipline.
In tempi recenti si è visto che a creare e a rappresentare la figura del sapiente è soprattutto l’uomo di scienza, colui che detiene i segreti della natura.
Ma è questa la sapienza che salva, quella dei filosofi, degli eruditi, degli scienziati?
Nella prima lettura c’è un’affermazione che fa riflettere: “La tenda d’argilla (cioè il corpo) grava la mente dai molti pensieri”.
Abbiamo una mente inquieta, curiosa, smaniosa di conoscere: una “mente dai molti pensieri”.
Ma su questa mente inquieta “grava (c’è nel verbo un senso di irriducibile pesantezza) la tenda di argilla”: ciò che nella nostra condizione rappresenta lo spessore della ignoranza e di una invincibile ottusità.
Crediamo a volte di sapere, ma che cosa sappiamo?
Non sappiamo neanche esattamente che cosa è un fiore, una goccia d’acqua, un insetto nel suo movimento senza parlare di ciò che è infinitamente grande.
Ma anche supponendo di avere queste conoscenze, non sappiamo ancora cose ben più importanti: il senso della vita, che cosa è la felicità, il perché della sofferenza, che cosa nasconda la morte.
Problemi questi non oziosi, ma vitali, che ci portiamo dentro nella carne, nel sangue, nel vivo del nostro esistere.
Ecco perché di certe persone che dimostrano di sapere tutto, si potrebbe dire: "Sanno tutto, ma soltanto quello".
Ha ragione l’autore del Libro della Sapienza quando dice:”I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni ”.
Questo vuol dire che la vera sapienza è altrove.
Gesù del resto l’aveva detto: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra perché hai tenuto nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”(Mt 11,25).
La vera sapienza – è giunto il momento di dirlo - è la fede.
La quale fede non è un gioco di speculazione intellettuale.
Certo, anche l’intelligenza ha un ruolo importante.
Si tratta pur sempre di conoscenza,.
Ma è soprattutto – come si legge nel salmo responsoriale, la sapienza del cuore.
È un’intelligenza che coniuga dentro di sé la mente e il cuore.
E’un conoscere amando.
Se ami molto, ti si aprono davanti i segreti di Dio.
Quante cose impari che prima non conoscevi: che Dio è Padre e ama tutti, che il valore supremo è la fraternità, che ciò che conta agi occhi del mondo non salva dalla paura e dalla morte e paradossalmente ciò che non conta può essere strumento di salvezza.
Quante cose nuove, insospettate, incredibili.
Così dicendo veniamo a cogliere uno degli aspetti fondamentali di questa sapienza del cuore.
E una sapienza che non coincide con il cosiddetto buon senso, anzi ne costituisce spesso il polo opposto.
Il senso comune è ancora una forma di sapienza umana.
E’fondato su ciò che la maggioranza permette e approva.
Il senso comune è fatto di equilibrio, di misura, di cautela.
La sapienza evangelica invece sconvolge, scompiglia, sconcerta il senso comune.
Prendiamo gli esempi dalle letture.
Il senso comune considera la proprietà privata come qualcosa di assoluto, un valore intoccabile.
Chi estremizzando ha detto che la proprietà privata è un furto, ha sfidato generazioni di pensatori e di moralisti che avevano parlato della proprietà come voluta da Dio, fondata sul diritto naturale.
Noi abbiamo sacralizzato la proprietà.
Ma questo non fa parte della sapienza evangelica.
E’ significativa al riguardo la I lettura.
Per capire, bisogna prima richiamare i fatti.
Uno schiavo, Onesimo, fugge dalla casa del padrone Filemone.
Lo schiavo rappresentava allora un capitale. Anche senza rubare nulla al padrone, per il solo fatto di fuggire, era un ladro.
Paolo che lo ha accolto e trattato come un amico, anzi come un figlio (pensate: uno schiavo in fuga, agli occhi della gente, un delinquente) lo rimanda da Filemone, non per restituirgli il capitale perduto; lo rimanda infatti non più come schiavo, ma come amico.
C’è in questa piccola storia una lezione bellissima.
La proprietà è importante ma al di sopra c’è qualcosa d’altro. Altri valori, ben più preziosi. Il primo tra questi: l’amicizia, la fraternità. Il resto è nulla al confronto.
Chi è disposto a capire?
Un altro esempio ci viene dal vangelo.
“Se uno non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”
E’ una parola che fa spavento.
Una lettura letterale del testo fa del discepolo un misantropo o un masochista che preferisce la croce del calvario alla dolcezza di un focolare.
Gesù qui è agli antipodi di Confucio e della religione cinese che esaltano la pietà filiale e il culto degli antenati.
Ecco perché, quando i gesuiti predicarono in Cina, si guardarono bene dal citare questo testo di Luca.
Che cosa pensare dunque di questa parola di Gesù?
Bisogna anzitutto osservare che qui si avverte la mancanza del comparativo nella lingua aramaica, la lingua parlata da Gesù.
Probabilmente Gesù voleva dire che per seguirlo bisognava essere disposti ad amare lui più di tutti i famigliari, anche i più stretti.
Ma pur con questa attenuazione, la parola di Gesù conserva per noi una radicalità che dobbiamo cercare di capire.
Noi, oltre alla proprietà, abbiamo sacralizzato la famiglia.
La famiglia è tutto, ci siamo detti tante volte.
Ora Gesù con queste parole ci vuole dire che neppure la famiglia è tutto.
Al di sopra del padre mio, c’è il Padre nostro.
Al d sopra dei legami famigliari, c’è il legame con lui, il Cristo, c’è la sequela di Cristo.
Al di sopra dell’ideologia famigliare che quasi sempre è l’ideologia del buon senso, c’è la saggezza evangelica che non coincide con il buon senso, ma si sbilancia vesrso l’eccesso, la dismisura, la follia.
Che sia necessaria un po’di follia, l’avevano capito anche quei giovani studenti che avevano inventato questo slogan:”La pazzia è il sale che impedisce alla ragione di marcire”
Noi potremmo dire: “La follia evangelica è i sale che impedisce al nostro buon senso di essere troppo scipito,ovvio, scontato".
Non confondiamo la sapienza evangelica con il nostro buon senso.
Questo va contestato e superato.
La sapienza cristiana – non dimentichiamolo.- rasenta la follia.
È quello che Francesco aveva capito quando diceva: ”Il Signore ci ha rivelato essere suo volere che io fossi pazzo nel mondo”.
Questo andava detto se non si vuole tradire il vangelo.

domenica 2 settembre 2007

XXII Domenica del tempo ordinario

Luca 14, 1.7-14

Gesù, nella casa del fariseo, assiste alla scena indecorosa di gente che, entrando nella sala dove è preparato il banchetto, si preoccupa di occupare i primi posti.
Pare di vederle, queste persone, sopravanzarsi sgarbatamente, spudoratamente, mosse dalla smania, che c’è in ciascuno, di apparire, di mettersi in vista.
Gesù osserva e commenta la scena con parole, in un primo momento, dettate dal buon senso comune.
"Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto": si tratta di una buona norma di galateo che è sempre opportuno richiamare, anche solo per non correre il rischio di sprofondare nel ridicolo se qualcuno ti invitasse a lasciare il posto che hai abusivamente occupato.
Ma Gesù non si limita a ricordare una norma di comportamento, già iscritta del resto nel codice del nostro vivere sociale, ma vuole darci una lezione di ordine etico, che non coincide con il buon senso, anzi si pone in netto contrasto con il modo comune di pensare.
Si tratta di praticare l’umiltà e la generosità disinteressata.
Umiltà e gratuità sono due parole che nel linguaggio di oggi risultano estremamente problematiche.
Nella nostra società il prestigio è accordato non all’uomo modesto e disinteressato, ma al giovane dinamico, intraprendente fino ad essere aggressivo, in ogni caso assetato di riuscita e di promozione sociale.
È questo lo spirito che si respira in certe università e particolarmente in certe facoltà dove gli studenti hanno la possibilità di seguire lezioni per imparare a competere con gli altri, non importa come, per occupare i primi posti.
Gesù invece ha il coraggio di parlare di umiltà, di modestia, di dolcezza di modi.
L‘umiltà evangelica esige una forza morale fuori del comune, perché si oppone ai nostri riflessi elementari e alle nostre abitudini più radicate.
"Va' a metterti all'ultimo posto".
Dio ama gli umili. Li vede. Li solleva.
Perché l’umile ha coscienza della sua piccolezza di fronte alla grandezza di Dio.
Solo chi si offre come un vaso vuoto può essere colmato dei doni di Dio.
Accanto al valore dell’umiltà, Gesù esalta anche quello della gratuità.
Lo fa capire chiaramente rivolgendosi al fariseo che l’aveva invitato.
Tu, quando dai una festa conviviale, non invitare quanti sono pronti a loro volta a invitarti, ma invita quelli che non sono in grado di restituirti la cortesia.
E’una raccomandazione che dovrebbe riguardare da vicino anche la chiesa, visto che a volte anche nella chiesa si adottano gli stessi criteri mondani nell’assegnazione dei posti e nella valutazione delle persone per cui succede di vedere ai primi posti in certe liturgie solenni le persone ragguardevoli, quelle che di onori e di riconoscimenti ne hanno già ottenuti fin troppi, ben oltre i loro meriti effettivi.
Come è possibile rovesciare questa mentalità?
La risposta più semplice è questa: "Sarai beato perchè non hanno la possibilità di ricambiarti".
Dunque: solo la gratuità del gesto senza ritorno può rendere lieta la nostra esistenza terrena.
Siamo al cuore del messaggio di Gesù.
Ma forse era un messaggio troppo sconvolgente per gli stessi discepoli delle prime generazioni se i redattori del vangelo di Luca hanno sentito il bisogno di aggiungere una notazione che attenua di molto il senso della gratuità.
La notazione è questa: "Infatti sarai contraccambiato nella risurezzione dei giusti".
La versione attuale introduce quindi l’attesa di un premio: si deve dare a chi non può restituire in attesa di una ricompensa celeste.
Ma forse sulle labbra di Gesù ci doveva essere una più marcata sottolineatura della gioia della gratuità: devi dare a chi non può restituire proprio perché né lui né altri, ricompensandoti, possano sfigurare la bellezza del dono.
Non possiamo dimenticare che Gesù non ha mai impostato la vita del discepolo su criteri utilitaristici, ma sul fascino, inspiegabile e indimostrabile, della gratuità.
Proviamo ora a tradurre il contenuto del vangelo nella concretezza delle nostre situazioni, come se dal vangelo ci venisse rivolto un appello che potrebbe essere formulato in questi termini:
"Tu, che sei tentato, come tutti, di trovare gli spazi della sicurezza, prova a rischiare la via della insicurezza e della gratuità.
Non affannarti a metterti in vista. Lavora nel silenzio, sotto lo sguardo di Dio.
Non diventare complice, anche solo con il desiderio, con quelli che amano i primi posti.
Ma trova il coraggio di prendere le distanze, di smascherare la volgarità e la spregiudicatezza di certi successi.
Mettiti dalla parte di coloro che non hanno nulla da darti in contraccambio: i più deboli, i più umili, i più indifesi.
Difendili, sostienili,incoraggiali, invitali alla tavola della tua simpatia e della tua solidarietà.
E non devi calcolare nulla. Se calcoli la ricompensa, sciupi tutta la bellezza del tuo gesto.
Devi solo ubbidire al tuo cuore.
E' il cuore che ti detta gli slanci di generosità, il gusto del pudore e della discrezione nell’oscurità dell’ultimo posto.
Per quanto riguarda a ricompensa, può essere che tu non la veda mai.
Che nessuno venga a tirarti fuor dall’ultimo posto.
Che nessuno ti dica grazie per il bene ricevuto.
Ma la ricompensa c’è sempre, e già ora.
Il Signore stesso è la tua ricompensa, lui che ha suscitato dentro di te sentimenti che hanno fatto grande, bello, umano, divino il tuo cuore.
Ti accompagni la memoria calda e vivificante di Gesù il quale, queste parole lette nel vangelo, le ha personalmente interpretate e incarnate.
Ed ora la sua grandezza ci riempie di stupore: c’è stato mai qualcuno più grande, più umano, più ricco di libertà e di tenerezza, più amante della vita, più glorificato dal Padre e dagli uomini di Gesù di Nazaret?".