sabato 24 novembre 2007

II Domenica di avvento


Malachia 3, 1-4
Ebrei 10, 35-39
Matteo 21, 1-9

La scena descritta nel vangelo merita uno sguardo non superficiale.
E’ una scena corale in cui si danno appuntamento gli uomini, le piante, le cose e, soprattutto, Dio.
Passa Gesù e la sua presenza crea come un polo di attrazione per cui dal villaggio vicino arriva un’asina con il suo puledro, dagli alberi piovono fronde sulla strada, dalle case escono persone ad acclamare e a stendere i loro mantelli sotto i passi di Gesù.
“Scioglieteli e conduceteli a me” aveva detto Gesù. a me quando si era posto il problema di cercare una cavalcatura.
Questo “scioglimento” sembra interessare tutto il mondo, quello animato e quello inanimato, nel momento in cui avviene il passaggio di Gesù.
Si è tentati di leggere la scena come un’anticipazione di quella signoria di Cristo che troverà la sua piena espressione nella vittoria pasquale.
Quella vittoria sarà frutto della morte in croce.
Questo trionfo di Cristo è anch’esso legato non alla forza, ma alla debolezza.
“Beati i miti perché erediteranno la terra” aveva detto Gesù.
Ora Gesù ne offre quasi la prova.
Dove sono i segni abituali del potere?
”Ecco, il tuo re viene a te mite”
E che cosa si propone di fare Gesù?
Un rivoluzionario o un demagogo avrebbe acceso gli animi, assecondando le attese e dispensando generose promesse.
Gesù non prende alcuna iniziativa per conquistare il favore della folla.
Profeta disarmato e disarmante, entra nella sua città e intanto sogna un’altra città, la Gerusalemme da edificare con pietre vive, “nel più alto dei cieli”.
Quello che è avvenuto allora, a pochi giorni dalla Pasqua, si ripropone oggi per noi.
Gesù è sempre in cammino per fare il suo ingresso nella nostra città.
La città, secondo una tradizione raccolta nella Bibbia, è un segno della presunzione degli uomini e per questo la sua origine viene attribuita a Caino.
Ma la città, in una visione più pacata e, si potrebbe dire, più evangelica, testimonia pure la dimensione sociale dell’uomo, la sua capacità di progettare, di organizzare, di creare in una trama di rapporti complessi e costruttivi.
Se è vero che Gesù viene nella nostra città, quali sono i problemi che attendono da lui una risposta e un aiuto?
Vale la pena di richiamare, sia pure sommariamente, i principali.
Nella famiglia: povertà di rapporti, fragilità affettive, frustrazioni nel compito educativo.
Nel mondo del lavoro: debolezza e perdita del proprio ruolo, esasperazione della efficienza e della competitività.
Nella società: sfiducia nelle istituzioni, assenza di grandi valori collettivi.
Sul piano esistenziale: paura di fronte alla vecchiaia e alla morte.
A volte tutte queste difficoltà le sentiamo pesare nella nostra vita in un modo così violento che, se mai ci capita di pregare, siamo tentati di ripetere lo stesso lamento che una volta don Michele Do raccolse dalla bocca di uno dei suoi parrocchiani: “Signore, quand’è che ti metterai una mano sulla coscienza?”.
Gesù non viene a comporre, a sistemare, ad aggiustare l’ordine esistente.
Gesù viene in mezzo a noi proprio per aiutarci ad affrontare le difficoltà in vista di un ordine nuovo.
Però bisogna subito essere molto chiari.
Il suo passaggio provoca una crisi perché si traduce in un giudizio.
Abbiamo ascoltato poco fa le parole del profeta Malachia: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?
Egli è come il fuoco del fonditore e la lisciva dei lavandai”.
Il fuoco brucia e così la lisciva dei lavandai.
Il passaggio dl Signore non è indolore.
Vediamo nel vangelo che, mentre la folla grida il proprio entusiasmo, “tutta la città fu in agitazione”.
A creare questo conflitto è la mitezza con cui Gesù si presenta sulla scena.
Gesu entra in città come un re mite, un re che viene nel segno della mitezza e della non violenza, un re che viene senza separare la madre dal suo puledro, nel segno della tenerezza e della delicatezza verso ogni creatura, anche animale.
La città non è preparata a questa novità radicale, chiusa com’è nella logica del potere con tutto il suo corredo di spregiudicatezze, di compromessi, di falsità, di presunzione.
La folla invece comprende che Gesù rappresentava la mitezza di Dio il quale entra nelle nostre città non per condannare, ma per salvare.
È bello pensare a un Dio che viene verso di noi, a un Dio instancabile camminatore, a un Dio più tenace e più grande dei nostri desideri, a un Dio che viene nonostante la nostra vita spenta.
Certo, per capire queste cose, occorre quella fede di cui ci parla l’autore della Lettera agli Ebrei: ”Il giusto vivrà di fede “.
E’ una fede che ci permette di non “indietreggiare”, ma di andare avanti con costanza, anche nelle situazioni di debolezza.
E’una fede che ci porta a incontrare Cristo nelle strade della nostra città e a gridare di gioia perché è lui che ci dà fiducia con la sua mitezza così vulnerabile,eppure, al tempo stesso, così luminosa e vigorosa.


mercoledì 21 novembre 2007

Festa della dedicazione

Baruc 3, 24-38
2 Timoteo 2, 19-22
Giovanni 10, 22-30

Anniversario della chiesa cattedrale.

Anche a costo di apparire dissacrante, devo dire subito che la chiesa di pietra interessa fino a un certo punto, molto meno indubbiamente della chiesa di carne, la chiesa viva, fatta di pietre vive, che è la chiesa della fede.
La chiesa di pietra sembra evocare principalmente la dimensione della stabilità e della solidità.
Una chiesa che avesse come modello una di queste superbe costruzioni come il Duomo sarebbe una chiesa nostalgicamente rivolta al passato, ai tempi forti della cristianità, quando era possibile creare queste opere grandiose che esprimevano la fede di tutto un popolo.
Questa nostalgia è comprensibile, ma può essere paralizzante.
C’è il rischio di inseguire l’immagine di una chiesa statica, immobile, preoccupata unicamente della propria sopravvivenza.
Sarebbe una chiesa senza respiro, sempre sulla difensiva nei confronti di un mondo considerato come ostile.
Sarebbe una chiesa che dispensa il proprio insegnamento tradotto in certezze inoppugnabili, mortificando in tale modo gli interrogativi di ogni spirito di ricerca.
Sarebbe una chiesa preoccupata di salvare i riti del passato, come la messa in latino, mortificando in questo caso lo Spirito santo che è spirito di libertà e di creatività.
Sarebbe una chiesa tentata di misurare la propria vitalità sul numero dei praticanti, e di distinguere,o peggio di separare chi è dentro e chi è fuori.
Ma il pericolo maggiore è quello di sequestrare Dio, di tenerlo prigioniero.
Ora Gesù ha sempre difeso la libertà di Dio sottraendolo ad ogni tentativo di volerlo possedere in modo esclusivo, dentro precisi spazi stabiliti dall’uomo.
“Credimi, donna, - aveva detto alla samaritana – è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre (…). Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4, 21.24).
Oggi si sente la necessità di abbandonare questa immagine di chiesa statica, immobile, troppo preoccupata della propria sopravvivenza.
Davanti al mondo deve presentarsi con un’immagine diversa , come realtà viva e palpitante, che non si lascia racchiudere in alcuna costruzione, ma ama spazi aperti, percorsi da inventare, mete da superare.
Questa idea di movimento è suggerita in modo particolare dal vangelo dove incontriamo Gesù che passeggia lungo il portico di Salomone e ama definirsi come pastore buono.
Attraverso questa immagine la chiesa appare come una realtà viva, che si riunisce attorno alla presenza di Cristo, il quale, come pastore buono, la guida con amorosa trepidazione.
L’essenziale non sono dunque le costruzioni, per quanto siano belle le chiese romaniche o gotiche o anche quelle moderne.
L’essenziale sono gli esseri umani.
E’quello che don Michele Do, che molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere e di stimare per la sua grande sapienza evangelica, amava ricordare quando diceva: “Cristo non è venuto a portare l’uomo dentro il tempio, ma il tempio dentro l’uomo”.
Era un modo per richiamare quello che l’apostolo Paolo aveva affermato dicendo:“Voi siete il tempio di Dio” e, prima ancora, quello che ci è stato rivelato nelle prime pagine della Bibbia, là dove è detto che Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, infondendo il suo soffio divino.
Ogni creatura umana perciò non solo è immagine viva di Dio, ma è anche tempio. dimora: “è la tenda di Dio sulla terra”(A. Casati).
La passione di Cristo per ogni uomo e ogni donna si fondava proprio su questa meravigliosa verità.
E ogni discepolo di Cristo deve sentirsi chiamato a testimoniare il suo amore per ogni creatura sulle strade del mondo.
Ciascuno di noi infatti è mandato a evangelizzare nel senso letterale della parola, cioè a portare gioia , soprattutto a coloro che sono discriminati: i poveri, gli emarginati, le persone sfortunate.
L’annuncio è che Dio non discrimina nessuno, neppure i peccatori, bensì li accoglie così come sono, per puro amore.
Sarebbe grave se dessimo l’immagine di un Dio che ama solo alcuni, quelli che sono devoti, pazienti, esemplari in tutto, e non gli altri.
E come potrebbe essere credibile una chiesa che si dimostrasse indulgente con i potenti e fosse invece pronta a intervenire con sanzioni e proibizioni verso quelli che giudica irregolari?
Il Dio di Gesù Cristo è colui che accoglie i non accolti: è un Dio non delle sanzioni, ma della grazia.
Il vangelo di Gesù spazza via tutte le discriminazioni e le esclusioni.
E’ bello immaginare la chiesa come popolo di Dio in cammino, in cui ciascuno si senta accolto e sia pronto a fraternizzare cercando di superare le diversità.
Solo così la chiesa sarà come Gesù l’ha sognata.

domenica 18 novembre 2007

1^ Domenica di avvento


Isaia, 51, 4-6
Salmo 49
2 Tessalonicesi 2, 1-4.8-10.13-14
Matteo 24, 1-14..29-31..42

Il tempo di avvento, che oggi iniziamo, ci parla di una venuta (la parola avvento vuol dire appunto che qualcuno o qualcosa sta per venire) e conseguentemente della necessità di saper attendere e sperare.
Che cosa si profila all’orizzonte della nostra esistenza? Dove va la storia? Che cosa sarà di questo mondo?
E che cosa sarà di noi dopo che sarà chiusa questa nostra vicenda segnata da precisi limiti di tempo e di spazio?
Sono domande difficili da affrontare.
Si preferisce vivere senza pensarci.
Certo non mancano i futurologi i quali fanno previsioni per lo più allarmanti sul destino degli uomini e di questo nostro pianeta.
Ciò che manca è la coscienza collettiva, quel modo cioè di sentire comune che porta a guardare avanti e a dilatare la nostra speranza oltre i confini del presente.
Anche noi cristiani diamo l’impressione di avere smarrito la dimensione del futuro.
C’è una brevissima poesia di Sandro Penna che definisce molto bene la condizione vagheggiata da molti, credenti e non credenti, di fronte alle difficoltà della vita.
“Io – dice il poeta - vivere vorrei / addormentato / entro il dolce rumore / della vita”.
Il sogno comune sarebbe quello di abbandonarsi a un dolce stato di torpore che ci metta al riparo dalle asprezze e dalle tensioni che sempre ci accompagnano quando siamo costretti a fare delle scelte in modo consapevole.
Gesù oggi vuole farci uscire da questo stato di inconsapevolezza mettendoci davanti qualche immagine di ciò che si sta preparando.
Il quadro degli accadimenti che ci attendono è quanto mai allarmante.
Attraverso le parole di Gesù ci pare di assistere a un crollo generale che investe sia l’ordine cosmico, sia l’assetto sociale, sia il sistema dei valori morali e spirituali.
Per quattro volte Gesù parla di inganni e tradimenti, per quattro volte parla di guerre e di violenze.
Dobbiamo dunque coltivare un senso di paura per tutto quello che si profila come minaccia all’orizzonte del nostro destino?
Gesù non voleva certo predicare qualcosa che si risolvesse in uno stato di ansietà, anche perché, a pensarci bene, quello che Gesù assegna al futuro è già presente dentro la storia dell’uomo.
Ciò che Gesù voleva annunciare è un messaggio di salvezza.
“La mia salvezza durerà sempre” aveva già promesso Dio attraverso la voce del profeta Isaia.
E l’apostolo Paolo, ai cristiani di Tessalonica, scrive: “ Dio vi ha scelti come primizia di salvezza”.
Questa salvezza il Signore la mette in rapporto con il suo ritorno glorioso.
Perché temere se possiamo coltivare questa speranza di incontrarci con il Signore?
Se il Signore che attendiamo è quello che abbiamo conosciuto attraverso le pagine del vangelo, non c’è alcuna ragione di temere.
Chi più di lui ha saputo comunicare il gusto della libertà e offrire gesti di toccante tenerezza per suscitare fiducia nella vita presente e in quella futura?
Il Dio che fa paura non esiste. È una pura invenzione.
Il Signore è un amico che viene (i mistici del Medioevo anzi dicevano: è un amante).
Si tratta perciò di andargli incontro con il cuore colmo di fiducia e di gioiosa trepidazione.
Si comprende come la virtù dell’avvento sia la vigilanza.
“Vegliate” ci dice Gesù.
E la voce del profeta Isaia ci raggiunge con questo pressante invito: “Levate il capo”.
Bisogna saper alzare il capo, al di sopra dello scenario rattristante della nostra storia che sembra precipitare verso il basso, segnata com’è dall’inganno e dalla violenza, e tendere l’orecchio del cuore per cogliere i passi segreti del Signore che viene.
Il modo migliore di preparare questo incontro è quello di vivere con stupore i tanti incontri che il Signore già ci concede, disseminati lungo i percorsi della nostra esistenza.
Se è vero infatti che il Signore verrà, è altrettanto vero che il Signore già viene, viene incessantemente, quotidianamente, in modo discreto, dentro le nostre abituali consuetudini di vita.
Ogni giorno è tempo di avvento e tempo di incontro.
Tutto quello che ci capita è sacramento, perché racchiude e dona una presenza.
Nasce una domanda: c’è qualche situazione o qualche momento privilegiato in cui sia più facile avvertire la bellezza di questo incontro?
In altre parole: dove trovo il Signore, dove mi appare, dov’è la sua venuta?
Il Signore, che è amore, si mette, per così dire, nelle mani di quelli che si amano.
Prima di ogni religione e di ogni chiesa, sono gli esseri che si amano il sacramento della presenza di Dio.
Chi dona amore, dona Dio, o quanto meno un presentimento di quell’abbraccio con cui il Signore ci accoglierà per introdurci nel suo regno.
Vegliare, in attesa di Dio, come ci raccomanda Gesù nel vangelo, vuol dire intuire in ogni espressione di amore, fosse pure il più piccolo gesto di gentilezza e di delicatezza, il battito della presenza di Dio e anelare a un amore più grande, senza più i limiti che mortificano il nostro cuore e il nostro affetto.
La speranza più grande è che un giorno, quando il Signore ritornerà nella pienezza della sua gloria, anche i nostri affetti siano tutti trasfigurati per intensità, tenerezza, trasparenza e fiducia.
È importante sognare questo giorno.
Ma soprattutto importante prepararlo coltivando i momenti della più limpida amicizia in cui, ricevendo e donando, sia possibile confidarsi: ”Ecco, il Signore viene, anzi è già con noi”.

domenica 4 novembre 2007

XXX1 Domenica del tempo ordinario


Sapienza 11, 22-12,2
2 Tessalonicesi 1, 11-2,2
Luca 19, 1-10

Incontriamo oggi nel vangelo un personaggio singolare, Zaccheo.
Basta averlo incontrato una volta per custodire nella memoria la sua immagine e la sua storia.
Era piccolo di statura, ma questa sua scarsa prestanza fisica non gli aveva impedito di guadagnare moltissimo.
Se i pubblicani erano invidiati e anche detestati per i loro troppo facili guadagni nel riscuotere le tasse per conto dei Romani, si può facilmente capire quanto dovesse essere florida la condizione di Zaccheo, che dei pubblicani era il capo riconosciuto.
Dalla piccolezza della sua statura è stato poi favorito il giorno in cui, non potendo accostarsi a Gesù che attraversava la città di Gerico per la folla che aveva fatto muro davanti a lui, pensò di arrampicarsi su un sicomoro per seguire dall’alto il passaggio di Gesù.
Possiamo qui aprire una parentesi: qui c’è uno che cerca di avvicinarsi a Gesù e trova un ostacolo.
Da chi viene impedito?
Dalla massa osannante che si stringe attorno a Gesù.
Non potrebbe essere – la domanda è provocatoria – che certe imponenti manifestazioni religiose più che avvicinare a Dio, rappresentano un ingombro per chi lo cerca veramente?
Torniamo ora a Zaccheo al quale il fatto di essere piccolo è servito ad aggirare l’ostacolo.
Una volta conquistata quella favorevole posizione che conosciamo, è facile immaginare i sentimenti e le emozioni che deve aver provato.
Anzitutto la soddisfazione di avere conquistato la cima dell’albero con l’agilità di un ragazzino, soddisfazione che compensava largamente qualche ammiccamento malevolo che tra la folla gli pareva di cogliere nei suoi confronti.
E poi c’era sempre quell’inquietudine profonda che lo mordeva da tempo e che l’aveva portato a prendere quella decisione strana, di aspettare il passaggio di Gesù appollaiato su una pianta di sicomoro.
Si sarebbe accorto Gesù, passando, della sua presenza e della sua ardente attesa di uno sguardo, almeno, che lo liberasse dalla sua penosa solitudine e gli portasse in dono un poco di pace?
Dio, attraverso Gesù, si è ricordato di Zaccheo.
Il nome“Zaccheo” significa proprio questo:”Dio si ricorda”.
Apparentemente l’iniziativa è di Zaccheo, che brucia dal desiderio di vedere Gesù, ma non sarebbe successo niente se Gesù non avesse alzato lo sguardo.
E’ importante sostare un istante a contemplare questi due sguardi che si incrociano.
C’è un verbo che apre e chiude l’episodio di Zaccheo: è il verbo “cercare”.
Di Zaccheo è detto : “cercava di vedere Gesù”.
Di Gesù è detto: “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto”.
“Sulla strada di Gerico, che è la strada della vita, possono incrociarsi queste due ricerche, quella di Dio e quella dell’uomo: un Dio inquieto e un uomo inquieto. La salvezza è in questo verbo, o se volete, in questa inquietudine del cercare” (A. Casati)-
A partire dallo sguardo di Gesù su Zaccheo, tutto ormai prende uno sviluppo rapidissimo, nel segno di una grande gioia.
Che Zaccheo scenda subito dall’albero, perché la grazia è per oggi, non per domani!
E’ per oggi che Gesù si autoinvita nella sua casa.
Tanto peggio per coloro che in disparte disapprovano e vanno mormorando: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”.
Gesù questa volta non esita a dare scandalo.
C’è infatti uno scandalo da evitare, ma, secondo il vangelo, c’è uno scandalo doveroso, quando si tratta di accogliere i peccatori, perché scandalosa è la misericordia di Dio.
E che questo scandalo sia fecondo di risultati sorprendenti lo dimostra il comportamento di Zaccheo.
Senza essere sollecitato da Gesù, decide di restituire quello che aveva ingiustamente guadagnato, ben al di là delle esigenze fissate dalla legge.
La misericordia era senza misura, la conversione lo sarà pure.
L’amore trascina nella logica della sovrabbondanza e della dismisura.
Zaccheo,che rimane felicemente sorpreso della generosità di Gesù, prova a sua volta il desiderio di procurare gioia.
La casa di Zaccheo diventa non più la casa dell’appropriazione egoistica, ma la casa della condivisione e della riconciliazione.
Diventa la casa del miracolo.
Sì, perché Gesù può finalmente superare lo sconforto che l’aveva portato a dire:
“Quanto è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio.
E'più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco enrare nel regno di Dio!" (Lc 18, 24-25).
Qui Gesù scommette addirittura sul ricco, che dovrebbe essere la carta perdente.
E il miracolo avviene.
Zaccheo non vede più gli altri come individui da sfruttare, ma li vede come fratelli.
E impara per la prima volta a coniugare il verbo “condividere”, a usare le mani non solo per prendere, carpire, strappare, tenere, ma per dare.
La roba, i beni, il denaro non sono più oggetto di conquista, e neppure “proprietà privata” intoccabile, ma diventano sacramento di fraternità e di amicizia.
A causa delle ricchezze accumulate, Zaccheo era uno scomunicato, un separato.
Ora, nel segno della condivisione, diventa l’uomo dell’incontro.
Per questo Ambrogio, riflettendo anche su questa pagina di vangelo, potrà dire: “Non c’è colpa nell’essere ricchi, ma nel non sapere usare le proprie ricchezze”.
Si diceva prima che la casa di Zaccheo era diventata la casa del miracolo.
Da quel giorno le chiese, anche le più gloriose cattedrali, non sono che l’umile casa di Zaccheo dove peccatori e santi si trovano fraternamente con Dio.
La Chiesa non è fatta per i santi, ma per “salvare ciò che era perduto”.
Ora, Zaccheo può portare il suo nome vero: “Dio si ricorda”.

Tutti i santi


Apocalisse 7, 2..14
Salmo 23
1 Giovanni 3, 1-3
Matto 5, 1-12
Chi è il santo?
Ho aperto un dizionario e ho trovato questa definizione: “santo è colui che conduce una vita irreprensibile, in tutto conforme alle leggi della morale e della religione”.
Ho chiuso il dizionario e mi sono detto: “Questo discorso non fa per me. E’ troppo alto, troppo arduo da realizzare “.
Ho letto allora le beatitudini, e di nuovo ho avvertito il solco profondo che separa ciò che sono da ciò che dovrei essere:“Non sarò mai felice come promettono le beatitudini, non potrò mai sperare una ricompensa nei cieli”
Infine mi sono messo a osservare attentamene il comportamento di Gesù nei suoi incontri con uomini e donne sulle strade della Palestina.
Nessuna delle persone incontrate corrispondeva alla definizione del dizionario.
Ho visto attorno a Gesù malati gravi, altri posseduti da spiriti immondi, ho visto pubblicani, prostitute, donne adultere, e pure pagani e soldati romani.
Anche gli apostoli erano ben lontani dall’ideale di santità che Gesù aveva proclamato sul monte delle beatitudini.
Ora Gesù, incontrando questa gente, non pone mai alcuna condizione.
Non dice mai: “Comincia a pentirti dei tuoi peccati, a convertirti e a conformare la tua vita alle leggi della morale e della religione.
E’sempre lui che fa il primo passo, che tende la mano, che va a mangiare con loro.
Perché agisce così?
Perché Gesù è la pura trasparenza della santità di Dio, che è amore, soltanto amore.
Per questo la santità di Dio è contagiosa.
Come il sorriso di un amico rischiara il nostro volto, così la santità di Dio è come un raggio di luce e di bellezza sul volto di coloro che Dio chiama a diventare suoi figli: “noi fin d’ora –scrive Giovanni – siamo figli di Dio”.
Santi sono perciò tutti coloro che, in unione con Cristo, il santo per eccellenza, diventano riflesso puro e meraviglioso della sovrumana, incomparabile bellezza che c’è in Dio.
Come è possibile riconoscere i santi che sono tra noi?
Dimentichiamo pure i criteri di riconoscimento che hanno sempre goduto di un certo privilegio nella sensibilità popolare, come i miracoli, le visioni, le stimmate , ecc.
Affidiamoci piuttosto alle letture di questa liturgia le quali ci possono orientare nel riconoscere i tratti fondamentali della santità.
Il primo, ce lo dice il vangelo, è quello della povertà: “beati i poveri in spirito”.
Si potrebbe anche dire: “Beati i poveri di cuore”.
Il cuore povero è quello che la salvezza la attende solo da Dio, a differenza del cuore soddisfatto che pensa di bastare a se stesso.
Questa povertà è un’attitudine interiore che può essere favorita da molte situazioni.
Ci si sente poveri quando si è deboli e disarmati (sono i miti di cui parla il vangelo) o si patisce lo scandalo dell’ingiustizia o si è perseguitati o si è colpiti da un lutto (”quelli che piangono”dice il vangelo).
Poveri di cuore sono quelli che fanno delle loro lacrime un grido, una protesta, un appello, una preghiera.
Poveri di cuore sono tutti coloro che mettono la loro causa nelle mani di Dio.
Questi poveri di spirito, questi poveri di cuore sono presenze luminose che esercitano un fascino particolare.
Mentre gli orgogliosi, i soddisfatti ci feriscono perché sono opachi e rimandano a se stessi, i poveri ci illuminano, ci purificano, tracciano un cammino di luce nella storia, ci conducono verso la sorgente di ogni bene e di ogni speranza.
Il santo – è un altro tratto fondamentale – è colui che possiede il segreto di una strana gioia.
“Beati” dice Gesù. Felici: voi conoscete la felicità.
Come è possibile?
Noi la felicità la vediamo solo nel passato, quando ricordando siamo portati a idealizzare oppure nel futuro, quando immaginando siamo portati a rappresentarci immagini di sogno, come dei miraggi.
Ma quanti sono quelli che hanno il coraggio di affermare che sono felici oggi, felici di una felicità che sentono come destinata a durare?
Sono felici quei cristiani che si comportano come se tutto quello che fanno fosse un’imposta da pagare a Dio?
Se per essere cristiani si deve pagare a Dio l’imposta della morale o della preghiera o del culto, dove è la gioia?
Qui non c’è gioia perché non c’è santità.
Che se fossimo un poco santi…
Allora capiremmo che Dio non è un essere lontano, straniero e temibile, ma è un Padre che chiama ciascuno con il nome dolcissimo di figlio.
Capiremmo che come figli di Dio non dovremmo avere paura di nulla.
Saremmo anzi testimoni di una segreta, incredibile felicità.
Questa felicità la possiamo provare già ora, e d’altra parte crediamo che nella sua pienezza la conosceremo un giorno, quando si avvererà quello che la liturgia dei defunti augura al momento del commiato:
“Ti sia dato di contemplare
la dolcezza del volto gioioso di Cristo Gesù”.
Da queste riflessioni forse abbiamo ricavato l’impressione che i santi siano pochi.
Ma è giunto il momento di rincuorarci.
In realtà il numero dei santi è ben al di là di quello che noi possiamo immaginare.
Solo che per riconoscerli bisogna affinare lo sguardo, perché i veri santi amano una certa condizione di clandestinità..
I veri santi sono umili, non fanno rumore, non sanno neppure cosa voglia dire il culto della personalità, tanto ne sono estranei.
Bernanos diceva che i santi “hanno il genio dell’amore”
E’vero, a patto di vedere questo amore senza alcun alone di grandezza umana, ma praticato in quella quotidianità dell’esistenza che richiede una bontà disinteressata, coraggiosa, paziente e una grande , incrollabile speranza.
Oggi è la festa dei santi in cielo e dei santi che sono sulla terra, di tutte quelle persone la cui esistenza è un sorriso per altre persone.
Alcuni di questi santi anonimi agli occhi del mondo noi li conosciamo bene: sono i nostri genitori e altri famigliari che ci hanno amati, sono educatori e sacerdoti che ci hanno fatto conoscere Gesù con la loro fede limpida e gioiosa, sono tante altre persone che abbiamo visto sempre pronte a servire con la passione della giustizia e della pace.
Non dimentichiamoli in questo giorno, evochiamo i loro nomi con rispetto e gratitudine, preghiamoli. Anche se i loro nomi non figurano nel calendario dei santi.
Oggi è la loro festa ed è anche la nostra festa.
Beati noi se oggi senza saperlo - non oseremmo nemmeno pensarlo – mentre festeggiamo i santi di ieri e di oggi, ci troviamo a festeggiare noi stessi, almeno per quel poco di nostalgia della santità che lo Spirito tiene vivo dentro di noi.