domenica 30 dicembre 2007

Domenica tra l’ottava del Natale

Matteo 2,13-15,19-23

La fuga in Egitto è stato un tema molto trattato dai grandi maestri della pittura classica.
Maria, Giuseppe con il piccolo Gesù vengono rappresentati per lo più in un momento di riposo, protetti da una natura particolarmente accondiscendente, quasi a voler prolungare
la suggestione poetica del Natale.
Ma le letture di questa liturgia non permettono di indugiare su queste immagini idilliache.
Esse ci parlano di una famiglia minacciata, che è costretta alla dura esperienza della fuga e dell’esilio. E’una liturgia perciò che ci vuole distogliere da certe atmosfere natalizie
troppo morbide e smemoranti per renderci consapevoli della drammatica avventura che il figlio di Dio, facendosi uomo, è venuto ad affrontare condividendo la nostra storia.
Si vuole dire questo: che per il figlio di Dio il farsi uomo non è stata una finzione, ma un fatto estremamente serio, vissuto senza sconti o privilegi.
E’ passato da poco il suo natale, e già la sua vita è minacciata.
C’è un Erode che lo vuole sopprimere.
C’è una violenza dentro la storia che si accanisce contro i piccoli, le creature più fragili quali sono i bambini.
Penso ai tanti bambini denutriti che affollano i campi profughi disseminati nelle nazioni più povere o a quelli che vediamo approdare sulle nostre spiagge scampati durante la traversata al rischio continuo di fare naufragio.
Penso ai tanti bambini (pare che siano oltre 250 milioni) resi schiavi del lavoro, della prostituzione o abbandonati nelle strade delle favelas in Sudamerica.
E’chiaro: Erode cambia nome, ma la realtà è la stessa. Il posto di Erode è preso oggi dal potere economico, dal fanatismo religioso e politico, dalla sessualità arrogante, da ogni forma di potere perverso.
Questo nostro mondo è sempre segnato dallo scandalo del dolore innocente che costituisce, come sappiamo, la più seria difficoltà per la nostra fede.
Saremmo tutti tentati di rivolgere a Dio questo lamento raccolto da Don Michele Do dalla voce di un contadino della Val d’Ayas:”Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Il Signore qualche nota di conforto oggi ce la offre attraverso la vicenda del bambino Gesù raccontata nel vangelo.
Anzitutto ci porta a vedere che c’è un potere di chi è debole tanto da far paura ai potenti.
La nascita di Gesù mette paura ad Erode.
Da dove viene questo potere?
Dal fatto che i piccoli, cioè tutte le creature fragili e indifese, godono di un particolare rapporto con Dio.
Abitati da Dio, esprimono nel loro volto indifeso, nel loro sguardo innocente una forza straordinaria.
E’ la ragione per cui (le testimonianze al riguardo sono numerose) coloro che nei campi di sterminio nazisti praticavano sui detenuti le più feroci vessazioni non guardavano in faccia le loro vittime.
Tu puoi sopprimere un innocente, ma il suo sguardo diventa un grido, un giudizio, un tormento invincibile.
Il violento è sempre uno sconfitto, anche quando trionfa.
C’è un secondo motivo di incoraggiamento che ci viene trasmesso oggi dal vangelo.
Dio ha un suo modo di condurre la storia che non è quello che viene esercitato dai potenti della terra.
C’è una teologia della storia che può essere espressa mediante le parole di Maria nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.
Erode muore e per tutti gli Erode di questo mondo arriva il momento in cui escono di scena, senza lasciare alcun rimpianto, anzi con un senso di sollievo generale.
E ci sono quelli che, come Giuseppe, si prendono a cuore la causa dell’innocente con l’incrollabile fiducia che l’ultima parola spetta a Dio e che anche nella cronaca più nera c’è una luce: c’è una parola di Dio che sempre ci incoraggia a sperare.
Rimane però sempre aperto il problema angosciante del dolore innocente.
Questo, già l’abbiamo detto, è lo scandalo più grave per la coscienza del credente.
Perché devono soffrire i bambini?
Cosa risponde il nostro Dio?
Gesù non è venuto a spiegare il dolore.
E’venuto a condividerlo.
Da Betlemme in poi la sofferenza è il pane che il Figlio di Dio divide con l’uomo.
Là dove si soffre, anche se la sofferenza è muta, anche nella sofferenza degli animali, anche nella sofferenza della natura (anche la natura soffre e geme in attesa della salvezza), in ogni dolore c’è una partecipazione e una solidarietà del Figlio di Dio nato a Betlemme.
Perciò tutti i nostri interrogativi si sciolgono oggi in preghiera:
“Signore, non ci capiti mai di far soffrire i piccoli, non ci capiti mai di doverci caricare di questa immensa responsabilità.
Rendici anzi capaci di lavorare perché si riduca lo scandalo dei piccoli che soffrono.
E la sofferenza irriducibile che sta al di là delle nostre possibilità, noi la consegniamo a te perché tu la raccolga come un grido. E sia il grido di una nuova nascita”.

Natale del Signore

C’è un Natale che conosciamo e un altro Natale che dovremmo conoscere, ma che, in realtà, facilmente ignoriamo.
Il Natale che conosciamo è quello di Betlemme.
Ogni credente, prima che venisse Gesù, aveva coltivato un sogno: di vedere Dio, di poterlo toccare, di incontrarlo faccia a faccia.
A partire dall’aurora dell’umanità, Dio non ha cessato, attraverso avvenimenti e personaggi significativi (si pensi ai profeti), di far filtrare qualche tratto del suo volto segreto.
Ma non erano che tracce di colore su una tela che rimaneva incompiuta.
Dio dimorava nella penombra. Il suo volto rimaneva come velato.
“Dio nessuno l’ha mai visto” scrive Giovanni nel prologo del suo vangelo.
Fino alla notte di Natale in cui, annunciandosi nel grido di un bambino appena uscito dal grembo di sua madre, Dio comincia a svelare il suo volto.
Quel Verbo di Dio che “era in principio” e che Giovanni ha contemplato nella profondità del mistero di Dio, ora ha preso la forma visibile e palpabile di un bambino appena nato.
L’umanità, con la nascita di Gesù, ha avuto la possibilità di vedere e di toccare il suo Dio.
Gesù è la più alta rivelazione di Dio, offerta nella nudità di un bambino.
E qual è il volto di Dio che si rivela in Gesù?
Per capire mettiamo a confronto il comportamento dell’imperatore romano, che era la più grande autorità del mondo allora conosciuto, e quello di Dio.
Cesare Augusto “ordina” (“Ordinò che si facesse il censimento”): è il suo modo di entrare in relazione.
Dio invece “annuncia” (“Vi annunzio una grande gioia”): inaugura un ordine nuovo, dischiude un cammino di libertà.
Cesare Augusto “ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”.
Tutta la terra ridotta in servitù: questo è il sogno dell’imperatore.
Per un editto calato dall’alto, bisogna farsi iscrivere nei registri pubblici per diventare un numero di matricola.
Dio invece annuncia la buona novella per “tutto il popolo” di cui egli non tiene alcuna contabilità, perché non è prevista, per farne parte, alcuna iscrizione preliminare.
Dio non ci dà che un segno: “Questo per voi il segno”.
Bisogna soltanto riconoscerlo.
E’ in quella notte di Natale che venne palesemente riaffermato il valore della libertà.
Questo, di cui abbiamo parlato, è il primo Natale.
Ma c’è un secondo Natale, meno conosciuto, anzi pressoché ignorato, eppure altrettanto importante.
Ne ha parlato l’apostolo Paolo quando, scrivendo ai cristiani del suo tempo, rivolge loro queste parole: “Figlioletti miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo sia formato in voi” (Gal. 4,19), cioè finché Cristo prenda forma in voi.
Ecco l’altro Natale di cui parla la Bibbia, quello in cui Cristo nasce non più in una stalla di Betlemme, ma in ciascuno di noi.
Se esiste questo secondo Natale, allora si capisce subito che il primo Natale, quello di Betlemme, era solo una tappa, non la conclusione di un progetto: il termine siamo noi, nei quali Cristo deve “prendere forma”.
Oggi nessuno potrà vedere Cristo sulla terra, nessuno saprà niente del suo volto, nessuno indovinerà il suo amore estremo se non ci saranno uomini e donne che siano trasparenza del volto di Cristo come Cristo lo è di Dio.
Ecco allora la domanda che l’altro Natale – così l’abbiamo chiamato – ci pone: possiamo dire che Cristo è nato in noi e che noi portiamo la forma di Cristo?
Un cristiano prende la forma di Cristo se ama la povertà di Cristo, la libertà di Cristo, i gesti e le parole di perdono di Cristo.
Un cristiano prende la forma di Cristo quando ha la passione di portare ai fratelli un po’ di luce, di speranza, di fiducia nella vita, di quella pace che è il dono grande del Natale.
A questo proposito, vorrei raccontare una piccola storia che mi è capitato di leggere in questi giorni. E’una storia vera, che ha come protagonista un giovane di 17 anni.
Questi, rimasto orfano, era stato accolto da una famiglia che lavorava la terra, dove veniva trattato più da domestico che da vero figlio.
Mai un gesto di affetto per lui, tanto meno di tenerezza.
Finché un giorno, chiuso nella sua solitudine sempre più esasperata, decise di farla finita con la vita ingerendo un detersivo molto potente e velenoso.
Un medico, prontamente accorso, lo trovò in preda a dolori strazianti e si sentì supplicare: “Aiutatemi a morire!”.
“Vuoi proprio morire?” gli chiese il medico.
“Sì, voglio morire”.
Allora il medico lo prese tra le sue braccia, lo strinse al petto e lo baciò.
È bastata una piccola frazione di tempo perché quel giovane cambiasse radicalmente la domanda e chiedesse: ”Posso sperare di salvarmi?”.
Fu così che, per merito della medicina o , più ancora, per un miracolo dell’amore, quel giovane si salvò.
Ho voluto narrare questa storia perché mi sembra che possa essere ascoltata come una parabola natalizia.
Un cristiano, come l’angelo di Betlemme, deve poter dire: “Vi annunzio una grande gioia”.
È importante perciò domandarsi: che cosa si aspetta la gente per essere felice?
Forse è vero: la salute, un lavoro, poter guadagnare abbastanza, avere soddisfazioni dai figli, essere ascoltati e amati è tutto ciò che vogliono le persone che incontriamo, sia pure con sfumature e accenti diversi.
Possono sembrare attese molto modeste, che non hanno alcun rapporto con la “grande gioia” che come cristiani vorremmo annunciare.
In realtà Gesù ci ama troppo per trascurare questa felicità così elementare che da sempre l’uomo va inseguendo e non sempre riesce a conquistare.
Perciò, chi vuol essere “forma di Cristo”, non deve pensare di offrire programmi di salvezza che siano separati dalla concretezza del vivere, ma deve cominciare a occuparsi del pane, del vestito, della solitudine, del freddo di tante persone.
La “grande gioia” infatti deve incarnarsi in qualche piccola gioia se vuole diventare credibile e suggerire orizzonti più vasti.
È questo il modo di vivere la seconda nascita di Cristo dentro di noi.Si tratta non tanto di celebrare il Natale con una devozione tanto sentimentale quanto sterile e incoerente, ma di vivere dentro di noi la seconda nascita di Cristo condividendo la sua instancabile e totale solidarietà con la sorte di ogni uomo.

sabato 22 dicembre 2007

VI Domenica di avvento

1 Samuele 7, 1-5.8-12.14-16
Salmo 88
Romani 16, 25-27
Luca 1 26-38

Bisognerebbe leggere i testi di questa liturgia con l’animo aperto a un infinito stupore.
Come quando da piccoli ci capitava di ascoltare una storia meravigliosa, con gli occhi che brillavano per la dolce emozione.
Perché tutto ciò che ci viene raccontato è nel segno della novità, della sorpresa, dell’incantamento.
E non si tratta di una favola, ma di una realtà che ha la leggerezza di una favola.
Protagonista assoluto di questa narrazione è Dio, o meglio, la fantasia di Dio.
E’una fantasia, quella di Dio, che noi stentiamo a seguire in tutti i suoi imprevedibili percorsi.
Dico “noi” occidentali, che ci siamo arresi alla dimensione della razionalità tecnologica mortificando la immaginazione e gli slanci del cuore.
Anche il nostro mondo religioso soffre di queste angustie se è vero che siamo tutti pronti a riconoscere che “nulla è impossibile a Dio” (come dice a Maria l’angelo dell’annunciazione), ma di fatto pretendiamo di essere noi a governare la volontà di Dio, con il risultato di vivere una religione dove tutto è scontato, prevedibile, risaputo e perciò noioso; dove anche Dio diventa noioso, in quanto creato a nostra immagine e somiglianza.
Ma Dio è libertà totale, è novità, è sorpresa.
E’ un Dio che non può essere relegato negli spazi ristretti che noi gli assegniamo, perché egli sbuca fuori da tutte le parti.
Questo osservazioni le possiamo ricavare già dalla prima lettura, dove si parla dell’idea che ebbe Davide, quando finalmente potè godere di una dimora degna di un re.
Allora pensò: ”Non è giusto che il mio Dio non abbia una casa dove dimorare voglio costruirgli una dimora confortevole almeno quanto la mia.”.
Verrebbe voglia di applaudirlo, ma c’è un particolare non trascurabile: Dio non è d’accordo.
Non sarà Davide a dare una casa a Dio, ma sarà Dio a cercare una casa per sè.
In che modo si sarebbe attuata questa profezia?
La piena realizzazione la conosciamo attraverso il testo di Luca.
“Lo Spirito santio scenderà su di te…su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”: è stupenda nella sua profondità e delicatezza questa espressione.
Si parla dunque di Dio, di un Dio che discende e quasi dimentica la sua dimora eterna per dimorare n mezzo agli uomini.
E dove Dio intende porre la sua nuova dimora?
Dire che la casa di Maria è il nuovo tempio di Dio è qualcosa di vero e insieme di non completamente vero.
La dimora sarà ancora più piccola per colui che è l‘immenso e l’eterno: la dimora sarà la carne di Maria.
Il grembo di Maria è l’arca, la tenda, il tempio di Dio.
Ma neppure quest’ultima affermazione esprime tutta la novità del vangelo.
C’è un altro tempio, più piccolo ancora, più segreto: un nulla di tempio.
E’quel germe di carne che prende vita nel ventre di Maia: in quel niente si rivela l’inaccessibile e l’invisibile Dio.
Mistero immenso la venuta di Dio fatta di soffio e di ombra, mistero stupendo se si pensa che la salvezza non è significata in questo racconto da una perfezione morale conquistata a duro prezzo, ma da un abbandono all’azione gratuita di Dio.
“Piena di grazia” così l’angelo saluta Maria: piena cioè dell’amore gratuito di Dio.
La salvezza consiste nel lasciarsi amare.
E’ un messaggio meraviglioso soprattutto per noi che ci troviamo a misurarci con i nostri limiti morali e spirituali, sempre risorgenti perché mai completamente debellati.
Se la salvezza dipendesse unicamente dal proprio impegno volontaristico, chi potrebbe dire di meritarla?
Ma ci conforta sapere che prima di ogni nostro merito, c’è la grazia, c’è un Dio di grazia,.
C’è un Dio che si incarna per amore e perciò è nella nostra carne, nel nostro nascere e morire, nella successione dei giorni e in ciascuna delle nostre giornate.
E questo avviene prima che ce ne rendiamo degni tanto che al ostro fratello ateo potremmo – dovremmo - segretamente confidare: “Tu credi di esserti separato da Dio, ma Dio non si separa mai da te”.
Si diceva all’inizio dello stupore che dovrebbe essere la nota emotiva costante della nostra fede.
Ma per aprirsi allo stupore e per nutrirsi di stupore è importante ascoltare la “musica silenziosa” che accompagna l’ombra così dolce dell’annunciazione.
Di questo ascolto attento e silenzioso, colmo di stupore, Maria nel vangelo è un’ummagine esemplare.
L’angelo Gabriele la trova raccolta nella sua casa.
Non è necessario, come hanno fatto tanti artisti, immaginarla inginocchiata a leggere qualche testo profetico o a pregare.
E’ certo invece che il colloquio è avvenuto nel raccoglimento di una piccola casa palestinese.
Può essere che anche a noi Dio mandi un angelo. Se non ci trova. è perché non siamo in casa.
Voglio dire questo: non siamo raccolti in quella grotta interiore in cui Gandhi amava dimorare,
ma siamo sempre altrove, dispersi in mezzo a mille banalità, a inseguire interessi senza spessore. Chi è capace ancora di trovare uno spazio di silenzio per ascoltare una voce che venga dalla profondità di Dio?
Dovremmo perciò, preparandoci al Natale, affidare al Signore questa preghiera:
“Signore, abbiamo capito che la tua parola non ama le piazze e le ribalte, ma i silenzi colmi di attesa.
Salvaci dalle parole inutili, le nostre e quelle degli altri.
Fa’ che troviamo la via di casa dove possa avvenire anche per noi un annuncio portatore di gioia”.

sabato 15 dicembre 2007

V Domenica di avvento


Isaia 35, 1.6-10
Salmo 145
Giacomo 5, 7-10
Matteo 11, 2-11

Tutta la scena è occupata, sia pure con modalità diverse, da Giovanni e da Gesù.
Giovanni agisce “fuori campo” : si trova infatti recluso nella prigione di Erode e non può comunicare se non attraverso la collaborazione di discepoli molto fidati, strettamente legati a lui.
Gesù invece agisce liberamente sulla scena: ascolta, risponde, si serve di parole e anche di gesti significativi.
Ma sulla scena ci siamo anche noi, particolarmente interessati a un duplice problema: quello della vera identità di Giovanni e quello della vera identità di Gesù.
Giovanni ci sorprende con la domanda trasmessa a Gesù. “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”.
Pare di avvertire in queste sue parole l’affiorare di un dubbio.
Perché Giovanni incomincia a dubitare dopo che con sicurezza aveva indicato in Gesù il Messia atteso?
Le ragioni non mancavano.
Giovanni si era formato un’idea del Messia che non trovava incarnata in Gesù.
Il Messia avrebbe dovuto assumere il compito di giustiziere separando nettamente il mondo dei buoni da quello dei malvagi.
Tutti si attendevano, al suo arrivo, un intervento folgorante di Dio.
Succede al contrario – ecco perché Giovanni rimane deluso – che Dio nella predicazione di Gesù appare come un pastore che va incerca della pecora smarrita o come un padre che attende il ritorno del figlio dopo che questi aveva lasciato la casa dilapidando il patrimonio di famiglia.
Appare come uno che non separa i giusti dai peccatori, anzi i peccatori li cerca e va a pranzo con loro.
Ma c’è una seconda ragione che può spiegare il dubbio di Giovanni.
Perché Gesù che come Messia doveva disporre del potere di Dio, permetteva che un difensore della casa di Dio subisse la durezza del carcere e la minaccia di una morte violenta?
A questo modo Giovanni si è fatto precursore anche dei nostri problemi e dei nostri dubbi.
Come lui infatti ci sentiamo provocati a interrogarci sempre più profondamente sull’identità di Gesù.
Padre Balducci, grande testimone della fede nel nostro tempo, parlava di un Cristo edito e di un Cristo inedito.
Più semplicemente potremmo parlare di un Cristo conosciuto e di un Cristo sconosciuto.
E del Cristo conosciuto ciascuno di noi si è fatto un’immagine precisa, ben definita.
Per lo più è colui che dovrebbe rispondere alle nostre preghiere, sciogliere i nostri problemi, placare le nostre paure.
Ma viene il momento in cui questa immagine, la nostra, non tiene più.
E’ la fatica di credere.
“Nessuno di noi – ha scritto recentemente il nostro amatissimo card. Martini – è lontano da tale esperienza. C’è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere”. E’ la fatica di credere, si diceva.
Un conto infatti è la fede dei libri e del catechismo, un conto è la fede che si misura con gli avvenimenti e con la vita.
Questa è una fede interrogante, una fede in ricerca.
E’ una fede che provoca Gesù a rivelarsi. Come Giovanni.
“Gesù, chi sei veramente?
Ti invochiamo e ti attendiamo continuamente come salvatore, e intanto nel mondo ci sono ancora guerre spaventose, bambini sfruttati e affamati, poveri da tutti dimenticati, gente disperata.
Sei proprio tu il salvatore, oppure ci siamo sbagliati e dobbiamo aspettarne un altro?”
Gesù non ci dà la risposta che noi ci aspetteremmo di avere.
Non definisce e non dimostra nulla.
Semplicemente vuole darci un suggerimento per scoprire il suo vero volto (p. Balducci parlerebbe del volto inedito) lasciando ciascuno libero di valutare e di decidere.
Gesù (è quello che farà sulla strada per Emmaus) invita Giovanni a rileggere le scritture.
E i testi che Gesù sceglie per presentare la sua missione ci danno un ritratto del Messia molto semplice, al servizio, soprattutto, degli umili, di disgraziati di ogni sorta.
Questa immagine Gesù ha cercato di interpretarla mettendosi dalla parte dei poveri, dei malati, dei disprezzati, degli esclusi.
A tutti annunciava la tenerezza del Padre.
Quando passava, si sentiva la vibrazione di un’esistenza nuova.
Un’allegrezza sconosciuta.
Ecco il vero volto del Messia che noi dobbiamo continuamente riscoprire ricordando che la
presenza di Gesù è sempre discreta.
Non viene a compiere i miracoli straordinari che noi vorremmo, ma quelli nascosti nella vita di tutti i giorni, piccoli segni di risurrezione che confortano in vista della risurrezione ultima.
Per capire Gesù bisogna mettersi dalla parte degli umili.
Sono essi che più di tutti hanno il dono di riconoscere i segni della misericordia di Dio.
C’è chi vede i miracoli, ed è come se non li vedesse.
E c’è chi anche nelle piccole cose sa vedere qualcosa di prodigioso.
Come quella signora anziana e inferma che recentemente mi diceva : “I veri miracoli sono gli incontri con gli amici”.
Siamo alla ricerca di segni per confortare la nostra fede.
Guardiamo attorno a noi, vicino a noi. Scopriremo meraviglie di altruismo e di generosità.
In un mondo dove i profeti di sventure sono legioni, c’è bisogno di profeti che sappiano esercitare il ministero dell’incoraggiamento.
Solo così dimostreremo di essere non soltanto credenti, ma, come voleva l’abbé Pierre, cristiani credibili.





















sabato 8 dicembre 2007

Solennità dell'Immacolata Concezione


Genesi 3, 9-15.20
Efesini 1, 3-6.11-12
Luca 1, 26-38

La festa che oggi celebriamo getta luce sul nostro passato e sul nostro futuro.
Che cosa troviamo nel nostro passato?
Quello che si è soliti chiamare peccato originale da cui la Vergine, solo lei, sarebbe stata immune.
Attorno al tema del peccato originale, quante domande si intrecciano, e dubbi e curiosità.
Di che peccato si tratta? E quando è stato commesso?
E perché tutti sono partecipi? Come si fa a crederci?
Possiamo spiegare così.
C’è stato un tempo in cui, all’interno del popolo ebraico, alcune persone particolarmente attente alla condizione dell’uomo, hanno cominciato a riflettere su alcuni problemi.
Si sono chiesti: “Perché l’uomo vive nella paura e ha paura di tutto? Ha paura di Dio, ha paura dei suoi simili, ha paura della natura che sente spesso come resistente e ostile.
Perché la fatica del vivere, la sofferenza? Perché la morte?”.
Le risposte si possono sintetizzare così.
No, all’origine la situazione era diversa. E anche alla fine sarà diversa.
Il mito del paradiso terrestre sta ad indicare per il passato, ma anche per un orizzonte futuro, un creazione intatta, luminosa, armoniosa.
Che cosa è intervenuto ad alterare questa armonia cosmica?
“Se mangerete quel frutto, sarete come Dio”
Da parte dell’uomo c’è stata la volontà di essere come Dio.
Con un linguaggio più moderno, potremmo parlare di volontà di onnipotenza.
L’uomo dimentica la sua condizione creaturale, finita. Non accetta il suo limite.
Si lascia abbagliare dal dominio e dal potere:“sarò come Dio”.
E’ qui la radice del peccato. Ecco qual è il peccato originale, origine, modello e gestazione di ogni peccato.
E si spiegano le conseguenze che la Bibbia presenta come punizioni inflitte da Dio e che possono essere viste – le due cose si equivalgono – come effetto della ribellione a Dio.
Una volta infranto il rapporto creaturale con Dio, è infranto ogni equilibrio.
In questo disordine si accampano la paura, la menzogna, l’incomunicabilità, il dominio violento.
Alcune rapide annotazioni.
Adamo e Eva hanno paura di Dio: si nascondono.
E poi cadono nella menzogna e nell’inimicizia: “E’stata lei!”; “No, è stato il serpente!”.
E questa frattura si estende, diventa cosmica. Diventa frattura tra l’uomo e la creazione.
Oggi noi abbiamo sotto gli occhi un spaventosa manifestazione di questo peccato dell’uomo contro la creazione.
Basti pensare alle alterazioni climatiche prodotte da un uso dissennato delle risorse energetiche.
“Adamo, dove sei?”: Dove sei, uomo? Dove sei , donna? Dove sei, terra?
In quel grido, il grido di Dio, è scritta la nostra storia, la storia delle nostre fughe, delle nostre alienazioni, dei nostri smarrimenti.
Fin qui non ho fatto altro che evocare il peccato di origine come peccato di ribellione e le sue conseguenze.
Era necessaria, a me pare, questa lunga introduzione per capire il senso della festa che celebriamo.
Abbiamo ascoltato il grido di Dio rivolto all’uomo nel paradiso terrestre: “Dove sei?”, ma in quel grido non c’è soltanto la storia dei nostri fallimenti, ma c’è la storia del nostro Dio, di un Dio che è alla ricerca dell’uomo, di un Dio che ama l’uomo e non si rassegna a perderlo.
C’è dunque la storia di un lungo amore, che viene da lontano, dalla sponda dell’eternità.
Ebbene, questo amore che viene dall’eternità noi oggi lo vediamo brillare sul volto di Maria.
Dire Immacolata Concezione vuol dire affermare che c’è un lembo, una zolla della nostra terra, ed è Maria, che è sottratta al disordine di cui abbiamo parlato e appartiene invece all’ordine originale.
E questo per l’amore di Dio che in tale modo voleva preparare la venuta tra noi di Gesù, il figlio suo e figlio di Maria.
Contemplare Maria vuol dire contemplare uno spazio di salvezza e la via della nostra speranza.
E’ significativo il saluto dell’angelo a Maria: “Ave, o piena di grazia”.
Letteralmente, stando al testo greco, si dovrebbe dire: “Rallegrati, gioisci, o tu che sei immensamente amata”.
Ed è per questo che, contemplando Maria, noi contempliamo, con l’aiuto della Lettera agli Efesini, la dignità di ogni uomo, di ogni donna, di ciascuno di noi, di ogni bambino che nasce.
Per ciascuno vale, come per Maria, la parola:
“O tu che sei da lungo tempo immensamente amato;
o tu da sempre presente nell’amore e nel disegno di Dio”.
Ma “essere amati”è anche un lasciarsi amare, è rispondere all’amore dicendo come Maria:”Eccomi”.
Il peccato, abbiamo visto, è un no detto a Dio.
La salvezza è il sì detto a Dio (Maria è stata tutto un sì) e dire sì a Dio è ritrovare l’armonia perduta: è dire sì alle stelle, all’erba, ai fiori, agli animali, all’uomo, alla donna.
Se avessimo il coraggio di dire anche noi davanti a Dio: “Eccomi”, riconoscendo la nostra finitezza creaturale e la nostra dipendenza da Dio, nascerebbe un nuovo senso di umiltà, di mitezza, di mansuetudine nei rapporti tra le persone. Nascerebbe un nuovo modo di amare.
Deve essere un “eccomi” detto non solo a Dio, ma ripetuto a chi sta accanto a noi.
Perché l’amore vero è anche accettare di dipendere da un’altra persona.
È felicità di aver bisogno di un’altra persona, rinunciando alla propria orgogliosa sicurezza.
“Eccomi”. Ed è come se la creazione ricominciasse da capo e la terra tornasse a fiorire, a esultare di gioia

domenica 2 dicembre 2007

III Domenica di avvento

Isaia 2, 3-5
Salmo 121
Romani 13, 11-14
Matteo 24, 37-44

Se qualcuno mi chiedesse di spiegare il senso esatto di tutte le parole che abbiamo trovato oggi nel Vangelo, direi subito di non essere in grado.
Abbiamo letto, ad esempio, che “due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato; due donne saranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata”.
Che cosa voleva dire esattamente il Signore con queste parole?
Io non saprei indicarlo.
Rimangono anche per me parole misteriose così come restano enigmatici e perfino inquietanti altri passi del vangelo.Devo aggiungere che non mi vergogno di non sapere.Ritengo anzi una fortuna il fatto di non comprendere tutto.
Se riuscissimo a capire e a spiegare tutto, noi potremmo pensare di essere i possessori della parola.
Ora Dio è più grande del nostro cuore. E nessuno può sentirsi proprietario.
Inoltre, se noi pretendessimo di conoscere perfettamente ciò che Dio ci ha detto, saremmo tentati di imporre agli altri la nostra comprensione, come se fosse la sola vera.
Vuol dire lasciare la porta aperta a tutti gli integrismi, a tutti i fanatismi e relative intolleranze.
Per contro, riconoscere che noi non comprendiamo tutto, dispone ad un atteggiamento di umiltà che ci fa sentire davanti al Signore come mendicanti di luce.
Dio non ci parla per soddisfare la nostra curiosità intellettuale.
Egli vuole che, a partire dal nostro desiderio mai appagato, ci sentiamo sempre protesi alla scoperta del suo mistero.
In questo senso si dovrebbe interpretare l’invito a vegliare che Gesù non si stanca di raccomandare in queste liturgie di avvento.“Vegliate dunque” abbiamo ascoltato anche nel vangelo di questa domenica.
Ci chiederemo: perché vegliare? E successivamente: Come vegliare?Perché vegliare, vigilare, prestare attenzione?
Perché il Signore, che verrà alla fine dei tempi nello splendore della sua divinità, viene sempre in mezzo a noi, seppure in modo molto discreto.
È venuto a Betlemme nell’umiltà e nella povertà del nostra natura umana, e continua a venire con lo stesso stile di semplicità, non alla maniera dei “Grandi” della terra, attraverso le vicende che siamo chiamati a vivere.
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” ci ha confidato Gesù nell’Apocalisse.
Egli bussa delicatamente alla porta.
Ma ci sono in noi tante voci che ci distraggono, tante preoccupazioni, tanti progetti diversi per cui non ascoltiamo chi sta bussando alla nostra porta.
Si ripete quello che è avvenuto ai tempi di Noé e che Gesù ha denunciato nel Vangelo.
“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito”: che cosa c’era da rimproverare in questi comportamenti?
Non c’erano eccessi, né dissolutezze, né palesi ingiustizie.
Facevano cose che altrove, nella Bibbia vengono lodate.
Che male c’è nel seguire gli appetiti naturali del vivere?
Chi vuol fare l’angelo, ha detto giustamente qualcuno, si riduce a fare la bestia.
Ciò che viene condannato è quello stato di incoscienza in cui spesso ci si trova a vivere, E’ la mancanza di attenzione e di apertura verso qualcosa di sorprendente che deve ancora avvenire.
E’ vivere come se Dio non esistesse.
Si corre allora il rischio di morire senza aver vissuto.Maurice Zundel, grande mistico del ‘900, ha detto “Se non sei vivo al momento della morte, non lo sarai mai”.
Ma per essere trovati viventi al momento della morte, bisogna saper vegliare.
Ma come vegliare?
Vegliare vuol dire saper costruire, come ha fatto Noè, giorno dopo giorno un’arca che ci possa salvare da ogni possibile naufragio.
Vegliare è dunque una questione di fede e di speranza, di quella speranza di cui ci ha parlato il papa nell’ultima enciclica.
Vegliare è la ferma fiducia di essere portati, custoditi, protetti, salvati al di sopra dei pericoli e della stessa morte, dentro una sorta di arca di Noé.
Ma per vegliare veramente bisogna occuparsi anche della sorte di coloro,che, accanto a noi, dimostrano di vivere bene, senza darsi alcun pensiero di Dio e dell’aldilà.
Con il nostro spirito apologetico abbiamo pensato che queste persone , dopo un’esperienza cosi paganeggiante, dovessero accusare una specie di vuoto pauroso.
Ma onestamente dobbiamo riconoscere che sono tantissime le persone che nei nostri paesi e nelle nostre città vivono come i contemporanei di Noé, con una invidiabile serenità.
E allora sorge un problema: perché inquietare queste coscienze, perché complicare la loro vita con le nostre preoccupazioni di ordine religioso?
Parlare dunque o stare in silenzio?
Possono parlare coloro che, avendo gustato i doni di Dio, sanno che esiste una felicità insospettata, più meravigliosa di quella procurata dai piaceri della vita.
Si tratta perciò di sedurre i nostri “pagani” moderni irraggiando su di essi la gioia della nostra fede.
Dobbiamo saper mostrare loro che il giudice temuto da tante persone al termine della vita è anzitutto il buon pastore.
E quando lo si tiene per mano, non c’è nulla da temere, né la morte, né alcun altro male