domenica 21 dicembre 2008

VI Domenica di avvento

Luca 1 26-38

Bisognerebbe leggere i testi di questa liturgia con l’animo aperto a un infinito stupore.
Come quando da piccoli ci capitava di ascoltare una storia meravigliosa, con gli occhi che brillavano per la dolce emozione.
Perché tutto ciò che ci viene raccontato è nel segno della novità, della sorpresa, dell’incantamento.
E non si tratta di una favola, ma di una realtà che ha la leggerezza di una favola.
Protagonista assoluto di questa narrazione è Dio, o meglio, la fantasia di Dio.
E’una fantasia, quella di Dio, che noi stentiamo a seguire in tutti i suoi imprevedibili percorsi.
Dico “noi” occidentali, che ci siamo arresi alla dimensione della razionalità tecnologica mortificando la immaginazione e gli slanci del cuore.
Anche il nostro mondo religioso soffre di queste angustie se è vero che siamo tutti pronti a riconoscere che “nulla è impossibile a Dio” (come dice a Maria l’angelo dell’annunciazione), ma di fatto pretendiamo di essere noi a governare la volontà di Dio, con il risultato di vivere una religione dove tutto è scontato, prevedibile, risaputo e perciò noioso; dove anche Dio diventa noioso, in quanto creato a nostra immagine e somiglianza.
Ma Dio è libertà totale, è novità, è sorpresa.
E’ un Dio che non può essere relegato negli spazi ristretti che noi gli assegniamo.
“Lo Spirito santo scenderà su di te…su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”: è stupenda nella sua profondità e delicatezza questa espressione.
Si parla dunque di Dio, di un Dio che discende e quasi dimentica la sua dimora eterna per dimorare in mezzo agli uomini.
E dove Dio intende porre la sua nuova dimora?
Dire che la casa di Maria è il nuovo tempio di Dio è qualcosa di vero e insieme di non completamente vero.
La dimora sarà ancora più piccola per colui che è l‘immenso e l’eterno: la dimora sarà la carne di Maria..
Il grembo di Maria è l’arca, la tenda, il tempio di Dio.
Ma neppure quest’ultima affermazione esprime tutta la novità del vangelo.
C’è un altro tempio, più piccolo ancora, più segreto: un nulla di tempio.
E’quel germe di carne che prende vita nel ventre di Maria: in quel niente si rivela l’inaccessibile e l’invisibile Dio.
Mistero immenso la venuta di Dio fatta di soffio e di ombra, mistero stupendo se si pensa che la salvezza non è significata in questo racconto da una perfezione morale conquistata a duro prezzo, ma da un abbandono all’azione gratuita di Dio.
“Piena di grazia” così l’angelo saluta Maria: piena cioè dell’amore gratuito di Dio.
La salvezza consiste nel lasciarsi amare.
E’ un messaggio meraviglioso soprattutto per noi che ci troviamo a misurarci con i nostri limiti morali e spirituali, sempre risorgenti perché mai completamente debellati.
Se la salvezza dipendesse unicamente dal proprio impegno volontaristico, chi potrebbe dire di meritarla?
Ma ci conforta sapere che prima di ogni nostro merito, c’è la grazia, c’è un Dio di grazia,.
C’è un Dio che si incarna per amore e perciò è nella nostra carne, nel nostro nascere e morire, nella successione dei giorni e in ciascuna delle nostre giornate.
E questo avviene prima che ce ne rendiamo degni tanto che al nostro fratello ateo potremmo – dovremmo - segretamente confidare: “Tu credi di esserti separato da Dio, ma Dio non si separa mai da te”.
Si diceva all’inizio dello stupore che dovrebbe essere la nota emotiva costante della nostra fede.
Ma per aprirsi allo stupore e per nutrirsi di stupore è importante ascoltare la “musica silenziosa” che accompagna l’ombra così dolce dell’annunciazione.
Di questo ascolto attento e silenzioso, colmo di stupore, Maria nel vangelo è un’immagine esemplare.
L’angelo Gabriele la trova raccolta nella sua casa.
Non è necessario, come hanno fatto tanti artisti, immaginarla inginocchiata a leggere qualche testo profetico o a pregare.
E’ certo invece che il colloquio è avvenuto nel raccoglimento di una piccola casa palestinese.
Può essere che anche a noi Dio mandi un angelo.
Se non ci trova. è perché non siamo in casa.
Voglio dire questo: non siamo raccolti in quella grotta interiore in cui Gandhi amava dimorare,
ma siamo sempre altrove, dispersi in mezzo a mille banalità, a inseguire interessi senza spessore.
Chi è capace ancora di trovare uno spazio di silenzio per ascoltare una voce che venga dalla profondità di Dio?
Dovremmo perciò, preparandoci al Natale, affidare al Signore questa preghiera:
“Signore, abbiamo capito che la tua parola non ama le piazze e le ribalte, ma i silenzi colmi di attesa.
Salvaci dalle parole inutili, le nostre e quelle degli altri.
Fa’ che troviamo la via di casa dove possa avvenire anche per noi un annuncio portatore di gioia
E fa’ che a nostra volta possiamo diventare angeli dell’annunciazione per tanti nostri fratelli.
E’ bello sentirsi inviati a dire: “Rallegrati. Il Signore è con te. Tu sei benedetto.
C’è Dio che dice bene di te, si compiace di te, perché vede in te i lineamenti del figlio suo Gesù”.
E fa’ che tutto questo avvenga nella gioia di ricevere e di poter donare.
Come Maria che correrà da Elisabetta a cantare il magnificat”.

domenica 7 dicembre 2008

IV Domenica di Avvento

Isaia 16, 1-5
Salmo 149
1 Tessalonicesi 3, 11-4,2
Marco 11, 1-11

Gesù fa il suo ingresso in Gerusalemme.
Perché la liturgia ci propone questo racconto in tempo di avvento?
Non è difficile capire.
La venuta del Signore si attua dentro il tessuto delle relazioni umane, là dove ci sono persone che lavorano, soffrono, sperano, cercano di dare un senso positivo alla loro vita.
Per questo Gesù non può ignorare la grande città.
Noi siamo soliti dire, con una espressione che è diventata oramai abituale, che la vita in città è stressante.
Forse lo stesso lamento era diffuso al tempo di Gesù.
La città è infatti il luogo della complessità, della competizione, di una certa durezza di rapporti,
Su Gerusalemme poi gravava la fama di essere una città scomoda per i profeti.
Fossimo stati noi accanto a Gesù, gli avremmo dato questo consiglio: “Non entrare in città. Perché vuoi andare proprio là dove sarebbe prudente non andare?”.
Ma il Signore non si è incarnato per seguire i nostri accorgimenti prudenziali.
Incarnazione vuol dire immersione in tutta la realtà umana, anche in quella più problematica e sgradevole.
Per questo il consumarsi dell’incarnazione esigeva che Gesù affrontasse la grande città con tutte le sue tensioni e contraddizioni.
Oramai la strada è tracciata anche per chi si dice discepolo di Cristo.
Il cristiano non è colui che si ritira nella sua tenda ignorando tutto quello che avviene attorno, ma è colui che si rende presente là dove si costruisce la città degli uomini.
E’ presente con la sua intelligenza, la sua competenza, con la sua passione di confrontarsi e di collaborare: in una parola, con la sua responsabilità.
Gesù però, entrando nella città di Gerusalemme, non ha soltanto indicato un percorso da seguire, ma ha insegnato alcune modalità fondamentali che dovrebbero caratterizzare la presenza dei cristiani in mezzo alla società.
La prima nota distintiva è quella della mitezza, che è una sorta di fragilità vincente, di leggerezza tenace.
Tutto il racconto di Marco che abbiamo letto suggerisce uno stile di mitezza attraverso immagini e gesti che sembrano compenetrati da un’atmosfera di pace.
Mite è la cavalcatura di Gesù, mite il suo incedere in città
E mite è soprattutto il suo silenzio.
Abituati, come siamo, ai messaggi gridati, urlati, imposti un modo intimidatorio o ricattatorio, la scena del vangelo ci sembra perfino irreale.
A volte anche noi cristiani andiamo a scuola e prendiamo lezione da chi nella società grida di più per farsi ascoltare.
Perché dovremmo essere meno intraprendenti degli altri nel sostenere le nostre ragioni?
Dimentichiamo però una cosa: ciò che vale per una società mercantile quale è la nostra, non vale per il mondo segreto della fede.
Una società mercantile ha bisogno di imbonitori, di piazzisti, di gente che sappia vendere bene la propria merce (e merce può essere anche un programma politico e perfino un comportamento religioso).
La fede si propone invece discretamente, senza pretese.
Non è una mondanità da esibire o una ideologia da difendere.
E’ una germinazione al soffio lieve dello Spirito.
Essa parla a bassa voce, cresce nel silenzio delle parole umane.
In una società mercantile dove il minimo segno di debolezza sembra essere qualcosa di indecente, non ha paura di apparire fragile e perdente.
La sua forza è altrove: in una ragione segreta che non si può conoscere mediante le risorse della mente, ma seguendo le indimostrabili intuizioni del cuore.
C’è un’altra nota che caratterizza l’ingresso di Gesù nel sua città e, di riflesso, la presenza dei cristiani nel mondo.
A Gerusalemme lo attende la morte, ma Gesù non si lascia vincere dalla paura.
Gesù è straordinariamente libero, ed è libero perché è straordinariamente distaccato da tutto ciò che appartiene all’ordine del possesso.
Chi coltiva ambizioni nell’ambito del potere e del possesso, deve adattarsi a certi canoni di comportamento, deve usare certi accorgimenti che mortificano la tua libertà.
Se Gesù è straordinariamente libero, libero anche di fronte alla morte, è perché, avendo dato tutto, non ha più nulla da perdere.
Un’ultima osservazione su questo testo.
Anche se si tratta di un fatto che precede di pochi giorni la morte di Gesù, esso ha anche una strana e segreta parentela con il natale del Signore.
Quali sono le ragioni che ci portano a vedere questa segreta affinità?
Gesù si presenta fragile, indifeso, vulnerabile, come il bambino di Betlemme,
E come quel bambino, è infante, cioè colui che non parla.
A parlare, a cantare, come a Betlemme, sono invece le persone che accorrono intonando un canto che richiama quello degli angeli:
A Natale la pace viene annunciata dal cielo alla terra, qui viene annunciata dalla terra al cielo.
Anche questo racconto è dunque una celebrazione dello spirito d’infanzia in cui si racchiude tutta la spiritualità del vangelo di Gesù.
La pace di cui gode Gesù è come quella di un bambino che si affida tra le braccia protettive del padre.
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” dirà sulla croce.
Credere nell’amore di Dio, lasciarsi amare da Dio, abbandonarsi all’amore di Dio: qui sta il segreto di quella straordinaria serenità che anche noi possiamo gustare, pur attraversando le molteplici prove dell’esistenza.

mercoledì 26 novembre 2008

II Domenica di avvento

Matteo 3, 1-12
Credo che Giovanni Battista possa trovare tanti ammiratori anche oggi, pur essendo un personaggio non facile da accettare.Senza dubbio è un personaggio ruvido, aspro, tagliato, si direbbe, con l’accetta,Tra lui e Gesù la differenza è enorme.Il Battista, per convertire il mondo, fugge nel deserto, Gesù invece va a incontrare le folle nei villaggi e nelle città;il primo è un asceta nel senso tradizionale della parola, si nutre di niente, considera il mondo cattivo e l’uomo perverso, (lo immaginate il Battista a un pranzo di nozze come quello di Cana?),l’altro, Gesù, ha molte amicizie, anche con persone dalla riputazione non proprio limpida e sta volentieri a tavola tutte le volte che gode dell’ospitalità di qualcuno;il Battista sembra un profeta di sventure, mentre Gesù predica la buona notizia del regno di Dio.Sarebbero tante le ragioni per negare la nostra simpatia a Giovanni.Eppure, per certi aspetti, è una figura che suscita approvazione e ammirazione.Quali sono le ragioni per cui ottiene il consenso di molti?Anzitutto lo si ammira perché è uno che parla chiaro.In un altro passo del vangelo è detto che il Battista ricordava a ogni categoria di persone, con precisione, le responsabilità specifiche e i doveri da affrontare.Sono molti oggi a rimpiangere questa chiarezza che forse nella predicazione esisteva in passato e ora non si ritrova più.Sono persone che ai predicatori sembrano rivolgere questa richiesta:“Diteci quello che dobbiamo fare. Come il Battista. Abbiamo bisogno di sapere esattamente su che cosa saremo giudicati”.C’è un’altra ragione per cui il Battista può ottenere la simpatia di molti: è uno che ha il coraggio di metterti addosso un po’di paura.Un po’ di paura, si pensa, farebbe bene anche oggiNessuno parla più dell’inferno e le conseguenze di questa colpevole amnesia sarebbero sotto gli occhi di tutti.Questo è il pensiero di molte persone nel giudicare la figura del Battista.Queste stesse persone però andrebbero in crisi se riflettessero bene su une parola di Giovanni, detta ai farisei e ai sadducei: “Non crediate di poter dire tra voi: Abbiamo Abramo per padre.Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”.E’ come se il Battista dicesse ai farisei e ai sadducei di oggi, cioè a noi, credenti e praticanti:“Non crediate di sentirvi tranquilli soltanto perché osservate in modo scrupoloso tutte le norme rituali e morali.Se manca una vera conversione interiore, non avete diritto di proclamarvi figli di Abramo e della chiesa.. Figli di Abramo e della chiesa Dio li potrebbe far sorgere anche dai sassi e dai rovi, cioè da miscredenti e peccatori.Perché lo Spirito di Dio non si attiene ai registri parrocchiali e al diritto canonico-C’è una chiesa più vasta che soltanto lui conosce, perché è libero e soffia dove vuole”.Abbiamo cercato di definire qual è il nostro rapporto con Giovanni il battezzatore.Può essere interessante, a questo punto, immaginare quale dovesse essere il giudizio di Gesù.Che cosa pensava Gesù di questo profeta che sulle rive del Giordano attirava folle di penitenti?Gesù doveva avere una grande ammirazione, tanto che pare sia stato suo discepolo prima di farsi battezzare da lui.Certamente Gesù è rimasto impressionato dal suo vigore fisico e spirituale, dalla sua forza profetica, dalla passione e dal coraggio con cui chiamava le folle alla penitenza per prepararsi alla venuta del Messia.Anche lui, Gesù, avrebbe iniziato la predicazione riprendendo da Giovanni il tema della conversione. “Convertitevi e credete al vangelo”.C’è però, a creare un sensibile distacco dalle posizioni di Giovanni, che pure continuava ad ammirare, proprio questa parola: vangelo.Mentre Giovanni si appellava a un Dio vendicatore, Gesù si proponeva di parlare della buona notizia di un Dio misericordioso e perdonante, che accoglie tutti e a tutti offre l’attestazione del suo amore.Non vuol dire che in Gesù vengono cancellate tutte le responsabilità morali che avevano un grande rilievo nella predicazione di Giovanni.Solo che esse non sono più la condizione per incontrare Dio (Gesù non impone condizioni all’incontro), ma sono la risposta che nasce dopo aver conosciuto la sua infinita benevolenza..Anche per Gesù la conversione richiede un mutamento radicale di pensieri e di comportamentiMa sappiamo anche che la conversione, prima che una conquista nostra, è una iniziativa di Dio.All’inizio non c’è un compito da svolgere, ma l’accoglienza di un incontro.Il principio creativo di ogni vera conversione è il Signore che viene a noi con il suo immenso amore, la sua fiducia, la sua pace.In questo tempo di avvento dovremmo, come chiesa, sentire la passione di annunciare a tutti questa bella notizia.Non associamoci al coro di quanti sono sempre pronti a recriminare, a deplorare, a denunciare le debolezze e le stoltezze degli uomini.L’azione del Battista è importante, ma ancora più importante è quella di Gesù.Il vangelo è la storia meravigliosa dell’amore folle di Dio che non cessa di stupirci.“E’ inimmaginabile”siano tentati di dire.Appunto. Si tratta di qualcosa che mai avremmo potuto immaginareE’da questo stupore che nasce la conversione.Si può anzi dire che la misura del nostro stupore segna anche la misura della nostra conversione.

Tutti i santi

Apocalisse 7, 2-4.9-14
Salmo 231
Giovanni 3, 1-3
Matteo 5, 1-12

Perché questa festa è molto sentita e molto amata?Anzitutto perché ci parla di beatitudine, di una gioia piena, di una felicità incommensurabile.Noi siamo tutti mendicanti di gioia.Questo anelito è la ragione del nostro esistere.Anche chi sceglie un percorso sbagliato, dimostra comunque di essere mosso da questo anelito che, se rimane inappagato, è motivo di grande sofferenza.Ecco perché oggi ascoltiamo il discorso delle beatitudini con particolare commozione.Qui c’è l’annuncio di una possibile felicità.Ed è un annuncio ben diverso da quello che ci viene dispensato dai soliti imbonitori alla moda che promettono l’impossibile facendo leva sulla nostra credulità.Qui l’annuncio viene da molto lontano, ha attraversato i secoli e si presenta senza orpelli o lustrini accattivanti.Anzi ha il coraggio di coniugare paradossalmente felicità e povertà, felicità e lacrime, felicità e persecuzioni.Ma il cuore deluso da tante proposte ingannevoli si fa attento a questo annuncio.Se fosse vero che è vangelo, cioè la buona notizia tanto attesa e invocata?C’è una seconda ragione che ci porta ad amare questa festa.E’ la memoria dei santi.I santi sono vangelo vissuto, vangelo incarnato.Il vangelo non è una dottrina o una teoria.Noi purtroppo ne abbiamo fatto una teoria, una dottrina da acquisire, da difendere, da esibire in certe occasioni.Che tristezza quando il vangelo viene usato strumentalmente per difendere la civiltà occidentale contro altre forme di civiltà, oppure per stabilire un codice di comportamento in questa nostra società che ha visto frantumarsi le certezze del passato.Ora il vangelo è soprattutto un modo nuovo di essere, di vivere.Questo ci ricordano oggi i santi. Loro il vangelo non lo hanno semplicemente conosciuto, commentato, posseduto come una verità religiosa, ma lo hanno incarnato. Sono diventati vangelo nei loro gesti, nei loro sorrisi e nelle loro lacrime, nella loro capacità di amare e di sperare.Sono diventati vangelo perché hanno conosciuto la gioia.Immaginare un santo triste è impossibile.Vorrebbe dire immaginare un santo che non abbia conosciuto Dio, che non sia entrato in rapporto con GesùLe beatitudini infatti, prima che un codice di comportamenti, sono l’immagine del nostro Dio, sono il volto di Cristo.Ma c’è un terzo motivo per amare questa festa.Essa ci porta a contemplare la moltitudine immensa dei santi.La prima lettura, presa dall’Apocalisse, si parla di 144.000 eletti, segnati con il sigillo che, come è facile immaginare, è quello della croce.144.000: sono tanti? sono pochi?È certo che non si tratta di un numero riduttivo, come se indicasse una minoranza rispetto alla massa, ma di un numero che evoca l’universalità.144.000 è infatti il risultato di 12 x 12 x 1000.Se è vero che nella cultura ebraica il numero 12 era il simbolo della pienezza, qui abbiamo la pienezza moltiplicata per la pienezza moltiplicata per mille.Che si tratti di un richiamo all’universalità è confermato anche dal fatto che poi si parla di una folla immensa che nessuno avrebbe potuto contare, di tutte le razze, nazioni, popoli e lingue.I santi dunque non sono soltanto un numero incalcolabile, ma nella visione dell’Apocalisse formano una grande famiglia, una comunione di intenti e di sentimenti, una coralità.Tra parentesi: io rimpiango le litanie dei santi di una volta, lunghe, interminabili, con tanti nomi strani, presi da chissà quale almanacco.Rimpiango queste litanie perché, a differenza di quelle di oggi, davano il senso della coralità.Se questa folla di santi ci parlasse oggi ad una voce sola, che cosa ci direbbe?Non ci parlerebbero né di miracoli né di congregazioni religiose da essi fondate né di altre cose che occupano tanto spazio nelle biografie dei santi.Io penso che canterebbero in coro il discorso delle beatitudini.Parlerebbero cioè della santità non come il frutto di un impegno volontaristico riservato a pochi eletti, a certe persone superdotate nella pratica dell’ascesi, ma ne parlerebbero con accenti tali da renderla amabile e contagiosa.Che cosa è la santità?È povertà che diventa pienezza.È l’offerta di due mani cave in attesa di essere colmate.È invocazione che attende di essere esaudita.C’è una parola di Gesù che dice a Santa Caterina da Siena: «Fatti capacità, io mi farò torrente».Dove c’è il vuoto, lì si rivela la prodigalità di Dio.La santità è un fatto di stupore nel vedere che il proprio vuoto è colmato dalla sovrabbondanza dell’amore di Dio che si riversa in noi sotto forma di benedizione, di fiducia, di perdono, di incoraggiamento a coltivare il gusto della vita.Per questo, nella folla dei santi onorati oggi dalla chiesa possiamo ricordare anche la presenza di santi anonimi, che mai arriveranno agli onori dell’altare.E possiamo immaginare anche qualche persona che abbiamo conosciuto, qualcuno della nostra famiglia o dei nostri amici.Potremmo – dovremmo - immaginare anche noi nel numero dei 144.000 raccolti un giorno attorno a Gesù a celebrare il miracolo di una povertà trasformata in pienezza nella piena rivelazione di quella parola che c’è in Giovanni: «Fratelli, …»

Commemorazione di tutti i defunti


Parleremo della morte e parleremo dei nostri morti.
Con molta sobrietà, quasi con una sorta di pudore, come si conviene quando si toccano argomenti che superano di molto le nostre conoscenze e coinvolgono troppo la nostra emotività.
Della morte la saggezza umana ha detto tutto quello che è possibile dire.
Ma noi vogliamo metterci nella prospettiva della fede.
La morte non è solo una porta che si chiude, ma è anche una porta che si apre.
Non è solo una fine, ma un inizio.
La morte, come dicevano i primi cristiani, è il dies natalis, il giorno della nuova nascita.
C’è nn’altra immagine che di solito viene richiamata quando si riflette sul vivere e il morire.
Si pensa all’esistenza come fosse un libro. Cosa rappresenta la vita di quaggiù?
Per molti rappresenta la storia principale del libro, mentre la vita futura, sempre che esista, sarebbe solo un’appendice.
Per il vero credente le cose stanno diversamente.
Questa vita è solo una prefazione che introduce nella storia principale.
Su che cosa si regge questa convinzione?
Sul fatto che Dio, attraverso la morte e la risurrezione di Cristo, ha forzato le porte della morte e si rivelato come amante della vita.
E’ bene che ancora una volta ci diciamo con chiarezza e con forza che Dio non vuole la morte.
Io non riesco a comprendere come, in certe partecipazioni funebri, si possano scrivere ancora parole come queste: “Dio ce lo ha dato, Dio ce lo ha tolto”.
Non è Dio che riprende la vita di quelli che amiamo.
Al contrario Dio è la forza che fin dalle origini del tempo lotta contro la morte.
E il Cristo, risuscitato dai morti, chiama i cristiani a condividere la sua risurrezione.
Come confessiamo nel Credo, noi attendiamo “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.
Perciò il nostro rapporto con la morte, per quanto possa essere per molti aspetti lacerante, custodisce in sé questo segreto: noi andiamo verso la vita, noi ci prepariamo a una pienezza di vita.
Questa vita, è vero, noi non siamo in grado di immaginarla..
Come un bambino, ancora nel grembo della madre, non sa che cosa voglia dire uscire da quella condizione, così noi ci troviamo in una condizione analoga, in attesa del dies natalis, della nuova nascita.
Che cosa possiamo sapere?
Ci basti sapere, come ci è stato rivelato, che noi saremo nel cuore della vita di Dio, respireremo nel’amore di Dio, godremo della tenerezza riservata a ciascuno di noi.
Perciò ora, dentro l’angoscia che il pensiero della morte non manca di procurare, c’è spazio anche per una profonda pace.
E’ quella pace di cui ha parlato anche il vecchio Simeone: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola”.
E’quella pace che un popolo pigmeo, sepolto nel cuore dell’Africa equatoriale, ha espresso in un canto in cui si dice:
“Che cosa è la morte?
La morte è dire al Padre. Eccomi!”.
Fossimo capaci di coltivare la memoria mortis con questo spirito, di rinnovarla tutte le volte che ci inoltriamo nella notte, che ci affidiamo al sonno che con la notte è immagine della morte:
vuol dire consegnare la propria vita nelle mani del Signore, mani buone, mani calde di tenerezza e di benevolenza.
E’ quello che un poeta catalano, Joan Maragall, ha voluto esprimere in una sua poesia in forma di preghiera:
“E quando verrà l’ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani
aprimene, Signore, altri più grandi
e la morte mi sia un più grande nascere”.
Dopo questa riflessione sulla morte, che cosa possiamo dire dei nostri morti?
Anzitutto che sono vivi, non solo perché vivono nella nostra memoria e nel nostro affetto, ma perché respirano associati all’eterno respiro di Dio.
Che i morti siano vivi dentro di noi, può essere un’esperienza che si rinnova facilmente in diversi momenti delle nostre giornate: il loro ricordo ci accompagna; il meglio di quello che hanno vissuto resta in noi come un fermento vitale; ci sembra, a volte, di conoscerli più di quando erano con noi.
Ma noi parliamo del loro essere vivi in altro modo: vivi perché viventi in Dio, vivi al punto che, parlando con loro, non dovremmo mai usare i verbi al passato, ma al presente.
E poiché siamo tutti uniti in Cristo a formare un’unica famiglia e tutti posiamo ritrovarci attorno all’altare di Dio, è possibile comunicare con loro oltre la frontiera dell’invisibile.
Possiamo perciò dire loro quel grazie che non abbiamo saputo dire o dissipare quel malinteso che la morte ci ha impedito di sciogliere o domandare quel perdono che non si è avuto il tempo di chiedere.
A volte questi problemi irrisolti sono motivo di profondo malessere.
Può capitare di rimandare la rappacificazione con qualche amico e di dover rimpiangere, una volta sopraggiunta la morte, l’occasione perduta: “Ormai – si pensa – è troppo tardi. Non c’è più niente da fare”.
In realtà la possibilità rimane perché con i nostri morti c’è un dialogo sempre aperto che ci permette di cancellare le ombre del passato…
Questo perciò è un momento di profonda pace se riusciamo a vedere la morte come un passaggio verso quella pienezza di vita che ci è stata promessa da Cristo e a capire che i nostri morti sono vivi, uniti a noi in un rapporto di trepida e sollecita collaborazione per realizzare insieme il grande sogno di Dio: di poterci accogliere tutti nella sua dimora come figli benedetti dal suo amore infinito.

sabato 8 novembre 2008

Cristo re


Ezechiele 34, 11-12. 15-17
Salmo 22
1 Corinzi 15, 20-26.28
Matteo 25, 31-46

La parola regno allude al potere.
E questo potere noi sappiamo a chi appartiene.
Di certi personaggi potenti che dominano sulla scena politica sarebbe facile fare i nomi, richiamare i volti, delineare per sommi tratti la storia della loro inarrestabile ascesa.
Tra questi alcuni li ammiriamo, altri li odiamo: rimane comunque il fatto che nella considerazione comune rappresentano il vertice della grandezza dal punto di vista umano.
Ma c’è una verità nascosta che porta a capire come il potere dei grandi della terra non abbia niente di assoluto.
Del resto, per esserne persuasi, basterebbe pensare alla morte.
La morte è il massimo dell’ingiustizia, ma al tempo stesso è il massimo della giustizia, perché pareggia le sorti di tutti, piccoli e grandi.
E’un’idea, questa, che è stata efficacemente illustrata nelle cosiddette danze macabre dove il corteo, in cui ciascuno dei personaggi si muove avendo la morte al fianco, è aperto solitamente dalle massime autorità civili e religiose.
Oggi però dalla liturgia ci viene presentato qualcuno la cui forza è più forte della morte stessa.
La verità è questa: la pienezza della regalità appartiene a Cristo.
E’ lui che ha il potere di vincere la morte.
E’ lui che riconsegna al Padre un’umanità completamente rinnovata.
Ma per capire meglio quale forza liberante abbia questa verità, bisogna pensare che la signoria di Cristo non è destinata a rivelarsi solo dopo la signoria degli uomini, come se ci fossero due grandi stagioni, quella degli uomini, che stiamo vivendo, a cui seguirà quella di Cristo.
Se così fosse, dovremmo rassegnarci a subire l’arroganza, la prepotenza, la cialtroneria di certi poteri con l’unica consolazione che dopo verrà il regno di Dio.
Va detto invece con molta forza che il regno di Dio è già all’interno della storia che stiamo vivendo.
Dove si afferma oggi questa signoria di Cristo?
Ci hanno educati a pensare che deve essere riconosciuta soprattutto là dove ci sono le grandi manifestazioni religiose, con folle osannanti (chi ha una certa età può ricordare ancora il pathos che si provava nel cantare a voce spiegata Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat).
Questa prospettiva nelle parole di Gesù viene completamente rovesciata.
Gesù rivela la sua regalità nei poveri e il suo regno cresce attraverso i piccoli gesti di bontà.
Fermiamo l’attenzione su qualche aspetto rilevante di questa rivelazione, così ricca di suggestioni di ordine morale e spirituale.
Si narra in certe leggende che un re, volendo conoscere i sentimenti dei sudditi nei suoi confronti, si traveste da mercante e, senza farsi riconoscere, attraversa in lungo e in largo il suo regno facendo tesoro di tutto quello che osserva e ascolta.
Una lettura superficiale di questa pagina di Matteo potrebbe indurci a pensare che Gesù si comporta
come il re di una di queste leggende.
In realtà Gesù non si limita a travestirsi da povero, da malato, da prigioniero, da straniero, ma si identifica pienamente con ciascuno di essi.
Non dice infatti: “Essi hanno avuto fame, hanno avuto sete,….” ma “Io ho avuto fame, ho avuto sete…”
Questo significa che la signoria di Cristo non sta dalla parte del potere. ma dalla parte di coloro che sono emarginati dal potere.
Sono i poveri che, uniti a Cristo, giudicano il mondo.
E sono anche coloro – è un’altra indicazione importante del racconto di Matteo – che si dimostrano capaci di compiere gesti di pietà a favore dei poveri.
‘Penso in particolare a quelli che non si limitano a dare l’elemosina, ma sono dalla parte dei poveri quando si tratta di difendere il loro posto di lavoro,, di denunciare le ingiustizie, di protestare contro coloro che assegnano il primato alle leggi del mercato invece che ai diritti della persona.
Non importa che essi non riconoscano il volto di Gesù.
Importa solo il fare concreto nel segno della pietà.
Perché è certo che esso raggiunge comunque il Signore.
D’altra parte c’è un modo di agire che rinnega non formalmente, ma concretamente la regalità di Cristo.
Se non ti metti dalla parte dei poveri, non incontri il Cristo.
O meglio lo incontri e lo ignori.
La colpa non consiste nel fare determinate cose sbagliate, ma nel non farne altre (un tempo si parlava di peccati di omissione) secondo la legge dell’amore.
E’’ un discorso, questo, che giudica le coscienze, le ideologie, i partiti, le politiche nazionali e internazionali.
Sì, è anche questione di scelte politiche, perché è importante, per esempio, visitare i malati, ma è altrettanto se non più importante fare in modo che ci sia un sistema di assistenza pubblica che sia al servizio di tutti e non penalizzzi i più deboli, come spesso avviene.
E’ certo che per appartenere a Cristo non bastano gli atti di culto, le pratiche religiose, le devozioni personali.
Tu puoi anche passare un’ora in adorazione davanti al santissimo sacramento esposto sull’altare, ma se non ti inginocchi davanti al fratello che soffre, che è l’ostensorio più vicino della presenza di Cristo, tu non appartieni a Cristo..
Un giorno ad attenderci ci sarà una duplice forma di stupore.
“Quando mai ti abbiamo visto…?” diranno quelli alla sua destra.
“Quando mai ti abbiamo visto….?”diranno quelli alla sua sinistra.
Preghiamo perché ci sia dato di conoscere lo stupore benedetto dal Signore, lo stupore che salva.

lunedì 27 ottobre 2008

XXX Domenica del tempo ordinario


Esodo 22, 20-26
Salmo 17
I Tessalonicesi 1, 5-10
Matteo 22, 34-40

Di solito si dice che l’originalità del cristianesimo va ricercata nel comandamento dell’amore.
Non è esatto.
Anche altre religioni predicano l’amore fino a raccomandarne le espressioni più alte come il perdono e la benevolenza verso i nemici.
L’uomo giusto – è un frammento della saggezza che viene dall’India – è come l’albero del sandalo che profuma la scure che lo abbatte.
E di Budda si racconta che, essendo vissuto in una precedente esistenza come lepre, si gettò nella padella dei cacciatori quando li vide affamati, perché rimasti quel giorno senza preda.
A ogni modo, il comandamento dell’amore si trova già nell’Antico Testamento.
E’ il caso di richiamare il precetto che si legge nell’Esodo: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse”.
E sempre nell’Esodo si trovano altri passi interessanti come questo: “Se vedi cadere sotto il suo carico l’asino di chi ti odia, non passare oltre, ma insieme a lui aiuta l’animale a rialzarsi”.
Qualcuno vede l’originalità dell’insegnamento di Gesù nell’aver fatto di due precetti un solo precetto.
Effettivamente, alla domanda del dottore della legge: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”, Gesù risponde prima sdoppiando e poi riunendo: i comandamenti fondamentali sono due, ma essi si trovano così strettamente intrecciati (“il secondo è simile al primo”) da formare un solo comandamento.
La novità è data piuttosto dalle parole seguenti: “Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti”.
Si sa che la legge era qualcosa di assoluto per Israele e, assieme alla legge, la parola dei profeti che aveva attualizzato le istanze più autentiche della legge.
Gesù con la sua risposta viene a dire che c’è qualcosa di più alto anche rispetto alla legge, qualcosa che nella scala dei valori rappresenta il vertice e la sorgente da cui tutto discende.
Prima c’è l'amore, poi la legge morale.
L’amore, in questa sua risposta, non ha più il carattere di un dovere, ma appare come il principio sorgivo della vita morale, il battito essenziale dell’esistenza, il respiro e il senso di tutto.
Il problema è di sapere come si possa arrivare a questa esperienza gioiosa dell’amore.
Per riuscire, bisogna anzitutto entrare in rapporto con un Dio amabile.
Se Dio lo sento distante o incombente o temibile, come potrei amarlo?
Potrei amare Dio se mi si presentasse unicamente con i caratteri della sua onnipotenza?
Ci sono immagini di Dio che respingono e suscitano perfino orrore.
Se Gesù ci parla di amore, è come se ci dicesse: “Dio va amato perché è amabile, E’ una presenza incoraggiante e affascinante. E’ un volto di ineffabile tenerezza. E’ un Tu di comunione e di condivisione”.
Più difficile da capire come possa essere amabile il prossimo.
Bisogna ammetterlo: ci sono persone la cui presenza è umanamente sgradevole e perfino scostante.
Ma sarebbe la stessa cosa se noi sapessimo vedere in quelle persone un riflesso almeno della amabilità di Dio?
Una vecchia leggenda indiana racconta che Dio, scontento della malvagità degli uomini, decise di nascondersi.
Ma dove trovare una dimora segreta senza che gli uomini potessero scovarla?
Forse sulla cima di un monte o nella profondità di un mare?
Alla fine decide di nascondersi là dove gli uomini non l’avrebbero mai cercato: nel loro cuore.
E ’ molto bella questa leggenda perché parla di Dio che dimora in noi.
Ma è proprio quello che noi crediamo come cristiani.
Se è vero che Dio si è fatto carne, vuol dire che in tutti gli uomini c’è qualcosa di divino e che lo si ama non soltanto comunicando con lui nella propria interiorità, ma passando anche attraverso la carne, cioè attraverso l’esistenza di ogni fratello che incontriamo.
Da Dio al prossimo e dal prossimo a Dio: non si passa da un tipo di amore a un altro tipo di amore, ma si rimane sempre all’interno di un’esperienza di amore che è unica e indivisibile.
Perciò non ha alcun senso pensare che, quando in una famiglia marito e moglie si vogliono bene ed esprimono il loro amore verso i figli, abbiano sottratto qualcosa all’amore verso Dio e siano tenuti a risarcirlo con qualche pratica di culto.
Ogni espressione di amore che raggiunge una creatura umana, raggiunge al tempo stesso anche Dio che dimora segretamente in quella creatura.
Si può parlare di Dio anche senza parlare di Dio quando si parla il linguaggio dell’amore.
Ecco dove ci ha portati la domanda posta dallo scriba a Gesù: a capire che amare Dio è il comandamento più grande e che questo comandamento non ci separa dalle situazioni normali del nostro vivere, ma si invera attraverso i gesti di bontà, di pietà, di comprensione, di tenerezza che riusciamo a esprimere nella vita di tutti i giorni.

venerdì 24 ottobre 2008

Festa della dedicazione.


Baruc 3, 24-38
2 Tomoteo 2, 19-22
Giovanni 10, 22-30

Anniversario della chiesa cattedrale.
Anche a costo di apparire dissacrante, devo dire subito che la chiesa di pietra interessa fino a un certo punto, molto meno indubbiamente della chiesa di carne, la chiesa viva, fatta di pietre vive, che è la chiesa della fede.
La chiesa di pietra sembra evocare principalmente la dimensione della stabilità e della solidità.
Una chiesa che avesse come modello una di queste superbe costruzioni come il Duomo sarebbe una chiesa nostalgicamente rivolta al passato, ai tempi forti della cristianità, quando era possibile creare queste opere grandiose che esprimevano la fede di tutto un popolo.
Questa nostalgia è comprensibile, ma può essere paralizzante.
C’è il rischio di inseguire l’immagine di una chiesa statica, immobile, preoccupata unicamente della propria sopravvivenza.
Sarebbe una chiesa senza respiro, sempre sulla difensiva nei confronti di un mondo considerato come ostile.
Sarebbe una chiesa che dispensa il proprio insegnamento tradotto in certezze inoppugnabili, mortificando in tale modo gli interrogativi di ogni spirito di ricerca.
Sarebbe una chiesa preoccupata di salvare i riti del passato, come la messa in latino, mortificando in questo caso lo Spirito santo che è spirito di libertà e di creatività.
Sarebbe una chiesa tentata di misurare la propria vitalità sul numero dei praticanti e di distinguere,o peggio di separare, chi è dentro e chi è fuori.
Ma il pericolo maggiore è quello di sequestrare Dio, di tenerlo prigioniero.
Ora Gesù ha sempre difeso la libertà di Dio sottraendolo ad ogni tentativo di volerlo possedere in modo esclusivo, dentro precisi spazi stabiliti dall’uomo.
“Credimi, donna, - aveva detto alla samaritana – è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre (…). Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4, 21.24).
Oggi si sente la necessità di abbandonare questa immagine di chiesa statica, immobile, troppo preoccupata della propria sopravvivenza.
Davanti al mondo deve presentarsi con un’immagine diversa , come realtà viva e palpitante, che non si lascia racchiudere in alcuna costruzione, ma ama spazi aperti, percorsi da inventare, mete da superare.
Questa idea di movimento è suggerita in modo particolare dal vangelo dove incontriamo Gesù che passeggia lungo il portico di Salomone e ama definirsi come pastore buono.
Attraverso questa immagine la chiesa appare come una realtà viva, che si riunisce attorno alla presenza di Cristo, il quale, come pastore buono, la guida con amorosa trepidazione.
L’essenziale non sono dunque le costruzioni, per quanto siano belle le chiese romaniche o gotiche o anche quelle moderne.
L’essenziale sono gli esseri umani.
E’quello che don Michele Do, che molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere e di stimare per la sua grande sapienza evangelica, amava ricordare quando diceva: “Cristo non è venuto a portare l’uomo dentro il tempio, ma il tempio dentro l’uomo”.
Era un modo per richiamare quello che l’apostolo Paolo aveva affermato dicendo:“Voi siete il tempio di Dio” e, prima ancora, quello che ci è stato rivelato nelle prime pagine della Bibbia, là dove è detto che Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, infondendo il suo soffio divino.
Ogni creatura umana perciò non solo è immagine viva di Dio, ma è anche tempio. dimora: “è la tenda di Dio sulla terra”(A. Casati).
La passione di Cristo per ogni uomo e ogni donna si fondava proprio su questa meravigliosa verità.
E ogni discepolo di Cristo deve sentirsi chiamato a testimoniare il suo amore per ogni creatura sulle strade del mondo.
Ciascuno di noi infatti è mandato a evangelizzare nel senso letterale della parola, cioè a portare gioia , soprattutto a coloro che sono discriminati: i poveri, gli emarginati, le persone sfortunate.
L’annuncio è che Dio non discrimina nessuno, neppure i peccatori, bensì li accoglie così come sono, per puro amore.
Sarebbe grave se dessimo l’immagine di un Dio che ama solo alcuni, quelli che sono devoti, pazienti, esemplari in tutto, e non gli altri.
E come potrebbe essere credibile una chiesa che si dimostrasse indulgente con i potenti e fosse invece pronta a intervenire con sanzioni e proibizioni verso quelli che giudica irregolari?
Il Dio di Gesù Cristo è colui che accoglie i non accolti: è un Dio non delle sanzioni, ma della grazia.
Il vangelo di Gesù spazza via tutte le discriminazioni e le esclusioni.
E’ bello immaginare la chiesa come popolo di Dio in cammino, in cui ciascuno si senta accolto e sia pronto a fraternizzare cercando di superare le diversità.
Solo così la chiesa sarà come Gesù l’ha sognata.

domenica 12 ottobre 2008

XXVIII Domenica del tempo ordinario


Matteo 22, 1-14

E’una delle parabole più difficili da interpretare. Anzi gli esegeti ci dicono che si tratta in realtà di due parabole, in origine indipendenti l’una dall’altra, che l’evangelista ha riunito senza preoccuparsi di risolvere tutte le incongruenze.
A proposito di incongruenze, la più vistosa è quella che riguarda l’uomo cacciato dalla sala del banchetto perché privo della veste nuziale.
Come avrebbe potuto indossare quella veste se era uscito di casa senza neppure immaginare di
poter essere invitato a una festa così solenne?
Lasciamo agli esegeti il compito di risolvere questo e altri problemi.
A noi interessa il senso generale del racconto che si dispiega attraverso alcuni momenti essenziali,
a partire dall’invito a partecipare a una festa di nozze.
E’ Dio che invita.
E poiché non si stanca di invitare, si ha l’impressione che Dio, pur essendo padrone di tutte le cose (nella parabola è presentato con l’immagine di un re), abbia bisogno di noi.:
Dio ha bisogno degli uomini era il titolo di un film che ebbe successo molti anni fa.
Dio ha tutto, eppure gli manca ancora qualcosa: non vuole rimanere chiuso nella sua reggia divina, ma desidera aprire le porte, ospitare amici, celebrare la bellezza di questi incontri in un clima di gioia, come per una festa nuziale.
E’difficile per noi immaginare Dio in questa veste così insolita e così sorprendente.
E’la ragione per cui noi, più che attesi con la trepidazione che è propria dell’amicizia, ci sentiamo precettati (si pensi all’uso che è stato fatto del termine precetto), cioè sottoposti a una disciplina che ha il sapore aspro del dovere e della paura.
Succede allora che l’appuntamento con Dio venga da molti accantonato e trascurato.
La parabola ci induce a immaginare la solitudine e la delusione di Dio quando gli invitati non raccolgono l’invito.
Ci pare di vederlo: Dio, dalla sala del banchetto, dove tutto è preparato per la festa, si affaccia per vedere se mai stiano per sopraggiungere gli amici cui ha trasmesso l’invito.
E’ una situazione che si riproduce ogni domenica che è il dies Domini, il giorno del Signore: c’è un Dio che ci attende e molti di noi non si fanno trovare perché prendono altre strade che portano in direzioni diverse.
Il distacco avviene per lo più senza una particolare lacerazione interiore, ma, come si legge nel testo di Matteo (“Non se ne curarono”), per una sorta di indifferenza o di disaffezione o di distrazione.
E’ un fatto che è in atto, nella coscienza di molti, soprattutto nel nostro mondo occidentale, una diffusa erosione della fede.
Che volete? Gesù ci aveva avvertiti tutti: “Dov’è il vostro tesoro, sarà anche il vostro cuore”.
Se il nostro tesoro sta tutto, per esempio, nei registri dei nostri interessi patrimoniali o dei nostri profitti, anche il cuore sarà sequestrato da questi registri.
Perciò il distacco da Dio si consuma in forme eleganti, senza polemiche incresciose, ma mediante un semplice gesto di omissione: l’invito lo si lascia cadere, perché non interessa.
Ma Dio non si rassegna a rimanere solo.
Non sono venuti i farisei e i sacerdoti ai quali aveva rivolto il primo invito?
Verranno altri, i pagani, i pubblicani, le prostitute, gente raccattata ai crocicchi delle strade.
Non vengono più gli invitati del mondo occidentale?
Verranno numerosi altri invitati di altri paesi, soprattutto del Terzo mondo, dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.
Tutti sono invitati, senza distinzione, soprattutto quelli che, per il fatto di sentirsi poveri, non importa se materialmente o spiritualmente, più degli altri sanno apprezzare la prospettiva di entrare nel clima gioioso di una festa inaspettata.
L’unica condizione da rispettare è quella a cui allude la parabola con l’immagine della veste nuziale.
Che significa questo abito nuziale?
C’è un’interpretazione da escludere con fermezza.
Se rappresentasse una condizione di onestà morale e quindi di merito che sarebbe necessario avere per essere accolti nella sala del banchetto, i pubblicani e le prostitute non avrebbero alcuna speranza di partecipare alla festa.
Sarebbe un ripetersi della mentalità farisaica secondo la quale la salvezza è riservata alle persone che ne sono degne perché l’hanno meritata con la loro condotta onesta.
Piuttosto, a proposito della veste nuziale, non è possibile non pensare a quelle parole che il padre del figliol prodigo rivolge ai suoi servi: “Presto, portate il vestito più bello e rivestitelo”.
Sembra di capire che nella casa del padre a noi non è richiesto di portare il vestito più bello, ma di lasciarci rivestire del vestito più bello.
In altre parole, ciò che ci è richiesto è di lasciarci amare.
Ma c’è un altro riferimento interessante: è quello che si trova in una lettera dell’apostolo Paolo dove si legge questa esortazione: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo”(Rm 13, 16).
La veste nuziale è dunque il Signore Gesù.
E indossare la veste nuziale vuol dire sentire che la nostra vita non può rimanere separata da lui, perché è lui il senso, la luce, la speranza, la consolazione più grande.
Da questa certezza dovrebbe nascere una preghiera dolce e appassionata:
“Signore Gesù, rivestimi di te, della tua giustizia e della tua pace, della tua tenerezza e della tua comprensione fino al giorno in cui, sebbene raccattato ai crocicchi delle strade, avrò la fortuna, immeritata, di essere ammesso a una festa incomparabile, al di là di ogni attesa”.

martedì 7 ottobre 2008

XXVII Domenica del tempo ordinario


Isaia 5, 1-7
Salmo 79
Filippesi 4, 6-9
Matteo 31, 33-43

Siamo a Gerusalemme. Qualche giorno prima di Pasqua. Forse sulla spianata del tempio.
Gesù sente che oramai la sua avventura è alla fine, che la sua morte è già stata programmata.
Allora, in una sorta di parabola disperata, si apre totalmente “ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo” intrecciando le sue parole con quelle del profeta Isaia.: “Ascoltate…C ‘è un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi se ne andò”.
Con una sorprendente capacità di sintesi, in forma di catechesi, Gesù li intrattiene sulla loro storia che poi è anche la sua, sulla passione e la pazienza di Dio e sul suo assentarsi come segno di amore, perché essi si rendano responsabili.
E al centro di questa narrazione che diventa sempre più tragica per la violenza dei vignaioli che non sono disposti a riconoscere i diritti del padrone, c’è lui, Gesù, che può dire: “Io sono l’erede; il figlio sono io”.
Cerchiamo ora di richiamare e di approfondire qualche tema di questa parabola, mettendola in rapporto con le situazioni che normalmente ci è dato di conoscere.
Sorprende anzitutto la cura estrema che quel padrone dedica al suo podere per assicurarsi un buon raccolto.
Gesù riprende le parole del profeta Isaia per ridire l’amore di Dio per il suo popolo e per ciascuno di noi.
Come è bella questa immagine di Dio, di Dio appassionato della sua vigna, di Dio innamorato di ciascuno di noi perché siamo noi la vigna del Signore.
C’è un Padre che ci ama con una tenerezza meravigliosa, senza stancarsi mai, tanto da poter dire (sono parole che si trovano in Isaia 5,4): ”Che cosa ancora dovevo alla mia vigna che io non abbia fatto?”.
C’è un canto d’amore che Dio intona sulla nostra vita e che dovrebbe tradursi dentro di noi in un’esperienza di dolce stupore: “Dunque, è proprio vero che tu mi ami così tanto? Che mi ami anche quando, per la coscienza delle mie miserie morali mi sento indegno del tuo amore?”.
Un’obiezione: se Dio ama cosi tanto la sua vigna, perché a un certo punto l’abbandona?
Il padrone infatti della parabola parte, se ne va lontano.
Di solito questa partenza è messa in rapporto con l’ascensione.
Ma Gesù ci mostra che già nell’A.T. Dio si comporta come si comporterà il Cristo dopo l’ascensione quando, dopo aver dato tutto, si sarebbe assentato.
Il Dio dell’alleanza è anche il Dio dell’assenza.
Non si tratta di abbandono, di evasione o di diserzione.
La sua “assenza” è un’altra forma del suo amore.
Dire che il padrone è partito per un viaggio è una bella espressione per dire che Dio ci dà fiducia, ci prende sul serio, ci dà spazio rispettando la nostra libertà.
Ma c’è un altro tema nella parabola, e questo ci rattrista non poco: è il rifiuto che gli uomini oppongono alle iniziative d’amore di Dio.
La libertà che il padrone ha concesso ai vignaioli ha dato loro alla testa.
Si credono proprietari, diventano arroganti, violenti, perfino assassini.
L’errore grave è quello di mettere le mani sull’amore, di volerlo possedere, quando l’amore non si possiede, ma si accoglie,.
E l’amore non si conserva se non donando.
La parabola denuncia la pretesa dell’uomo di farsi proprietario dei doni di Dio.
Questa parabola mette in crisi anche la chiesa quando si ritiene proprietaria della salvezza e si mostra gelosa e avara dispensatrice della misericordia di Dio.
E nella chiesa colpisce in particolare quei cristiani dalle mani chiuse e dal cuore altrettanto chiuso, quei cristiani che si ritengono proprietari del buon diritto, della vera morale, della sola verità, cristiani chiusi nella loro buona coscienza di essere eredi per natura o per merito dei doni di Dio.
Per fortuna ci sono anche cristiani che si mettono al servizio della vigna del Signore, con umiltà e semplicità, perché essa dia il frutto sperato.
Come fare frutto?
Ci può aiutare una frase di Gesù che si trova nel vangelo di Giovanni: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (15,5).
E’ facile capire che noi porteremo frutto nella misura in cui saremo uniti a lui.
Ma se Gesù è il figlio che i vignaioli trascinano fuori della vigna per poi ucciderlo, se è la pietra scartata dai costruttori di cui profeticamente si parla nel salmo 118 citato nella parabola, che senso ha scommettere su di lui tutto il senso della propria esistenza?
A meno che si abbia la capacità di credere che la pietra scartata sia diventa pietra angolare, in grado di reggere tutta la costruzione.
E’ questa la lezione che ci ha trasmesso il cardinale Martini in settimana, presso l’auditorium S. Fedele, sul modo con cui si sta preparando ad affrontare il passo estremo che sente ormai vicino.
E’ stata una lezione di grande fede e prima ancora di grande umiltà da parte del cardinale che, presentandosi senza alcun segno di potere, non ha nascosto le difficoltà “a entrare nell’oscurità che fa sempre un po’ paura”, ma che poi ha trovato il passo della fede per affidarsi totalmente a Gesù:
“Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani”.

venerdì 3 ottobre 2008

XXVI Domenica del tempo ordinario


Matteo 21, 28-32

“I pubblicani le prostitute vi precedono nel regno dei cieli”
Ancora una parola difficile. Un versetto scandaloso.
A chi è rivolta questa sentenza che assomiglia a una invettiva?
I destinatari sono “i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” .
Nella società di allora erano le persone più rispettabili sotto il profilo morale e religioso.
Avevano infatti una grande conoscenza delle Scritture e si impegnavano a mettere in pratica tutte le prescrizioni della legge di Mosè fin nei più piccoli dettagli.
E Gesù ha il coraggio di affermare che nel regno dei cieli queste persone non hanno i posti di onore che vengono loro assegnati nel regno degli uomini.
Non solo. A sopravanzarle saranno “i pubblicani e le prostitute”, persone cioè prive, secondo il modo comune di pensare, di qualsiasi dignità.
Ci si può domandare perché Gesù abbia voluto contestare così radicalmente l’opinione comune con la frase che abbiamo ricordato.
Si potrebbe rispondere citando una delle opere di misericordia che, secondo il vecchio catechismo, parlava della necessità di consolare gli afflitti.
Nessuno meglio di Gesù ha svolto questa azione a favore di tante persone provate da sofferenze diverse.
Gesù al tempo stesso si è preoccupato di affliggere i consolati, di inquietare cioè le coscienze chiuse nel loro perbenismo, appagate della loro posizione sociale e della stima di cui si sentono circondate.
Ecco perché nei loro confronti ha il coraggio di pronunciare parole apertamente provocatorie, non per il gusto di contestare, ma con la speranza di suscitare in loro una reazione positiva che è quella della conversione.
A questo scopo dovrebbe servire anche la parabola narrata nel vangelo: è la storia di due figli che si comportano in maniera diversa.
Entrambi sono invitati dal padre a lavorare nella vigna.
Il primo si rifiuta, ma poi finisce per andarci; il secondo dice di sì, ma poi non ci va.
A chi voleva alludere Gesù raccontando questa piccola storia?
Il figlio che aderisce subito alla volontà del padre, ma solo a parole, noi lo conosciamo troppo bene.
Questo figlio superficiale, ipocrita, pigro siamo noi tutte le volte che diciamo: “Sì, o Signore”, ma senza distaccarci minimamente dalle nostre abitudini e dai nostri principi.
Questo figlio siamo noi con il nostro cristianesimo velleitario, parolaio, inconcludente, con il nostro fervore iniziale che subito si esaurisce in una sterile emozione, con tante professioni di buoni sentimenti e tanti alibi al momento di passare alla concretezza del fare.
Quante chiacchiere, per esempio, sulla carità, quante chiacchiere sul fare fraternità e comunità.
Ciò che è grave è il fatto che a furia di dire tante belle parole neppure ci accorgiamo di essere vuoti e mancanti.
Le belle parole ci danno un decoro morale.
Ma è tutta illusione.
Per fortuna non è mai troppo tardi per lasciarci coinvolgere dall’invito di Dio il quale continua a chiamarci a ogni ora della nostra vita.
Poco importa l’ora in cui andremo a lavorare nella vigna.
La sola cosa che conta è di andarci.
Ed ora è il momento di domandarci che cosa rappresenti l’altro figlio, quello che dice no e poi alla vigna ci va.
Ci sono tra noi molti che sembrano lontani dal regno.
Così li abbiamo giudicati.
Del resto, è questa la loro immagine pubblica .
Ma che cosa sappiamo noi della vergogna, del disgusto, della disperazione che ci può essere in una persona?
Che cosa sappiamo noi della sua nostalgia di innocenza e delle sue lacrime?
Ma quello che è nascosto a noi, non è nascosto al Signore.
Egli vede e apprezza questo travaglio interiore che è già un fare.
Il pentimento è già un fare.
Le lacrime sono già degli atti.
Il linguaggio cattolico nomina l’atto di fede, di speranza, di carità e poi l’atto di contrizione.
L’atto di contrizione, questo spezzare dentro di sé la condizione di prima è già un’azione, una creazione nuova, uno slancio che porta dentro i confini del regno.
Un’altra osservazione.
Ci sono quelli che dicono: “Io nel regno di Dio non ci credo”, perché hanno davanti a sè una certa immagine di cristianesimo che è la caricatura del vangelo, ma che poi di fatto si impegnano a difendere e a promuovere i valori del vangelo lavorando per la giustizia, la pace, la fraternità.
Persone che si comportano in questo modo posssiamo conoscerle e incontrarle ogni giorno.
A volte litigano con Dio e con la chiesa, dicono di rifiutare la fede, non sono praticanti e forse anche, dal nostro punto di vista, sono un po’ trasgressive, ma quando c’è gente che ha bisogno sono pronte a entrare nella miseria del prossimo impegnando la mente e il cuore.
Generosamente e silenziosamente.
Sono quelli che a parole dicono no, ma con gli atti dicono sì.
Non dimentichiamo che in quella grande pagina di Matteo in cui viene orchestrata la scena del giudizio finale, la grande distinzione non sarà tra i credenti e i non credenti secondo le appartenenze ufficiali, ma tra chi prova pietà per il povero e chi rimane insensibile.
E’ un destino, questo, che matura per lo più nel segreto, là dove uno è solo, solo con la sua più profonda autenticità.

martedì 30 settembre 2008

XXV Domenica del tempo ordinario


Isaia 55, 6-9
Salmo 144
2 Filippesi 1, 20-27
Matteo 20, 1-16


La parabola che abbiamo letto non è facile da accettare.
La nostra reazione immediata ci porterebbe a sostenere le ragioni degli operai della prima ora:
“No, non è giusto che chi ha lavorato meno di voi, sia ricompensato come voi”
Che cosa dunque intende insegnare Gesù con questa piccola storia?
Gesù non si propone di dettare un codice di morale sociale, ma vuole parlare di quel Dio che egli conosce bene, perché è il Padre suo.
E la prima indicazione è questa: Dio è libero, sovranamente libero, imprevedibilmente libero.
“I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” così parla il Signore attraverso la voce del profeta Isaia.
Noi vorremmo che Dio si attenesse ai nostri schemi mentali e seguisse la nostra logica.
In realtà Dio è sempre al di là dei concetti e delle parole con cui pretendiamo di definirlo e di fissare i suoi comportamenti.
Dio è la Diversità assoluta, il Totalmente altro.
Dio è libero e non finirà mai di stupire.
Questa libertà non è facile da capire, soprattutto quando sembra che essa venga a ledere qualche valore per noi intoccabile.
“Non posso fare del mio quello che voglio?” dice il padrone della vigna.
E noi saremmo tentati di dire: “No, non puoi”, perché abbiamo l’impressione che questa libertà sia usata male, in modo arbitrario, così da ledere giustizia ed equità.
In realtà la libertà di Dio, a differenza della nostra, è sempre al servizio dell’amore.
In Dio libertà e amore coincidono.
Noi possiamo essere liberi ed egoisti, liberi e ingiusti, liberi e meschini.
In Dio invece la libertà è finalizzata sempre all’amore.
La parabola lo dice apertamente là dove il padrone della vigna rivolge questa osservazione a uno di quelli che mormoravano contro di lui: “Tu sei invidioso perché io sono buono?”.
Dopo queste premesse possiamo comprendere meglio il senso del racconto nei suoi tre momenti fondamentali: l’attesa del lavoro, l’invio degli operai nella vigna, il momento della ricompensa.
Sulla piazza ci sono lavoratori disoccupati.
E’ una condizione di cui soffrono molte persone che si trovano nella impossibilità di esprimere le loro energie creative di cui dispongono (penso a tanti giovani che fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro).
Le loro energie rimangono inutilizzate, il loro tempo rimane vuoto, senza un progetto.
E quando manca un progetto, la vita non ha senso.
Questa condizione esprime perciò un appello perché qualcuno venga a liberarti dalle stanchezze di una vita che non è più vita, ma solo rassegnata sopravvivenza.
Questo “qualcuno”, dice la parabola, esiste.
E’ Dio che dalla sua dimora esce a cercare proprio te, a qualsiasi ora.
Riascoltiamo la parabola: “Uscì all’alba… Uscito di nuovo verso le nove….Uscito di nuovo verso mezzogiorno…Uscito ancora verso le cinque….”(ben quattro volte ricorre lo stesso verbo).
Quando pensiamo di essere come lavoratori disoccupati la cui vita sia priva di senso, ci sia dato di aprire gli occhi: accanto a noi c’è qualcuno che vuole impegnarci in un lavoro molto importante.
Forse sarebbe più giusto dire che Dio chiama continuamente con una voce che si fa sentire dentro di noi.
Dio chiama instancabilmente, a tutte le ore della vita di un uomo.
Quasi tutti noi siamo cristiani a partire dall’infanzia.
Qualcuno lo è diventato in età adulta, altri lo diventeranno al termine della loro vita.
Dio dà fiducia a tutti, anche a quelli dell’ultima ora.
Si tratta di accogliere l’invito a lavorare nella vigna del Signore.
Che significato dare a questa espressione?
Vigna del Signore siamo anzitutto noi, con la nostra interiorità che spesso, come terra arida, ha sete di senso e di silenzio, di fraternità e di spiritualità: sete di scoprire che la vita si riceve da un Altro che non vuole se non la nostra felicità.
Da questa esperienza può nascere il desiderio di ripartire verso la vigna di Dio rappresentata dalla propria vita quotidiana, dalla famiglia, dai figli, dal lavoro, da impegni diversi, con la consapevolezza che noi possiamo essere per gli altri, come altri per noi, lo sguardo di Cristo, le mani di Cristo, la tenerezza di Cristo.
E poi bisogna prendere parte a un lavoro più vasto, perché la vigna che ci viene affidata non si limita a quel piccolo appezzamento di terreno che è la famiglia, la scuola, il lavoro, la professione...
Nutrire quelli che hanno fame, provvedere a quelli che non hanno di che vestirsi, accogliere, perdonare, comprendere è la risposta che noi siamo chiamati a dare al padrone che ci ha scelti per la sua vigna, perché il mondo possa essere trasformato e diventare più umano.
Ci sarà una ricompensa diversa a misura dell’impegno che noi avremo dimostrato?
La ricompensa è prevista, ma non secondo le modalità che noi possiamo immaginare.Noi giudichiamo secondo la nostra razionalità che spesso si rivela arida e meschina.
Invece di guardare alla bontà di Dio e di vedere quello che Dio fa per noi, teniamo gli occhi fissi su quello che noi facciamo per lui.Poi, confrontandoci con gli alti, ci giudichiamo migliori e degni quindi di una ricompensa maggiore.
Ma Gesù, narrando questa parabola, vuole proprio richiamarci dalle sponde della nostra ragione a quelle del cuore.
Nella fede c’è sempre un incontro tra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo.
Cittadini del regno saranno perciò uomini pieni di stupore.
Che il Signore ci dia di vivere da fratelli, tutti chiamati a condividere lo stesso lavoro, tutti invitati alla stessa mensa, senza più né primi né ultimi, perché tutti figli dello stesso Padre.

mercoledì 17 settembre 2008

Esaltazione della Santa Croce

Giovanni 3,13-17


Questa festa è esposta a un possibile equivoco.
Se la chiesa esalta la croce, vuol dire che essa esalta il dolore.
Dove sarebbe allora la buona novella, il lieto annuncio?
Un cristianesimo morbosamente legato al dolore, se mai ha avuto qualche fortuna in passato quando l’avventura umana era vista come una traversata in una “valle di lacrime”, oggi sarebbe del tutto improponibile.
Ma si tratta di un equivoco che basterebbe poco a chiarire.
Basterebbe osservare che Gesù non si è mai stancato di predicare la gioia (gioia che è celebrata più di 170 volte negli scritti del Nuovo Testamento) e di guarire malati e infermi: l’avrebbe fatto se avesse coltivato una filosofia doloristica dell’esistenza?
Certo nel vangelo c’è anche la croce.
Ma la croce non sta a significare che Gesù non abbia amato la vita, ma che l’ha amata troppo.
Gesù non ha mai amato il dolore Ha amato piuttosto l’amore.
Ha amato follemente l’amore come, in tempi a noi vicini, Gandhi, Martin Luter King, mons. Romero e tanti altri discepoli di Cristo, tutti caduti sotto i colpi della violenza, tutti crocifissi.
L’amore è sempre vulnerabile.
Ma l’amore resta l’espressione più alta della vita. E anche la più gioiosa.
Risolto il possibile equivoco di cui si diceva (esaltazione della croce non è dunque esaltazione del dolore, ma esaltazione dell’amore che ha portato Cristo a morire sulla croce), contempliamo ora la croce di Cristo.
Essa ci rivelerà il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.
Ci rivelerà anzitutto il vero volto di Dio.
“Mostraci il tuo volto e noi saremo salvi” si legge in un salmo.
Quale Dio ci rivela la croce di Cristo?
Un Dio che, invece di essere quel Dio terribile che spesso abbiamo immaginato, non è altro che infinito, purissimo amore.
Al centro del colloquio tra Gesù e Nicodemo, riportato in parte nel vangelo di questa domenica, c’è questa affermazione che ciascuno dovrebbe imparare a memoria e ripetere spesso, per attingervi un senso di grande fiducia:
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.
All’origine di tutto, c’è Dio che ama il mondo.
Perché lo ama?
Non ci sono ragioni o meglio, l’unica ragione è Dio stesso.
Si tratta di un amore assolutamente gratuito, che viene prima di ogni altra possibile motivazione.
Da questo amore discende la missione del Figlio, il suo abbassamento dentro la condizione dell’uomo, il suo umiliarsi “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce”.
E’ perciò la croce che ci dà il vero volto di Dio.
Essa ci parla di un Dio che ha amato a tal punto da non dare soltanto cose, ma da dare se stesso.
Si può infatti dare molto e amare poco, quando non si ha il coraggio di mettere in gioco se stessi.
Dio ha amato tanto perché non si è limitato a dare, ma si è dato.
Nel dono che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce, bisogna vedere la donazione di Dio stesso.
La croce è il punto di arrivo di una lunga storia di amore.
Rivelazione del volto di Dio, la croce rivela anche il vero volto dell’uomo.
Nonostante lo spessore delle nostre passioni violente, di cui la croce è la prova più eloquente, noi siamo chiamati a una pienezza di vita: vita eterna, vita divina :“affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.
“Chiunque”: nessuno è discriminato o escluso.
Martin Lutero sulla sua Bibbia personale sostituì la parola “chiunque” con “Martin Lutero”.
Un consiglio: invece di scrivere il proprio nome sulla prima pagina della propria Bibbia, bisogna saperlo scrivere qui, al posto della parola “chiunque”.
Tu, io, tutti siamo destinati non a perire, ma a godere di una pienezza di vita.
A volte la chiesa viene accusata oggi di parlare troppo di misericordia e di salvezza, e poco di sanzioni severe senza dire che nessuno osa più parlare di inferno, come succedeva in passato.
Ma è proprio grave questa scelta pastorale alla luce di quello che abbiamo letto nel vangelo, e cioè che Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui?
Si tratta di una salvezza che non appare vincolata a particolari meriti.
E’ un dono gratuito che sta prima dei nostri comportamenti etici.
Vuol dire che non ci è richiesto proprio nulla?
In realtà una condizione esiste ed è quella di accogliere il dono del Signore.
Il Signore non si impone mai: si offre.
Dipende da noi accettare o non accettare.
Dipende tutto dalla nostra fede.
“La fede è necessaria perché è l’unico modo per ricevere le cose di Dio” (Paolo Ricca).
Quello che ci è richiesto è di saper guardare alla croce di Cristo e di vedervi il segno più alto dell’amore di Dio.
E’ la croce il miracolo più grande compiuto da Dio.
Noi siamo sempre alla ricerca di miracoli.
“Siamo eredi di un cristianesimo che sogna miracoli e si lamenta con Dio quando non li compie” (Angelo Casati)
Sulla croce sembra che non ci sia spazio per i miracoli.
Gesù sulla croce è morto senza che intervenisse alcun gesto sorprendente a salvarlo.
Eppure proprio questa assenza di miracoli è il miracolo più grande, il miracolo nuovo.
Il miracolo vero è questo Signore che sta con le braccia allargate.
Contemplare il miracolo delle braccia aperte vuol dire sentirsi compresi dentro questo abbraccio:
“Signore, dunque ci sono anch’io, nonostante tutto?
Posso pensare, sperare che le tue braccia rimarranno sempre aperte ad accogliermi?”.
Contemplare il miracolo delle braccia aperte vuol dire lasciarsi contagiare dalla bellezza di questo gesto e capire che la vita è spesa bene solo quando esprime questo desiderio di allargare le braccia per accogliere, proteggere, custodire tutti quelli che da noi si aspettano un gesto di fraternità e di solidarietà.

domenica 7 settembre 2008

XXIII Domenica del tempo ordinario

Ezechiele 33, 7-9

Salmo 94

Romani 12, 8-10

Matteo  8, 15-20

 

“Nessun uomo è un’isola” recita un famoso aforisma.

Ciascuno è inserito in una rete di relazioni per cui è chiamato a farsi responsabile e solidale nei confronti degli altri.

Questo vale soprattutto per i discepoli di Cristo i quali sanno che gli altri , come figli dello stesso Padre, non sono estranei ma fratelli.

Cosa vuol dire vivere questa condizione di solidarietà all’interno della grande famiglia dei credenti?

Vuol dire essere convinti che c’è come un processo di osmosi per cui il bene e il male,  anche se compiuti da una sola persona, hanno riflessi su tutta la comunità.

E’ tutta la comunità che ne risente o perché si arricchisce della mia santità o perché viene ferita  e indebolita dal mio peccato.

Si comprende perciò l’ammonimento che il Signore rivolge al profeta: “Figlio dell’uomo,  ti ho costituito sentinella per gli israeliti: ascolterai una parola dalla mia bocca  e tu li avvertirai da parte mia”.

Riflettere su queste parole vuol dire prendere in esame anzitutto due possibili atteggiamenti sbagliati.

Il primo è quello di pensare che la verità possa essere imposta con la forza e che pertanto sia legittimo reprimere gli errori con la forza.

Di questo avviso non era certamente il grande papa Giovanni XXIIII il quale distingueva l’errore dall’errante e  invitava a  vedere l’errante come una persona che merita non solo comprensione e rispetto, ma anche amore.

Il secondo atteggiamento da evitare, completamente opposto al primo, è quello che, in nome del principio di tolleranza, sceglie la via della totale indifferenza.

C’è nella Bibbia, sulla bocca di Caino, una frase che  definisce molto bene questo sentimento di estraneità: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.

E’una posizione questa molto diffusa nella società attuale in cui domina la cultura della privatezza

 secondo la quale ciascuno è libero di fare quello che gli pare: anche se sta facendo scelte moralmente sbagliate, perché dovrei intromettermi io nel suo mondo privato?

Che sia lui a vedersela con la sua coscienza o con Dio.

Le letture, mentre non permettono di seguire né la via della intolleranza né quella della indifferenza, tracciano un altro percorso, quello dell’attenzione vigile e partecipe.

“Figlio dell’uomo, - dice il Signore al profeta – io ti ho costituito sentinella”.

Se un fratello sbaglia, non posso perciò rimanere indifferente.

Occorre provare subito una pena profonda, come se  il suo errore ricadesse dentro la mia sfera personale, nell’intimo della mia coscienza.

E questa pena dovrei poi tradurla in una passione di “sciogliere” (è l’espressione che si  trova nel  vangelo), cioè di liberare e di salvare.

Penso all’abbé Huvelin (che ha seguito la conversione di Charles de Foucauld) il quale diceva di non poter incontrare nessuna persona senza sentire il bisogno di darle tacitamente l’assoluzione.

Soltanto se c’è amore, il compito della correzione fraterna può diventare  praticabile e anche veramente costruttivo.

Chi non ama e crede di imporre la sua verità, non fa che generare conflitti.

Chi invece sente l’altro come un fratello e ne porta le colpe e le sofferenze,  sa trovare la via del cuore per toccare la sua coscienza senza ferirlo.

L’amore infatti è paziente, umile, dialogante.

Don Primo Mazzolari diceva: “L’amore non ha fretta”.

Voleva dire che chi ama sa rispettare i tempi di maturazione di ogni essere, ritenendolo capace di  assidui ricominciamenti e di infinite riprese.

E chi ama si muove sempre, in modo discreto, senza alcun senso di superiorità, sapendo che lui stesso avrebbe bisogno di qualche presenza amica in grado di correggerlo e di guidarlo al di fuori della sua abituale mediocrità.

C’è un problema che a volte può creare un forte senso di disagio.

Quando uno, per il fratello che sbaglia, ha pregato, ha consigliato, ha atteso nel silenzio senza vedere alcun risultato, che cosa deve fare di più?

La tentazione è quella di desistere e di abbandonare l’altro al suo destino.

Del resto, anche il vangelo sembra legittimare questo comportamento.

Hai fatto tutto quello che dovevi?

Se non ascolterà nessuno , “sia per te come un pagano e un pubblicano”.

Ma è il caso di riflettere bene su questa parola.

Come si è comportato Gesù di fronte ai pagani e ai pubblicani?

Una delle accuse più frequenti dei suoi avversari riguardava proprio la eccessiva famigliarità che Gesù dimostrava verso i peccatori con i quali spesso condivideva la tavola.

E Gesù rispondeva: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5, 31).

Tenendo conto di questo comportamento di Gesù così umano e solidale con i pubblicani e i peccatori, si comprende meglio il senso delle parole del vangelo, come se Gesù volesse dirci: “Dialoga con tutti, con l’eretico, il dubbioso, il ribelle, il diverso.

Se ti sembra di non vedere  alcun risultato, amali ancora di più, in proporzione della loro ostinazione; amali con quell’amore preferenziale che io ho avuto per i pubblicani e i peccatori”.

E’a questo modo che nasce la vera chiesa.

Ci ha detto Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro”.

Credo che queste parole racchiudano la più bella definizione del mistero della chiesa.

“Due o tre”: non è questione di massa.

Una coppia è già chiesa.

Una famiglia è già chiesa.

Basta che due o tre siano riuniti nel nome di Cristo.

Si può essere decine e decine di migliaia di persone riunite nel nome della banalità o della emozione superficiale: non si crea nulla di significativo.

Si può essere in due o tre che, riuniti nel nome di Cristo, condividono con Cristo la passione di perdonare e di salvare: è lì che nasce la vera chiesa.

Quando un uomo dice a una donna: “Tu sei carne della mia carne. Tu sei il sogno del mio amore”,  quando genitori e figli si accolgono reciprocamente  con tenerezza e comprensione, quando soprattutto due o tre che per tante ragioni sono divisi si riuniscono, si perdonano, si guardano con verità e pietà, lì c’è il Cristo e con il Cristo il regno che lui ha sognato.

sabato 30 agosto 2008

XXII Domenica del tempo ordinario

Geremia 20, 7-9
Salmo 62
Romani 12, 1-2
Matteo 16, 21-27

Pietro, per aver riconosciuto Gesù come il Messia inviato da Dio, viene chiamato “beato”.
Ora lo stesso Pietro viene demonizzato da Gesù: “Lungi da me, Satana!”.
Come si spiega questo contrasto così radicale?
Prima di trovare una risposta, credo sia opportuno raccogliere subito un ammonimento.
E’ possibile, fa capire il vangelo, essere al tempo stesso servitori della fede e traditori della fede.
E’ una situazione che, almeno potenzialmente, riguarda tutti, anche quelli che nella chiesa hanno grandi responsabilità.
Chi fa professione di fede è uno che, segretamente e realmente, potrebbe rinnegare ciò in cui crede.
Riprendiamo la domanda: come può succedere questo, e anzitutto, come è potuto succedere a Pietro?
Pietro aveva riconosciuto il Messia ma, come tanti suoi contemporanei, aveva del Messia un’immagine legata all’idea del successo, dell’affermazione gloriosa, della forza esercitata a favore del suo popolo.
E’ facile capire perché, quando Gesù si mette a parlare dl destino di sofferenza che lo attende, egli non solo non riesca ad accettare una prospettiva così sconcertante, ma si permetta addirittura di prendere in disparte Gesù per dargli una piccola lezione di cristologia in modo da insegnargli quale sarebbe stato il comportamento da seguire.
A questo punto si precisa con chiarezza il suo errore: “Tu pensi secondo gli uomini, non secondo Dio”.
Pensare secondo gli uomini: è questo il peccato più grande contro la fede.
Pensare secondo gli uomini vuol dire avere della vita una visione che contrasta con quella che ci ha insegnato Gesù.
Non è difficile richiamare per rapidi tratti questo modo di pensare e lo stile di vita che ne consegue.
A che cosa siamo portati a dare importanza?
Che cosa ci affascina in modo particolare così da alimentare i nostri sogni e le nostre attese?
Potremmo racchiudere le nostre possibili risposte dentro una parola sola: il privilegio.
Non importa quale privilegio: se di censo, di cultura, di prestigio sociale.
E’ un fatto che l’aspirazione più grande è quella di godere di una superiorità che gli altri non hanno: “Io posso, tu no”.
Perché questo si possa realizzare, è chiaro che bisogna avere un temperamento molto deciso, determinato a conseguire lo scopo prefisso, per nulla disposto a lasciarsi intenerire dalle ragioni degli altri.
Ci si vergogna anzi della sensibilità, perché è considerata come qualcosa di puerile, di poco virile, di debole, di femmineo.
Soprattutto ci si chiude davanti alla sofferenza.
Chi pensa secondo gli uomini, cancellerebbe immediatamente l’immagine della croce.
Se Dio esiste, così egli pensa, dovrebbe rivelarsi là dove c’è qualcosa di grande e di miracoloso, non certo nel segno di una vita crocifissa.
Ma c’è un altro modo di pensare: è il pensare secondo Dio.
In questa nuova prospettiva il privilegio non è più motivo di autocompiacimento, ma diventa impegno di servizio.
I santi, gli uomini toccati dallo Spirito, hanno sempre sentito la responsabilità del loro privilegio.
Ognuno è chiamato a fare dono di ciò che ha ricevuto.
Se hai ricevuto oltre la misura del tuo bisogno essenziale, ricordati che sei in una condizione di privilegio e devi pertanto condividere.
Ma perché questo avvenga, devi valorizzare proprio quella sensibilità che tu saresti portato a rinnegare.
Un uomo che non sia sensibile non è un uomo.
Essere sensibili, che è il dono più grande dello Spirito, vuol dire recepire tutte le cose alte, belle e nobili della vita, soprattutto la sofferenza che si incontra sul proprio cammino.
Se noi manchiamo a questa grande scuola che è l’università del dolore, siamo uomini mancati.
La qualità di un uomo è come quella di una pellicola fotografica, si misura dalla capacità di lasciarsi impressionare dalle cose belle, dalla verità, costi quello che costi, dalla bontà, dalla sofferenza.
Lasciarsi impressionare è lasciare che l’immagine entri dentro di noi.
Non dimentichiamo mai che noi siamo discepoli di Gesù di Nazaret che si è talmente lasciato impressionare dal dolore dell’uomo fino a rimanerne crocifisso.
Dopo queste riflessioni riusciamo forse a capire meglio le parole di Gesù, quando dice ai discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce”.
La croce che il cristiano deve portare è anzitutto quella di pensare non secondo gli uomini, ma secondo Dio, di “non conformarsi – come dice l’apostolo Paolo – alla mentalità di questo secolo”, ma di discernere il pensiero e la volontà di Dio.
Non è facile. Non è stato facile neppure per Gesù.
Quando parla della necessità di rinnegare se stesso, sembra che queste parole le dica anzitutto per sé, per vincere la paura che potrebbe trattenerlo sulla strada che egli intende seguire.
Possiamo anche capire, nel profondo della nostra coscienza, che la via tracciata da Gesù è la via giusta, ma tante volte ci manca il coraggio.
Per superare tutte le resistenze che troviamo dentro di noi, occorre una specie di seduzione come quella di cui parla il profeta Geremia: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”.
Allora ci possono essere dubbi, resistenze, smarrimenti, ma a vincere sarà sempre il fuoco di questa seduzione.
“C’era come un fuoco ardente dentro le mie ossa. – dice ancora il profeta Geremia – Mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.

mercoledì 27 agosto 2008

XXI Domenica del tempo ordinario


Matteo 16, 13-20

“Voi, chi dite che io sia?”
Questa domanda, dopo avere attraversato la coscienza dei discepoli, rimbalza ora sulla sponda della nostra esistenza e si ripercuote dentro la cella segreta della nostra interiorità.
Chi è Gesù per noi? Che cosa rappresenta per la nostra vita?
Se mancasse Gesù, cambierebbe qualcosa nel nostro modo di affrontare l’esistenza?
E’ chiaro che ciascuno viene personalmente interpellato e deve dare una risposta che nasca dal suo particolare rapporto con Gesù.
Certamente potrebbe utilizzare intuizione e parole che appartengono alla tradizione cristiana (anche Pietro, del resto, nella sua risposta si serve di categorie religiose preesistenti), ma ciò che conta è che vengano investite di quel particolare pathos che rivela un legame personale, insostituibile e irrinunciabile.
Io credo comunque che le risposte più belle per Gesù siano quelle che, discostandosi dal linguaggio tradizionale, esprimono fede e amore in forme nuove, con la libertà che è propria degli innamorati quando sanno inventare un “lessico famigliare” pieno di immaginazione e di freschezza poetica.
Recentemente uno scrittore francese, Christian Bobin, ha dedicato a Gesù un piccolo libro dal titolo Il Cristo dei papaveri in cui a un cerio punto, per evocare la figura di Gesù nel suo mistero meraviglioso e inesprimibile, ricorre all’immagine del papavero.
Perché questo accostamento così strano e singolare?
Per dire tutta la fragilità e la forza di Gesù.
Il papavero è un fiore fragile ma è anche forte se può lacerare con il suo rosso smagliante la stoffa compatta e omogenea rappresentata da un campo di grano.
Io credo che anche questa risposta, come quella di Pietro, potrebbe meritare l’apprezzamento di Gesù : “Beato te, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma i Padre mio che sta nei cieli”.
Quando arriveremo anche noi a meritare questa beatitudine promessa da Gesù?
Non quando ripeteremo formule cristologiche perfette, ma senza un piccolo sussulto emotivo che esprima la gioia di conoscerlo e di amarlo, ma quando, sia pure usando immagini e parole che qualcuno potrebbe giudicare improprie o addirittura dissacranti, riusciremo a balbettare almeno qualcosa per confidargli:” Non potrei immaginare di vivere senza di te”.
In questo nostro balbettamento riguardante il fascino con cui Gesù ha conquistato la nostra vita, non dovrebbe comunque mancare una nota importante, la stessa che si trova nelle parole di Pietro quando dice: “Tu sei il Figlio del Dio vivente”.
A intenerirci dovrebbe essere soprattutto il fatto che Gesù ci offre la prossimità di Dio, di un Dio che si rivela attraverso il suo volto, la sua umanità, la sua pietà.
Nella Bibbia ci sono due immagini di Dio che si sono poi affermate nella storia della spiritualità.
C’è anzitutto l’immagine di un Dio onnipotente, che governa il mondo dall’alto della sua sovranità,che dà le leggi e le fa osservare con la prospettiva di premi o di castighi.
E’ il Dio che incute rispetto e perfino paura.
Ma c’è un’altra immagine di Dio.
In questo caso Dio non sta sopra l’umanità, come signore e legislatore temibile, ma prende un volto umano, quello di Gesù.
Allora nelle parole di Gesù: “ E voi, chi dite che io sia?” bisognerebbe avvertire la presenza di Dio che attende di essere riconosciuto con i tratti che maggiormente gli stanno a cuore.
Come è lo sguardo di Dio?
Lo sguardo di Dio lo conosco attraverso lo sguardo di Gesù: non è un sguardo indiscreto che ci raggiunge nei nostri piccoli o grandi segreti per poi giudicarci, ma è uno sguardo che ama cogliere la parte migliore di noi stessi per ridarci fiducia nel realizzare i desideri più veri e i sogni più alti.
E come è il cuore di Dio?
Guardo al cuore di Gesù che ha detto: ”Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
Gesù è umile, divinamente umile, nell’offrirci la presenza di Dio come un dono, non una conquista, come una grazia da accogliere, non come un premio da meritare.
Perciò quando il mistero di Dio dovesse creare nodi inestricabili nella mia coscienza, non faccio altro che guardare a Gesù: è lui che mi risolve tante difficoltà.
E quando il pensiero di Dio potrebbe alimentare qualche paura, è ancora Gesù che mi restituisce la pace che vado invocando.
Per questa via posso anche capire che cosa significhi appartenere a quella chiesa a cui Gesù allude quando dice a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Questa chiesa, prima di essere immaginata come una comunità strutturata per mezzo di una precisa gerarchia che trova in Pietro il suo punto di coesione, dovrebbe essere vista come una grande famiglia di testimoni in cui ciascuno, facendo eco alla confessione di fede data da Pietro, è chiamato a dire a Gesù: “Grazie, o Signore, perché tu mi riveli la prossimità, la tenerezza, l’amicizia di Dio, tu che di Dio sei il volto e l’immagine più vera.
Grazie perché è meraviglioso sapere che c’è Dio che ci ama e a noi chiede anzitutto di lasciarci amare”.

sabato 16 agosto 2008

Assunzione della Beata Vergine Maria

Assunzione della B.V.M.

Luca 1, 38-56

Nel mistero che celebriamo si possono cogliere tre movimenti: c’è un ricevere, un donare e poi ancora un ricevere.
C’è anzitutto un ricevere.
A volte siamo portati a pensare che siamo noi gli artefici del nostro destino.
In realtà, in ogni cuore che batte c’è come l’eco di un battito più misterioso e più profondo, quello del cuore di Dio.
Nel saluto dell’angelo a Maria si trova la parola grazia.
È una parola che in greco può significare sia bellezza che gratuità.
E’ come se l’angelo dicesse a Maria: “Rallegrati, Maria, perché tu sei bella agli occhi di Dio.
E sei bella perché il Signore ti ha fatto dono della sua bellezza”.
Se Maria viene chiamata “piena di grazia”, è perché più di ogni altra creatura ha potuto godere dei doni di Dio.
Ma Maria è anche colei che più di tutti ha avuto coscienza di essere ricolma di grazia.
“Ha guardato l’umiltà della sua serva” canta nel Magnificat.
Dio è pienezza che si riversa nella nostra radicale indigenza.
Dio è sovranità che si curva sulla nostra estrema bassezza.
Davanti alla prodigalità di Dio che manda a ciascuno un angelo in vista di una particolare elezione (bisognerebbe domandarsi: chi è il messaggero di Dio nella mia vita? un uomo, una donna? una comunità di persone? un’amicizia ritrovata?), non c’è che da accogliere come ha fatto Maria: con un sì pieno di stupore e di fiducioso abbandono.
Dopo aver ricevuto, si è chiamati a donare.
Che cosa donare?
Il primo dono dovrebbe essere quello della gratitudine e della lode.
Maria nel Magnificat celebra con gioia la presenza meravigliosa di Dio nella sua vita e nella storia dell’umanità.
Forse il Signore preferisce incontrare qualcuno che sia capace di stupore davanti al miracolo dell’esistenza, anche se di questo ignora l’autore, che non una persona devota, ma dal cuore arido nei confronti della sua opera.
Il donare, come risposta a quanto si è ricevuto, comporta poi una disposizione a condividere i beni, sia materiali che spirituali, che hanno arricchito la nostra vita.
Se contempliamo oggi Maria come figura esemplare, è perché lei, che ha ricevuto il privilegio di portare in grembo il Figlio di Dio, sente subito il bisogno di comunicare ad altri la sua grande gioia.
Abitata dallo Spirito, si mette subito in cammino verso la casa lontana di Elisabetta dove con il suo saluto farà sobbalzare di gioia il piccolo Giovanni (stupenda questa scena: il futuro Messia e il futuro precursore già si riconoscono attraverso l’incontro di due madri).
Da quel momento Maria non farà che donare al mondo il figlio di Dio tanto che la sua vita potrebbe essere vista nel segno di una continua, totale donazione.
Rimane ora da osservare il terzo movimento che entra nel destino di ogni persona: si tratta ancora di ricevere.
Anche in questo caso l’immagine esemplare ci è offerta da Maria la quale è stata talmente associata al Figlio nel suo cammino di donazione da condividere non solo il mistero della morte, ma anche della risurrezione.
Maria è stata assunta in cielo, nella gloria di Dio, anche con il suo corpo perché tutta la sua vita è stata consegnata all’azione vivificante dello Spirito.
È possibile – vuole essere una riflessione conclusiva - mettere in rapporto questo mistero di Maria con la concretezza del nostro vivere?

C’è un aspetto di questo evento che vorrei sottolineare, perché risponde a un’esigenza molto sentita nella cultura attuale.
E’ una cultura molo preoccupata di valorizzare la dimensione della corporeità.
Nel tramonto di tanti valori religiosi e morali, che cosa rimane come bene ultimo da salvare se non il corpo?
Ma il valore del corpo è al centro anche di tutta la rivelazione cristiana e in particolare del mistero che celebriamo.
“Il corpo è il luogo dell’incontro e delle relazioni anche con Dio. – ha scritto un teologo protestante, Martin Cunz – Dio cerca i nostri corpi, prima che le nostre anime, perché le anime possono vivere solo se i corpi sono trasfigurati in templi del Dio vivente”.
Come preparare i nostri corpi alla loro definitiva trasfigurazione?
La vera cultura del corpo è quella inaugurata da Maria la quale si è preoccupata di abbellire il proprio corpo con gesti di tenerezza e con la gioia di comunicare agli altri la propria gioia , come ha fatto nell’incontro con Elisabetta.
Un volto è bello se è illuminato dal sorriso.
Immagino quanto luminoso dovesse essere il sorriso di Maria.
Essere capaci di dispensare un sorriso, di trasmettere un segno di amicizia, di far sobbalzare di gioia un bambino (c’è sempre, in ogni creatura, un bambino da fare sussultare di gioia) è la via privilegiata perché non soltanto lo spirito, ma anche questo nostro corpo si prepari a condividere la perenne giovinezza del nostro Dio.

martedì 5 agosto 2008

XVIII Domenica del tempo ordinario


Matteo 14, 13-21

Nel vangelo di Matteo abbiamo trovato il racconto di un miracolo, di un grande miracolo : pochi pani e pochi pesci bastano sfamare più di 5000 persone.
Questo è il miracolo che ci colpisce di più.
Quando vediamo comparire, come nel caso nostro, qualcosa che prima non esisteva, noi siamo portati a dire: “Qui ci deve essere un miracolo”.
Però bisognerebbe non fermare l’attenzione su questo solo fatto.
Perché, a pensarci bene, il racconto di Matteo nasconde tra le sue pieghe altri miracoli.
Pensiamo, per esempio, al miracolo della fraternità.
Anche in questo caso si verifica qualcosa di sorprendente, che non è nella norma.
Normalmente succede il contrario.
Succede cioè che le cose che possediamo, i beni materiali di cui disponiamo diventino motivo di divisione.
Chi ha non vuole cedere nulla di quello che gli appartiene e possibilmente cerca di prendere anche quello che appartiene agli altri.
C’è un proverbio che efficacemente stigmatizza questo comportamento:”Quello che è mio, è mio, e del tuo facciamo a mezzo”.
E’ da questo comportamento che nascono le divisioni, le contese, le guerre.
Dietro la retorica dei buoni sentimenti, dietro la proclamazione di intenti altruistici si nasconde spesso una volontà di predominio e di sfruttamento.
La stessa cosa succede tra famiglie. Quante penose divisioni per questioni di eredità.
A tale proposito c’è una frase tremenda del grande Machiavelli il quale fa osservare che gli uomini “si dimenticano più facilmente la morte del padre che la perdita del patrimonio”.
Nel miracolo del vangelo invece succede il contrario.
I beni materiali, che normalmente sono motivo di divisioni, diventano motivo di condivisione e di fraternità.
Gesù prende il pane della discordia e delle divisioni e nelle sue mani questo diventa pane di comunione e di riconciliazione.
Qui non c’è più alcuna ombra di contesa o di privilegio.
Cinquemila uomini più le donne i bambini: tutti ricevono e mangiano nella fraternità.
Un altro miracolo presente nella narrazione di Matteo è quello della gratuità.
Anche la gratuità non è nella norma.
Noi siamo legati alla logica della giustizia commutativa, del dare e dell’avere.
Viviamo in un mondo in cui domina la legge del mercato per cui anche le persone valgono per l’utilità che sanno offrire.
Abbiamo cioè, di noi stessi e degli altri, una stima di tipo commerciale, fondata sull’utile.
Può succedere, in certi casi, che si sia disposti a dare, a beneficare senza aspettarsi nulla in contraccambio.
Pensiamo a tanti gesti di filantropia, presenti che nella nostra società.
Ma è proprio vero che non c’è contropartita?
San Francesco di Sales scriveva a una novizia di chiedere perdono tutte le volte che avesse fatto la carità a una persona e di chiedere perdono proprio alla persona beneficata.
Perché diceva questo?
Perché c’è il pericolo, anche nel fare il bene, di cercare la propria affermazione personale, di peccare di paternalismo, di voler dimostrare: “Ecco, io sono umanamente e spiritualmente una persona superiore alle altre”.
Nel vangelo non c’è nulla di questo, ma tutto si svolge nel segno della più limpida gratuità.
Gesù non si atteggia a benefattore: “Distribuite voi” dice ai discepoli.
In tutto il racconto si respira un senso di gratuità, di grazia, di liberalità, di sovrabbondanza.
C’è perfino il superfluo.
Il miracolo è stato così generoso da far dimenticare, quasi, che ce ne fosse bisogno.
E’ chiaro che questo episodio ci proietta verso una condizione di vita che non è la nostra.
Ma ci offre opportune indicazioni perché possa diventare la nostra.
C’è un particolare del racconto che dischiude il senso profondo di quanto è avvenuto quel giorno nel deserto.
Il miracolo preceduto da una preghiera di benedizione: Gesù “rivolto verso il cielo, disse la benedizione”.
La tradizione ebraica prescriveva che per godere delle realtà di questo mondo, come, per esempio, del pane, dell’acqua, della bellezza di un’amicizia, della tenerezza di un amore fosse necessario introdursi con una particolare preghiera.
Con ogni probabilità Gesù davanti a quei cinque pani non ha fatto altro che pronunciare le parole che dovevano essere molto famigliari ad ogni pio israelita. “Benedetto sei tu Signore, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra”.
Era come riconoscere che il pane è dono.
E se è dono, è dono per tutti.
La benedizione sul pane ci ricorda che il pane va condiviso.
Se il pane viene ricevuto come dono, non può a sua volta non essere donato creando quella circolarità dell’amore che è il segno più alto della presenza e della forza del regno di Dio in mezzo a noi.

domenica 13 luglio 2008

XV Domenica del tempo ordinario


Matteo 13, 1-23

La parabola narra l’avventura della parola di Dio.
La parola di Dio – ci dice anzitutto Gesù – è come un seme pieno di vitalità.
Il seme è una piccola cosa, è un niente per chi non ha capacità di immaginazione, mentre, a pensarci bene, è un niente che può sprigionare una forza insospettata.
Tale è la parola di Dio, che in questo si differenzia radicalmente dalle nostre parole.
Come sono le nostre parole?
Spesso sono chiacchiere vuote e inconcludenti, che danno luogo, nel loro incontenibile riprodursi, a forme patologiche di logorrea, cioè a un fiume di parole sopra un deserto di idee e di sentimenti.
Hanno forza le nostre parole?
Purtroppo hanno forza, e quale forza, solo quando sono vòlte a offendere e a ferire.
Con una parola si può anche uccidere una persona.
Non hanno invece alcuna forza quando, come spesso succede, sono ridotte a monologhi sterili e insensati, quando cioè tutti pretendono di parlare e nessuno è disposto ad ascoltare.
Perché la parola sia forte, creativa, poetica (non si dimentichi che la parola poesia in greco ha attinenza con l’idea di fare), bisogna che sia nutrita di silenzi, di sofferenza e soprattutto di ascolto di una parola più alta che è quella pronunciata dalle labbra stesse di Dio.
Ascoltiamo il profeta Isaia: “Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
Quando Dio parla, realizza ciò che dice.
Nella lingua ebraica una stessa parola (dabar) significa il fare e il dire.
E’ vero, per esempio, che ci si riunisce per ascoltare la parola di Dio, ma è ugualmente vero che,
prima ancora, si è convocati dalla parola di Dio.
I santi hanno avuto il privilegio di sperimentare in modo particolare la forza di questa parola.
Si sa che il grande Agostino si è convertito alla lettura di un passo della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo.
“Tolle et lege” gli aveva detto la voce di un fanciullo.
E Agostino, aprendo a caso la raccolta delle lettere di Paolo, si è lasciato conquistare da quella parola che lo invitava a rivestirsi del Signore Gesù Cristo, abbandonando la sua vita disordinata.
Capita anche a noi talvolta di dire: “Quella parola del vangelo mi ha colpito”.
E’ già un segno della forza della parola la quale rivela tutte le sue potenzialità se, dopo averci scosso, trova dentro di noi ascolto e docilità interiore.
Ma il vangelo ci dice anche che la parola di Dio, mentre racchiude in sè una forza sorprendente, non vuole imporsi .
Se Gesù si serve delle parabole, cioè di un linguaggio povero, sobrio, che parla delle cose semplici e umili della terra, è proprio perché intende rispettare la libertà degli ascoltatori lasciando loro il compito di interpretare la sua parola secondo la loro sensibilità e l’intelligenza del loro cuore.
Ci sono quelli che diventano “duri d’orecchi” e non ascoltano, mentre altri si aprono ad ascoltare e a comprendere.
Dio si espone alla nostra libertà.
Noi possiamo paralizzare la forza della sua parola, non in assoluto perché, se non l’ascoltiamo noi, ci saranno altri ad ascoltarla, ma dentro la nostra vita.
Questo succede quando non interiorizziamo la parola, quando cioè il seme non cade profondamente nel terreno.
Tra i tanti pericoli ipotizzati dalla parabola attraverso l’mmagine dei diversi terreni, merita oggi un’attenzione particolare quello della superficialità, della leggerezza, di un’adesione puramente emotiva ed estetizzante.
Sembra che oggi siano tanti i cuori superficiali, leggeri e volubili, pronti a stabilire un rapporto magico e superstizioso con le cose di Dio.
Mazzolari, il grande parroco di Bozzolo, un giorno in una sua omelia pose questa domanda
“Di che cosa Bozzolo ha maggiormente bisogno, di religione o di ragione?” .
E lui stesso si diede la risposta: “Bozzolo ha maggiormente bisogno di ragione”.
Cosa voleva dire?
Voleva far capire che la religione, quando è vissuta in forme superstiziose, non serve.
E’importante perciò dissodare con la riflessione il terreno destinato ad accogliere la parola di Dio se si vuole che questa non cada là dove la sua vitalità potrebbe essere vanificata.
Comunque, al di là di tutti i nostri limiti, questa parabola ci invita a sperare sempre, a coltivare una invincibile speranza.
Perché il seminatore, che è Dio, non si stanca di seminare anche su terreni che sembrano non promettere nulla in ordine al raccolto, ma continua a seminare in abbondanza, fino a lasciare l’impressione di uno spreco.
Sa benissimo che arriverà un giorno in cui la sua parola saprà toccare un lembo della nostra vita dove essa potrà germinare e dare frutti sovrabbondanti.
Penso ai genitori che danno tutto il loro amore ai figli, trasmettendo loro in particolare la loro fede.
Poi essi sono costretti a verificare il fallimento della loro educazione.
Da un certo giorno i figli non frequentano più la chiesa e sembra che Dio non li interessi più.
E i genitori si colpevolizzano.
Che fare?
Agire come Dio, continuare ad amarli.
Continuare a portarli nella preghiera.
Questo amore non va perduto.
Gesù scommette sul terreno buono.
Arriverà un giorno in cui la parola di Dio darà frutti buoni.
Perciò facciamo nostra questa semplice preghiera: “ Vieni, Signore Gesù, a preparare tu stesso il terreno dei nostri cuori.
Passa ancora a seminare il vangelo nella nostra vita”.