Matteo 2,13-15,19-23
La fuga in Egitto è stato un tema molto trattato dai grandi maestri della pittura classica.
Maria, Giuseppe con il piccolo Gesù vengono rappresentati per lo più in un momento di riposo, protetti da una natura particolarmente accondiscendente, quasi a voler prolungare
la suggestione poetica del Natale.
Ma le letture di questa liturgia non permettono di indugiare su queste immagini idilliache.
Esse ci parlano di una famiglia minacciata, che è costretta alla dura esperienza della fuga e dell’esilio. E’una liturgia perciò che ci vuole distogliere da certe atmosfere natalizie
troppo morbide e smemoranti per renderci consapevoli della drammatica avventura che il figlio di Dio, facendosi uomo, è venuto ad affrontare condividendo la nostra storia.
Si vuole dire questo: che per il figlio di Dio il farsi uomo non è stata una finzione, ma un fatto estremamente serio, vissuto senza sconti o privilegi.
E’ passato da poco il suo natale, e già la sua vita è minacciata.
C’è un Erode che lo vuole sopprimere.
C’è una violenza dentro la storia che si accanisce contro i piccoli, le creature più fragili quali sono i bambini.
Penso ai tanti bambini denutriti che affollano i campi profughi disseminati nelle nazioni più povere o a quelli che vediamo approdare sulle nostre spiagge scampati durante la traversata al rischio continuo di fare naufragio.
Penso ai tanti bambini (pare che siano oltre 250 milioni) resi schiavi del lavoro, della prostituzione o abbandonati nelle strade delle favelas in Sudamerica.
E’chiaro: Erode cambia nome, ma la realtà è la stessa. Il posto di Erode è preso oggi dal potere economico, dal fanatismo religioso e politico, dalla sessualità arrogante, da ogni forma di potere perverso.
Questo nostro mondo è sempre segnato dallo scandalo del dolore innocente che costituisce, come sappiamo, la più seria difficoltà per la nostra fede.
Saremmo tutti tentati di rivolgere a Dio questo lamento raccolto da Don Michele Do dalla voce di un contadino della Val d’Ayas:”Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Il Signore qualche nota di conforto oggi ce la offre attraverso la vicenda del bambino Gesù raccontata nel vangelo.
Anzitutto ci porta a vedere che c’è un potere di chi è debole tanto da far paura ai potenti.
La nascita di Gesù mette paura ad Erode.
Da dove viene questo potere?
Dal fatto che i piccoli, cioè tutte le creature fragili e indifese, godono di un particolare rapporto con Dio.
Abitati da Dio, esprimono nel loro volto indifeso, nel loro sguardo innocente una forza straordinaria.
E’ la ragione per cui (le testimonianze al riguardo sono numerose) coloro che nei campi di sterminio nazisti praticavano sui detenuti le più feroci vessazioni non guardavano in faccia le loro vittime.
Tu puoi sopprimere un innocente, ma il suo sguardo diventa un grido, un giudizio, un tormento invincibile.
Il violento è sempre uno sconfitto, anche quando trionfa.
C’è un secondo motivo di incoraggiamento che ci viene trasmesso oggi dal vangelo.
Dio ha un suo modo di condurre la storia che non è quello che viene esercitato dai potenti della terra.
C’è una teologia della storia che può essere espressa mediante le parole di Maria nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.
Erode muore e per tutti gli Erode di questo mondo arriva il momento in cui escono di scena, senza lasciare alcun rimpianto, anzi con un senso di sollievo generale.
E ci sono quelli che, come Giuseppe, si prendono a cuore la causa dell’innocente con l’incrollabile fiducia che l’ultima parola spetta a Dio e che anche nella cronaca più nera c’è una luce: c’è una parola di Dio che sempre ci incoraggia a sperare.
Rimane però sempre aperto il problema angosciante del dolore innocente.
Questo, già l’abbiamo detto, è lo scandalo più grave per la coscienza del credente.
Perché devono soffrire i bambini?
Cosa risponde il nostro Dio?
Gesù non è venuto a spiegare il dolore.
E’venuto a condividerlo.
Da Betlemme in poi la sofferenza è il pane che il Figlio di Dio divide con l’uomo.
Là dove si soffre, anche se la sofferenza è muta, anche nella sofferenza degli animali, anche nella sofferenza della natura (anche la natura soffre e geme in attesa della salvezza), in ogni dolore c’è una partecipazione e una solidarietà del Figlio di Dio nato a Betlemme.
Perciò tutti i nostri interrogativi si sciolgono oggi in preghiera:
“Signore, non ci capiti mai di far soffrire i piccoli, non ci capiti mai di doverci caricare di questa immensa responsabilità.
Rendici anzi capaci di lavorare perché si riduca lo scandalo dei piccoli che soffrono.
E la sofferenza irriducibile che sta al di là delle nostre possibilità, noi la consegniamo a te perché tu la raccolga come un grido. E sia il grido di una nuova nascita”.
domenica 30 dicembre 2007
Natale del Signore
C’è un Natale che conosciamo e un altro Natale che dovremmo conoscere, ma che, in realtà, facilmente ignoriamo.
Il Natale che conosciamo è quello di Betlemme.
Ogni credente, prima che venisse Gesù, aveva coltivato un sogno: di vedere Dio, di poterlo toccare, di incontrarlo faccia a faccia.
A partire dall’aurora dell’umanità, Dio non ha cessato, attraverso avvenimenti e personaggi significativi (si pensi ai profeti), di far filtrare qualche tratto del suo volto segreto.
Ma non erano che tracce di colore su una tela che rimaneva incompiuta.
Dio dimorava nella penombra. Il suo volto rimaneva come velato.
“Dio nessuno l’ha mai visto” scrive Giovanni nel prologo del suo vangelo.
Fino alla notte di Natale in cui, annunciandosi nel grido di un bambino appena uscito dal grembo di sua madre, Dio comincia a svelare il suo volto.
Quel Verbo di Dio che “era in principio” e che Giovanni ha contemplato nella profondità del mistero di Dio, ora ha preso la forma visibile e palpabile di un bambino appena nato.
L’umanità, con la nascita di Gesù, ha avuto la possibilità di vedere e di toccare il suo Dio.
Gesù è la più alta rivelazione di Dio, offerta nella nudità di un bambino.
E qual è il volto di Dio che si rivela in Gesù?
Per capire mettiamo a confronto il comportamento dell’imperatore romano, che era la più grande autorità del mondo allora conosciuto, e quello di Dio.
Cesare Augusto “ordina” (“Ordinò che si facesse il censimento”): è il suo modo di entrare in relazione.
Dio invece “annuncia” (“Vi annunzio una grande gioia”): inaugura un ordine nuovo, dischiude un cammino di libertà.
Cesare Augusto “ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”.
Tutta la terra ridotta in servitù: questo è il sogno dell’imperatore.
Per un editto calato dall’alto, bisogna farsi iscrivere nei registri pubblici per diventare un numero di matricola.
Dio invece annuncia la buona novella per “tutto il popolo” di cui egli non tiene alcuna contabilità, perché non è prevista, per farne parte, alcuna iscrizione preliminare.
Dio non ci dà che un segno: “Questo per voi il segno”.
Bisogna soltanto riconoscerlo.
E’ in quella notte di Natale che venne palesemente riaffermato il valore della libertà.
Questo, di cui abbiamo parlato, è il primo Natale.
Ma c’è un secondo Natale, meno conosciuto, anzi pressoché ignorato, eppure altrettanto importante.
Ne ha parlato l’apostolo Paolo quando, scrivendo ai cristiani del suo tempo, rivolge loro queste parole: “Figlioletti miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo sia formato in voi” (Gal. 4,19), cioè finché Cristo prenda forma in voi.
Ecco l’altro Natale di cui parla la Bibbia, quello in cui Cristo nasce non più in una stalla di Betlemme, ma in ciascuno di noi.
Se esiste questo secondo Natale, allora si capisce subito che il primo Natale, quello di Betlemme, era solo una tappa, non la conclusione di un progetto: il termine siamo noi, nei quali Cristo deve “prendere forma”.
Oggi nessuno potrà vedere Cristo sulla terra, nessuno saprà niente del suo volto, nessuno indovinerà il suo amore estremo se non ci saranno uomini e donne che siano trasparenza del volto di Cristo come Cristo lo è di Dio.
Ecco allora la domanda che l’altro Natale – così l’abbiamo chiamato – ci pone: possiamo dire che Cristo è nato in noi e che noi portiamo la forma di Cristo?
Un cristiano prende la forma di Cristo se ama la povertà di Cristo, la libertà di Cristo, i gesti e le parole di perdono di Cristo.
Un cristiano prende la forma di Cristo quando ha la passione di portare ai fratelli un po’ di luce, di speranza, di fiducia nella vita, di quella pace che è il dono grande del Natale.
A questo proposito, vorrei raccontare una piccola storia che mi è capitato di leggere in questi giorni. E’una storia vera, che ha come protagonista un giovane di 17 anni.
Questi, rimasto orfano, era stato accolto da una famiglia che lavorava la terra, dove veniva trattato più da domestico che da vero figlio.
Mai un gesto di affetto per lui, tanto meno di tenerezza.
Finché un giorno, chiuso nella sua solitudine sempre più esasperata, decise di farla finita con la vita ingerendo un detersivo molto potente e velenoso.
Un medico, prontamente accorso, lo trovò in preda a dolori strazianti e si sentì supplicare: “Aiutatemi a morire!”.
“Vuoi proprio morire?” gli chiese il medico.
“Sì, voglio morire”.
Allora il medico lo prese tra le sue braccia, lo strinse al petto e lo baciò.
È bastata una piccola frazione di tempo perché quel giovane cambiasse radicalmente la domanda e chiedesse: ”Posso sperare di salvarmi?”.
Fu così che, per merito della medicina o , più ancora, per un miracolo dell’amore, quel giovane si salvò.
Ho voluto narrare questa storia perché mi sembra che possa essere ascoltata come una parabola natalizia.
Un cristiano, come l’angelo di Betlemme, deve poter dire: “Vi annunzio una grande gioia”.
È importante perciò domandarsi: che cosa si aspetta la gente per essere felice?
Forse è vero: la salute, un lavoro, poter guadagnare abbastanza, avere soddisfazioni dai figli, essere ascoltati e amati è tutto ciò che vogliono le persone che incontriamo, sia pure con sfumature e accenti diversi.
Possono sembrare attese molto modeste, che non hanno alcun rapporto con la “grande gioia” che come cristiani vorremmo annunciare.
In realtà Gesù ci ama troppo per trascurare questa felicità così elementare che da sempre l’uomo va inseguendo e non sempre riesce a conquistare.
Perciò, chi vuol essere “forma di Cristo”, non deve pensare di offrire programmi di salvezza che siano separati dalla concretezza del vivere, ma deve cominciare a occuparsi del pane, del vestito, della solitudine, del freddo di tante persone.
La “grande gioia” infatti deve incarnarsi in qualche piccola gioia se vuole diventare credibile e suggerire orizzonti più vasti.
È questo il modo di vivere la seconda nascita di Cristo dentro di noi.Si tratta non tanto di celebrare il Natale con una devozione tanto sentimentale quanto sterile e incoerente, ma di vivere dentro di noi la seconda nascita di Cristo condividendo la sua instancabile e totale solidarietà con la sorte di ogni uomo.
Il Natale che conosciamo è quello di Betlemme.
Ogni credente, prima che venisse Gesù, aveva coltivato un sogno: di vedere Dio, di poterlo toccare, di incontrarlo faccia a faccia.
A partire dall’aurora dell’umanità, Dio non ha cessato, attraverso avvenimenti e personaggi significativi (si pensi ai profeti), di far filtrare qualche tratto del suo volto segreto.
Ma non erano che tracce di colore su una tela che rimaneva incompiuta.
Dio dimorava nella penombra. Il suo volto rimaneva come velato.
“Dio nessuno l’ha mai visto” scrive Giovanni nel prologo del suo vangelo.
Fino alla notte di Natale in cui, annunciandosi nel grido di un bambino appena uscito dal grembo di sua madre, Dio comincia a svelare il suo volto.
Quel Verbo di Dio che “era in principio” e che Giovanni ha contemplato nella profondità del mistero di Dio, ora ha preso la forma visibile e palpabile di un bambino appena nato.
L’umanità, con la nascita di Gesù, ha avuto la possibilità di vedere e di toccare il suo Dio.
Gesù è la più alta rivelazione di Dio, offerta nella nudità di un bambino.
E qual è il volto di Dio che si rivela in Gesù?
Per capire mettiamo a confronto il comportamento dell’imperatore romano, che era la più grande autorità del mondo allora conosciuto, e quello di Dio.
Cesare Augusto “ordina” (“Ordinò che si facesse il censimento”): è il suo modo di entrare in relazione.
Dio invece “annuncia” (“Vi annunzio una grande gioia”): inaugura un ordine nuovo, dischiude un cammino di libertà.
Cesare Augusto “ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”.
Tutta la terra ridotta in servitù: questo è il sogno dell’imperatore.
Per un editto calato dall’alto, bisogna farsi iscrivere nei registri pubblici per diventare un numero di matricola.
Dio invece annuncia la buona novella per “tutto il popolo” di cui egli non tiene alcuna contabilità, perché non è prevista, per farne parte, alcuna iscrizione preliminare.
Dio non ci dà che un segno: “Questo per voi il segno”.
Bisogna soltanto riconoscerlo.
E’ in quella notte di Natale che venne palesemente riaffermato il valore della libertà.
Questo, di cui abbiamo parlato, è il primo Natale.
Ma c’è un secondo Natale, meno conosciuto, anzi pressoché ignorato, eppure altrettanto importante.
Ne ha parlato l’apostolo Paolo quando, scrivendo ai cristiani del suo tempo, rivolge loro queste parole: “Figlioletti miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo sia formato in voi” (Gal. 4,19), cioè finché Cristo prenda forma in voi.
Ecco l’altro Natale di cui parla la Bibbia, quello in cui Cristo nasce non più in una stalla di Betlemme, ma in ciascuno di noi.
Se esiste questo secondo Natale, allora si capisce subito che il primo Natale, quello di Betlemme, era solo una tappa, non la conclusione di un progetto: il termine siamo noi, nei quali Cristo deve “prendere forma”.
Oggi nessuno potrà vedere Cristo sulla terra, nessuno saprà niente del suo volto, nessuno indovinerà il suo amore estremo se non ci saranno uomini e donne che siano trasparenza del volto di Cristo come Cristo lo è di Dio.
Ecco allora la domanda che l’altro Natale – così l’abbiamo chiamato – ci pone: possiamo dire che Cristo è nato in noi e che noi portiamo la forma di Cristo?
Un cristiano prende la forma di Cristo se ama la povertà di Cristo, la libertà di Cristo, i gesti e le parole di perdono di Cristo.
Un cristiano prende la forma di Cristo quando ha la passione di portare ai fratelli un po’ di luce, di speranza, di fiducia nella vita, di quella pace che è il dono grande del Natale.
A questo proposito, vorrei raccontare una piccola storia che mi è capitato di leggere in questi giorni. E’una storia vera, che ha come protagonista un giovane di 17 anni.
Questi, rimasto orfano, era stato accolto da una famiglia che lavorava la terra, dove veniva trattato più da domestico che da vero figlio.
Mai un gesto di affetto per lui, tanto meno di tenerezza.
Finché un giorno, chiuso nella sua solitudine sempre più esasperata, decise di farla finita con la vita ingerendo un detersivo molto potente e velenoso.
Un medico, prontamente accorso, lo trovò in preda a dolori strazianti e si sentì supplicare: “Aiutatemi a morire!”.
“Vuoi proprio morire?” gli chiese il medico.
“Sì, voglio morire”.
Allora il medico lo prese tra le sue braccia, lo strinse al petto e lo baciò.
È bastata una piccola frazione di tempo perché quel giovane cambiasse radicalmente la domanda e chiedesse: ”Posso sperare di salvarmi?”.
Fu così che, per merito della medicina o , più ancora, per un miracolo dell’amore, quel giovane si salvò.
Ho voluto narrare questa storia perché mi sembra che possa essere ascoltata come una parabola natalizia.
Un cristiano, come l’angelo di Betlemme, deve poter dire: “Vi annunzio una grande gioia”.
È importante perciò domandarsi: che cosa si aspetta la gente per essere felice?
Forse è vero: la salute, un lavoro, poter guadagnare abbastanza, avere soddisfazioni dai figli, essere ascoltati e amati è tutto ciò che vogliono le persone che incontriamo, sia pure con sfumature e accenti diversi.
Possono sembrare attese molto modeste, che non hanno alcun rapporto con la “grande gioia” che come cristiani vorremmo annunciare.
In realtà Gesù ci ama troppo per trascurare questa felicità così elementare che da sempre l’uomo va inseguendo e non sempre riesce a conquistare.
Perciò, chi vuol essere “forma di Cristo”, non deve pensare di offrire programmi di salvezza che siano separati dalla concretezza del vivere, ma deve cominciare a occuparsi del pane, del vestito, della solitudine, del freddo di tante persone.
La “grande gioia” infatti deve incarnarsi in qualche piccola gioia se vuole diventare credibile e suggerire orizzonti più vasti.
È questo il modo di vivere la seconda nascita di Cristo dentro di noi.Si tratta non tanto di celebrare il Natale con una devozione tanto sentimentale quanto sterile e incoerente, ma di vivere dentro di noi la seconda nascita di Cristo condividendo la sua instancabile e totale solidarietà con la sorte di ogni uomo.
sabato 22 dicembre 2007
VI Domenica di avvento
1 Samuele 7, 1-5.8-12.14-16
Salmo 88
Romani 16, 25-27
Luca 1 26-38
Bisognerebbe leggere i testi di questa liturgia con l’animo aperto a un infinito stupore.
Come quando da piccoli ci capitava di ascoltare una storia meravigliosa, con gli occhi che brillavano per la dolce emozione.
Perché tutto ciò che ci viene raccontato è nel segno della novità, della sorpresa, dell’incantamento.
E non si tratta di una favola, ma di una realtà che ha la leggerezza di una favola.
Protagonista assoluto di questa narrazione è Dio, o meglio, la fantasia di Dio.
E’una fantasia, quella di Dio, che noi stentiamo a seguire in tutti i suoi imprevedibili percorsi.
Dico “noi” occidentali, che ci siamo arresi alla dimensione della razionalità tecnologica mortificando la immaginazione e gli slanci del cuore.
Anche il nostro mondo religioso soffre di queste angustie se è vero che siamo tutti pronti a riconoscere che “nulla è impossibile a Dio” (come dice a Maria l’angelo dell’annunciazione), ma di fatto pretendiamo di essere noi a governare la volontà di Dio, con il risultato di vivere una religione dove tutto è scontato, prevedibile, risaputo e perciò noioso; dove anche Dio diventa noioso, in quanto creato a nostra immagine e somiglianza.
Ma Dio è libertà totale, è novità, è sorpresa.
E’ un Dio che non può essere relegato negli spazi ristretti che noi gli assegniamo, perché egli sbuca fuori da tutte le parti.
Questo osservazioni le possiamo ricavare già dalla prima lettura, dove si parla dell’idea che ebbe Davide, quando finalmente potè godere di una dimora degna di un re.
Allora pensò: ”Non è giusto che il mio Dio non abbia una casa dove dimorare voglio costruirgli una dimora confortevole almeno quanto la mia.”.
Verrebbe voglia di applaudirlo, ma c’è un particolare non trascurabile: Dio non è d’accordo.
Non sarà Davide a dare una casa a Dio, ma sarà Dio a cercare una casa per sè.
In che modo si sarebbe attuata questa profezia?
La piena realizzazione la conosciamo attraverso il testo di Luca.
“Lo Spirito santio scenderà su di te…su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”: è stupenda nella sua profondità e delicatezza questa espressione.
Si parla dunque di Dio, di un Dio che discende e quasi dimentica la sua dimora eterna per dimorare n mezzo agli uomini.
E dove Dio intende porre la sua nuova dimora?
Dire che la casa di Maria è il nuovo tempio di Dio è qualcosa di vero e insieme di non completamente vero.
La dimora sarà ancora più piccola per colui che è l‘immenso e l’eterno: la dimora sarà la carne di Maria.
Il grembo di Maria è l’arca, la tenda, il tempio di Dio.
Ma neppure quest’ultima affermazione esprime tutta la novità del vangelo.
C’è un altro tempio, più piccolo ancora, più segreto: un nulla di tempio.
E’quel germe di carne che prende vita nel ventre di Maia: in quel niente si rivela l’inaccessibile e l’invisibile Dio.
Mistero immenso la venuta di Dio fatta di soffio e di ombra, mistero stupendo se si pensa che la salvezza non è significata in questo racconto da una perfezione morale conquistata a duro prezzo, ma da un abbandono all’azione gratuita di Dio.
“Piena di grazia” così l’angelo saluta Maria: piena cioè dell’amore gratuito di Dio.
La salvezza consiste nel lasciarsi amare.
E’ un messaggio meraviglioso soprattutto per noi che ci troviamo a misurarci con i nostri limiti morali e spirituali, sempre risorgenti perché mai completamente debellati.
Se la salvezza dipendesse unicamente dal proprio impegno volontaristico, chi potrebbe dire di meritarla?
Ma ci conforta sapere che prima di ogni nostro merito, c’è la grazia, c’è un Dio di grazia,.
C’è un Dio che si incarna per amore e perciò è nella nostra carne, nel nostro nascere e morire, nella successione dei giorni e in ciascuna delle nostre giornate.
E questo avviene prima che ce ne rendiamo degni tanto che al ostro fratello ateo potremmo – dovremmo - segretamente confidare: “Tu credi di esserti separato da Dio, ma Dio non si separa mai da te”.
Si diceva all’inizio dello stupore che dovrebbe essere la nota emotiva costante della nostra fede.
Ma per aprirsi allo stupore e per nutrirsi di stupore è importante ascoltare la “musica silenziosa” che accompagna l’ombra così dolce dell’annunciazione.
Di questo ascolto attento e silenzioso, colmo di stupore, Maria nel vangelo è un’ummagine esemplare.
L’angelo Gabriele la trova raccolta nella sua casa.
Non è necessario, come hanno fatto tanti artisti, immaginarla inginocchiata a leggere qualche testo profetico o a pregare.
E’ certo invece che il colloquio è avvenuto nel raccoglimento di una piccola casa palestinese.
Può essere che anche a noi Dio mandi un angelo. Se non ci trova. è perché non siamo in casa.
Voglio dire questo: non siamo raccolti in quella grotta interiore in cui Gandhi amava dimorare,
ma siamo sempre altrove, dispersi in mezzo a mille banalità, a inseguire interessi senza spessore. Chi è capace ancora di trovare uno spazio di silenzio per ascoltare una voce che venga dalla profondità di Dio?
Dovremmo perciò, preparandoci al Natale, affidare al Signore questa preghiera:
“Signore, abbiamo capito che la tua parola non ama le piazze e le ribalte, ma i silenzi colmi di attesa.
Salvaci dalle parole inutili, le nostre e quelle degli altri.
Fa’ che troviamo la via di casa dove possa avvenire anche per noi un annuncio portatore di gioia”.
Salmo 88
Romani 16, 25-27
Luca 1 26-38
Bisognerebbe leggere i testi di questa liturgia con l’animo aperto a un infinito stupore.
Come quando da piccoli ci capitava di ascoltare una storia meravigliosa, con gli occhi che brillavano per la dolce emozione.
Perché tutto ciò che ci viene raccontato è nel segno della novità, della sorpresa, dell’incantamento.
E non si tratta di una favola, ma di una realtà che ha la leggerezza di una favola.
Protagonista assoluto di questa narrazione è Dio, o meglio, la fantasia di Dio.
E’una fantasia, quella di Dio, che noi stentiamo a seguire in tutti i suoi imprevedibili percorsi.
Dico “noi” occidentali, che ci siamo arresi alla dimensione della razionalità tecnologica mortificando la immaginazione e gli slanci del cuore.
Anche il nostro mondo religioso soffre di queste angustie se è vero che siamo tutti pronti a riconoscere che “nulla è impossibile a Dio” (come dice a Maria l’angelo dell’annunciazione), ma di fatto pretendiamo di essere noi a governare la volontà di Dio, con il risultato di vivere una religione dove tutto è scontato, prevedibile, risaputo e perciò noioso; dove anche Dio diventa noioso, in quanto creato a nostra immagine e somiglianza.
Ma Dio è libertà totale, è novità, è sorpresa.
E’ un Dio che non può essere relegato negli spazi ristretti che noi gli assegniamo, perché egli sbuca fuori da tutte le parti.
Questo osservazioni le possiamo ricavare già dalla prima lettura, dove si parla dell’idea che ebbe Davide, quando finalmente potè godere di una dimora degna di un re.
Allora pensò: ”Non è giusto che il mio Dio non abbia una casa dove dimorare voglio costruirgli una dimora confortevole almeno quanto la mia.”.
Verrebbe voglia di applaudirlo, ma c’è un particolare non trascurabile: Dio non è d’accordo.
Non sarà Davide a dare una casa a Dio, ma sarà Dio a cercare una casa per sè.
In che modo si sarebbe attuata questa profezia?
La piena realizzazione la conosciamo attraverso il testo di Luca.
“Lo Spirito santio scenderà su di te…su te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”: è stupenda nella sua profondità e delicatezza questa espressione.
Si parla dunque di Dio, di un Dio che discende e quasi dimentica la sua dimora eterna per dimorare n mezzo agli uomini.
E dove Dio intende porre la sua nuova dimora?
Dire che la casa di Maria è il nuovo tempio di Dio è qualcosa di vero e insieme di non completamente vero.
La dimora sarà ancora più piccola per colui che è l‘immenso e l’eterno: la dimora sarà la carne di Maria.
Il grembo di Maria è l’arca, la tenda, il tempio di Dio.
Ma neppure quest’ultima affermazione esprime tutta la novità del vangelo.
C’è un altro tempio, più piccolo ancora, più segreto: un nulla di tempio.
E’quel germe di carne che prende vita nel ventre di Maia: in quel niente si rivela l’inaccessibile e l’invisibile Dio.
Mistero immenso la venuta di Dio fatta di soffio e di ombra, mistero stupendo se si pensa che la salvezza non è significata in questo racconto da una perfezione morale conquistata a duro prezzo, ma da un abbandono all’azione gratuita di Dio.
“Piena di grazia” così l’angelo saluta Maria: piena cioè dell’amore gratuito di Dio.
La salvezza consiste nel lasciarsi amare.
E’ un messaggio meraviglioso soprattutto per noi che ci troviamo a misurarci con i nostri limiti morali e spirituali, sempre risorgenti perché mai completamente debellati.
Se la salvezza dipendesse unicamente dal proprio impegno volontaristico, chi potrebbe dire di meritarla?
Ma ci conforta sapere che prima di ogni nostro merito, c’è la grazia, c’è un Dio di grazia,.
C’è un Dio che si incarna per amore e perciò è nella nostra carne, nel nostro nascere e morire, nella successione dei giorni e in ciascuna delle nostre giornate.
E questo avviene prima che ce ne rendiamo degni tanto che al ostro fratello ateo potremmo – dovremmo - segretamente confidare: “Tu credi di esserti separato da Dio, ma Dio non si separa mai da te”.
Si diceva all’inizio dello stupore che dovrebbe essere la nota emotiva costante della nostra fede.
Ma per aprirsi allo stupore e per nutrirsi di stupore è importante ascoltare la “musica silenziosa” che accompagna l’ombra così dolce dell’annunciazione.
Di questo ascolto attento e silenzioso, colmo di stupore, Maria nel vangelo è un’ummagine esemplare.
L’angelo Gabriele la trova raccolta nella sua casa.
Non è necessario, come hanno fatto tanti artisti, immaginarla inginocchiata a leggere qualche testo profetico o a pregare.
E’ certo invece che il colloquio è avvenuto nel raccoglimento di una piccola casa palestinese.
Può essere che anche a noi Dio mandi un angelo. Se non ci trova. è perché non siamo in casa.
Voglio dire questo: non siamo raccolti in quella grotta interiore in cui Gandhi amava dimorare,
ma siamo sempre altrove, dispersi in mezzo a mille banalità, a inseguire interessi senza spessore. Chi è capace ancora di trovare uno spazio di silenzio per ascoltare una voce che venga dalla profondità di Dio?
Dovremmo perciò, preparandoci al Natale, affidare al Signore questa preghiera:
“Signore, abbiamo capito che la tua parola non ama le piazze e le ribalte, ma i silenzi colmi di attesa.
Salvaci dalle parole inutili, le nostre e quelle degli altri.
Fa’ che troviamo la via di casa dove possa avvenire anche per noi un annuncio portatore di gioia”.
sabato 15 dicembre 2007
V Domenica di avvento
Isaia 35, 1.6-10
Salmo 145
Giacomo 5, 7-10
Matteo 11, 2-11
Tutta la scena è occupata, sia pure con modalità diverse, da Giovanni e da Gesù.
Giovanni agisce “fuori campo” : si trova infatti recluso nella prigione di Erode e non può comunicare se non attraverso la collaborazione di discepoli molto fidati, strettamente legati a lui.
Gesù invece agisce liberamente sulla scena: ascolta, risponde, si serve di parole e anche di gesti significativi.
Ma sulla scena ci siamo anche noi, particolarmente interessati a un duplice problema: quello della vera identità di Giovanni e quello della vera identità di Gesù.
Giovanni ci sorprende con la domanda trasmessa a Gesù. “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”.
Pare di avvertire in queste sue parole l’affiorare di un dubbio.
Perché Giovanni incomincia a dubitare dopo che con sicurezza aveva indicato in Gesù il Messia atteso?
Le ragioni non mancavano.
Giovanni si era formato un’idea del Messia che non trovava incarnata in Gesù.
Il Messia avrebbe dovuto assumere il compito di giustiziere separando nettamente il mondo dei buoni da quello dei malvagi.
Tutti si attendevano, al suo arrivo, un intervento folgorante di Dio.
Succede al contrario – ecco perché Giovanni rimane deluso – che Dio nella predicazione di Gesù appare come un pastore che va incerca della pecora smarrita o come un padre che attende il ritorno del figlio dopo che questi aveva lasciato la casa dilapidando il patrimonio di famiglia.
Appare come uno che non separa i giusti dai peccatori, anzi i peccatori li cerca e va a pranzo con loro.
Ma c’è una seconda ragione che può spiegare il dubbio di Giovanni.
Perché Gesù che come Messia doveva disporre del potere di Dio, permetteva che un difensore della casa di Dio subisse la durezza del carcere e la minaccia di una morte violenta?
A questo modo Giovanni si è fatto precursore anche dei nostri problemi e dei nostri dubbi.
Come lui infatti ci sentiamo provocati a interrogarci sempre più profondamente sull’identità di Gesù.
Padre Balducci, grande testimone della fede nel nostro tempo, parlava di un Cristo edito e di un Cristo inedito.
Più semplicemente potremmo parlare di un Cristo conosciuto e di un Cristo sconosciuto.
E del Cristo conosciuto ciascuno di noi si è fatto un’immagine precisa, ben definita.
Per lo più è colui che dovrebbe rispondere alle nostre preghiere, sciogliere i nostri problemi, placare le nostre paure.
Ma viene il momento in cui questa immagine, la nostra, non tiene più.
E’ la fatica di credere.
“Nessuno di noi – ha scritto recentemente il nostro amatissimo card. Martini – è lontano da tale esperienza. C’è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere”. E’ la fatica di credere, si diceva.
Un conto infatti è la fede dei libri e del catechismo, un conto è la fede che si misura con gli avvenimenti e con la vita.
Questa è una fede interrogante, una fede in ricerca.
E’ una fede che provoca Gesù a rivelarsi. Come Giovanni.
“Gesù, chi sei veramente?
Ti invochiamo e ti attendiamo continuamente come salvatore, e intanto nel mondo ci sono ancora guerre spaventose, bambini sfruttati e affamati, poveri da tutti dimenticati, gente disperata.
Sei proprio tu il salvatore, oppure ci siamo sbagliati e dobbiamo aspettarne un altro?”
Gesù non ci dà la risposta che noi ci aspetteremmo di avere.
Non definisce e non dimostra nulla.
Semplicemente vuole darci un suggerimento per scoprire il suo vero volto (p. Balducci parlerebbe del volto inedito) lasciando ciascuno libero di valutare e di decidere.
Gesù (è quello che farà sulla strada per Emmaus) invita Giovanni a rileggere le scritture.
E i testi che Gesù sceglie per presentare la sua missione ci danno un ritratto del Messia molto semplice, al servizio, soprattutto, degli umili, di disgraziati di ogni sorta.
Questa immagine Gesù ha cercato di interpretarla mettendosi dalla parte dei poveri, dei malati, dei disprezzati, degli esclusi.
A tutti annunciava la tenerezza del Padre.
Quando passava, si sentiva la vibrazione di un’esistenza nuova.
Un’allegrezza sconosciuta.
Ecco il vero volto del Messia che noi dobbiamo continuamente riscoprire ricordando che la
presenza di Gesù è sempre discreta.
Non viene a compiere i miracoli straordinari che noi vorremmo, ma quelli nascosti nella vita di tutti i giorni, piccoli segni di risurrezione che confortano in vista della risurrezione ultima.
Per capire Gesù bisogna mettersi dalla parte degli umili.
Sono essi che più di tutti hanno il dono di riconoscere i segni della misericordia di Dio.
C’è chi vede i miracoli, ed è come se non li vedesse.
E c’è chi anche nelle piccole cose sa vedere qualcosa di prodigioso.
Come quella signora anziana e inferma che recentemente mi diceva : “I veri miracoli sono gli incontri con gli amici”.
Siamo alla ricerca di segni per confortare la nostra fede.
Guardiamo attorno a noi, vicino a noi. Scopriremo meraviglie di altruismo e di generosità.
In un mondo dove i profeti di sventure sono legioni, c’è bisogno di profeti che sappiano esercitare il ministero dell’incoraggiamento.
Solo così dimostreremo di essere non soltanto credenti, ma, come voleva l’abbé Pierre, cristiani credibili.
sabato 8 dicembre 2007
Solennità dell'Immacolata Concezione
Genesi 3, 9-15.20
Efesini 1, 3-6.11-12
Luca 1, 26-38
La festa che oggi celebriamo getta luce sul nostro passato e sul nostro futuro.
Che cosa troviamo nel nostro passato?
Quello che si è soliti chiamare peccato originale da cui la Vergine, solo lei, sarebbe stata immune.
Attorno al tema del peccato originale, quante domande si intrecciano, e dubbi e curiosità.
Di che peccato si tratta? E quando è stato commesso?
E perché tutti sono partecipi? Come si fa a crederci?
Possiamo spiegare così.
C’è stato un tempo in cui, all’interno del popolo ebraico, alcune persone particolarmente attente alla condizione dell’uomo, hanno cominciato a riflettere su alcuni problemi.
Si sono chiesti: “Perché l’uomo vive nella paura e ha paura di tutto? Ha paura di Dio, ha paura dei suoi simili, ha paura della natura che sente spesso come resistente e ostile.
Perché la fatica del vivere, la sofferenza? Perché la morte?”.
Le risposte si possono sintetizzare così.
No, all’origine la situazione era diversa. E anche alla fine sarà diversa.
Il mito del paradiso terrestre sta ad indicare per il passato, ma anche per un orizzonte futuro, un creazione intatta, luminosa, armoniosa.
Che cosa è intervenuto ad alterare questa armonia cosmica?
“Se mangerete quel frutto, sarete come Dio”
Da parte dell’uomo c’è stata la volontà di essere come Dio.
Con un linguaggio più moderno, potremmo parlare di volontà di onnipotenza.
L’uomo dimentica la sua condizione creaturale, finita. Non accetta il suo limite.
Si lascia abbagliare dal dominio e dal potere:“sarò come Dio”.
E’ qui la radice del peccato. Ecco qual è il peccato originale, origine, modello e gestazione di ogni peccato.
E si spiegano le conseguenze che la Bibbia presenta come punizioni inflitte da Dio e che possono essere viste – le due cose si equivalgono – come effetto della ribellione a Dio.
Una volta infranto il rapporto creaturale con Dio, è infranto ogni equilibrio.
In questo disordine si accampano la paura, la menzogna, l’incomunicabilità, il dominio violento.
Alcune rapide annotazioni.
Adamo e Eva hanno paura di Dio: si nascondono.
E poi cadono nella menzogna e nell’inimicizia: “E’stata lei!”; “No, è stato il serpente!”.
E questa frattura si estende, diventa cosmica. Diventa frattura tra l’uomo e la creazione.
Oggi noi abbiamo sotto gli occhi un spaventosa manifestazione di questo peccato dell’uomo contro la creazione.
Basti pensare alle alterazioni climatiche prodotte da un uso dissennato delle risorse energetiche.
“Adamo, dove sei?”: Dove sei, uomo? Dove sei , donna? Dove sei, terra?
In quel grido, il grido di Dio, è scritta la nostra storia, la storia delle nostre fughe, delle nostre alienazioni, dei nostri smarrimenti.
Fin qui non ho fatto altro che evocare il peccato di origine come peccato di ribellione e le sue conseguenze.
Era necessaria, a me pare, questa lunga introduzione per capire il senso della festa che celebriamo.
Abbiamo ascoltato il grido di Dio rivolto all’uomo nel paradiso terrestre: “Dove sei?”, ma in quel grido non c’è soltanto la storia dei nostri fallimenti, ma c’è la storia del nostro Dio, di un Dio che è alla ricerca dell’uomo, di un Dio che ama l’uomo e non si rassegna a perderlo.
C’è dunque la storia di un lungo amore, che viene da lontano, dalla sponda dell’eternità.
Ebbene, questo amore che viene dall’eternità noi oggi lo vediamo brillare sul volto di Maria.
Dire Immacolata Concezione vuol dire affermare che c’è un lembo, una zolla della nostra terra, ed è Maria, che è sottratta al disordine di cui abbiamo parlato e appartiene invece all’ordine originale.
E questo per l’amore di Dio che in tale modo voleva preparare la venuta tra noi di Gesù, il figlio suo e figlio di Maria.
Contemplare Maria vuol dire contemplare uno spazio di salvezza e la via della nostra speranza.
E’ significativo il saluto dell’angelo a Maria: “Ave, o piena di grazia”.
Letteralmente, stando al testo greco, si dovrebbe dire: “Rallegrati, gioisci, o tu che sei immensamente amata”.
Ed è per questo che, contemplando Maria, noi contempliamo, con l’aiuto della Lettera agli Efesini, la dignità di ogni uomo, di ogni donna, di ciascuno di noi, di ogni bambino che nasce.
Per ciascuno vale, come per Maria, la parola:
“O tu che sei da lungo tempo immensamente amato;
o tu da sempre presente nell’amore e nel disegno di Dio”.
Ma “essere amati”è anche un lasciarsi amare, è rispondere all’amore dicendo come Maria:”Eccomi”.
Il peccato, abbiamo visto, è un no detto a Dio.
La salvezza è il sì detto a Dio (Maria è stata tutto un sì) e dire sì a Dio è ritrovare l’armonia perduta: è dire sì alle stelle, all’erba, ai fiori, agli animali, all’uomo, alla donna.
Se avessimo il coraggio di dire anche noi davanti a Dio: “Eccomi”, riconoscendo la nostra finitezza creaturale e la nostra dipendenza da Dio, nascerebbe un nuovo senso di umiltà, di mitezza, di mansuetudine nei rapporti tra le persone. Nascerebbe un nuovo modo di amare.
Deve essere un “eccomi” detto non solo a Dio, ma ripetuto a chi sta accanto a noi.
Perché l’amore vero è anche accettare di dipendere da un’altra persona.
È felicità di aver bisogno di un’altra persona, rinunciando alla propria orgogliosa sicurezza.
“Eccomi”. Ed è come se la creazione ricominciasse da capo e la terra tornasse a fiorire, a esultare di gioia
Ma “essere amati”è anche un lasciarsi amare, è rispondere all’amore dicendo come Maria:”Eccomi”.
Il peccato, abbiamo visto, è un no detto a Dio.
La salvezza è il sì detto a Dio (Maria è stata tutto un sì) e dire sì a Dio è ritrovare l’armonia perduta: è dire sì alle stelle, all’erba, ai fiori, agli animali, all’uomo, alla donna.
Se avessimo il coraggio di dire anche noi davanti a Dio: “Eccomi”, riconoscendo la nostra finitezza creaturale e la nostra dipendenza da Dio, nascerebbe un nuovo senso di umiltà, di mitezza, di mansuetudine nei rapporti tra le persone. Nascerebbe un nuovo modo di amare.
Deve essere un “eccomi” detto non solo a Dio, ma ripetuto a chi sta accanto a noi.
Perché l’amore vero è anche accettare di dipendere da un’altra persona.
È felicità di aver bisogno di un’altra persona, rinunciando alla propria orgogliosa sicurezza.
“Eccomi”. Ed è come se la creazione ricominciasse da capo e la terra tornasse a fiorire, a esultare di gioia
domenica 2 dicembre 2007
III Domenica di avvento
Isaia 2, 3-5
Salmo 121
Romani 13, 11-14
Matteo 24, 37-44
Se qualcuno mi chiedesse di spiegare il senso esatto di tutte le parole che abbiamo trovato oggi nel Vangelo, direi subito di non essere in grado.
Abbiamo letto, ad esempio, che “due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato; due donne saranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata”.
Che cosa voleva dire esattamente il Signore con queste parole?
Io non saprei indicarlo.
Rimangono anche per me parole misteriose così come restano enigmatici e perfino inquietanti altri passi del vangelo.Devo aggiungere che non mi vergogno di non sapere.Ritengo anzi una fortuna il fatto di non comprendere tutto.
Se riuscissimo a capire e a spiegare tutto, noi potremmo pensare di essere i possessori della parola.
Ora Dio è più grande del nostro cuore. E nessuno può sentirsi proprietario.
Inoltre, se noi pretendessimo di conoscere perfettamente ciò che Dio ci ha detto, saremmo tentati di imporre agli altri la nostra comprensione, come se fosse la sola vera.
Vuol dire lasciare la porta aperta a tutti gli integrismi, a tutti i fanatismi e relative intolleranze.
Per contro, riconoscere che noi non comprendiamo tutto, dispone ad un atteggiamento di umiltà che ci fa sentire davanti al Signore come mendicanti di luce.
Dio non ci parla per soddisfare la nostra curiosità intellettuale.
Egli vuole che, a partire dal nostro desiderio mai appagato, ci sentiamo sempre protesi alla scoperta del suo mistero.
In questo senso si dovrebbe interpretare l’invito a vegliare che Gesù non si stanca di raccomandare in queste liturgie di avvento.“Vegliate dunque” abbiamo ascoltato anche nel vangelo di questa domenica.
Ci chiederemo: perché vegliare? E successivamente: Come vegliare?Perché vegliare, vigilare, prestare attenzione?
Perché il Signore, che verrà alla fine dei tempi nello splendore della sua divinità, viene sempre in mezzo a noi, seppure in modo molto discreto.
È venuto a Betlemme nell’umiltà e nella povertà del nostra natura umana, e continua a venire con lo stesso stile di semplicità, non alla maniera dei “Grandi” della terra, attraverso le vicende che siamo chiamati a vivere.
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” ci ha confidato Gesù nell’Apocalisse.
Egli bussa delicatamente alla porta.
Ma ci sono in noi tante voci che ci distraggono, tante preoccupazioni, tanti progetti diversi per cui non ascoltiamo chi sta bussando alla nostra porta.
Si ripete quello che è avvenuto ai tempi di Noé e che Gesù ha denunciato nel Vangelo.
“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito”: che cosa c’era da rimproverare in questi comportamenti?
Non c’erano eccessi, né dissolutezze, né palesi ingiustizie.
Facevano cose che altrove, nella Bibbia vengono lodate.
Che male c’è nel seguire gli appetiti naturali del vivere?
Chi vuol fare l’angelo, ha detto giustamente qualcuno, si riduce a fare la bestia.
Ciò che viene condannato è quello stato di incoscienza in cui spesso ci si trova a vivere, E’ la mancanza di attenzione e di apertura verso qualcosa di sorprendente che deve ancora avvenire.
E’ vivere come se Dio non esistesse.
Si corre allora il rischio di morire senza aver vissuto.Maurice Zundel, grande mistico del ‘900, ha detto “Se non sei vivo al momento della morte, non lo sarai mai”.
Ma per essere trovati viventi al momento della morte, bisogna saper vegliare.
Ma come vegliare?
Vegliare vuol dire saper costruire, come ha fatto Noè, giorno dopo giorno un’arca che ci possa salvare da ogni possibile naufragio.
Vegliare è dunque una questione di fede e di speranza, di quella speranza di cui ci ha parlato il papa nell’ultima enciclica.
Vegliare è la ferma fiducia di essere portati, custoditi, protetti, salvati al di sopra dei pericoli e della stessa morte, dentro una sorta di arca di Noé.
Ma per vegliare veramente bisogna occuparsi anche della sorte di coloro,che, accanto a noi, dimostrano di vivere bene, senza darsi alcun pensiero di Dio e dell’aldilà.
Con il nostro spirito apologetico abbiamo pensato che queste persone , dopo un’esperienza cosi paganeggiante, dovessero accusare una specie di vuoto pauroso.
Ma onestamente dobbiamo riconoscere che sono tantissime le persone che nei nostri paesi e nelle nostre città vivono come i contemporanei di Noé, con una invidiabile serenità.
E allora sorge un problema: perché inquietare queste coscienze, perché complicare la loro vita con le nostre preoccupazioni di ordine religioso?
Parlare dunque o stare in silenzio?
Possono parlare coloro che, avendo gustato i doni di Dio, sanno che esiste una felicità insospettata, più meravigliosa di quella procurata dai piaceri della vita.
Si tratta perciò di sedurre i nostri “pagani” moderni irraggiando su di essi la gioia della nostra fede.
Dobbiamo saper mostrare loro che il giudice temuto da tante persone al termine della vita è anzitutto il buon pastore.
E quando lo si tiene per mano, non c’è nulla da temere, né la morte, né alcun altro male
Salmo 121
Romani 13, 11-14
Matteo 24, 37-44
Se qualcuno mi chiedesse di spiegare il senso esatto di tutte le parole che abbiamo trovato oggi nel Vangelo, direi subito di non essere in grado.
Abbiamo letto, ad esempio, che “due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato; due donne saranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata”.
Che cosa voleva dire esattamente il Signore con queste parole?
Io non saprei indicarlo.
Rimangono anche per me parole misteriose così come restano enigmatici e perfino inquietanti altri passi del vangelo.Devo aggiungere che non mi vergogno di non sapere.Ritengo anzi una fortuna il fatto di non comprendere tutto.
Se riuscissimo a capire e a spiegare tutto, noi potremmo pensare di essere i possessori della parola.
Ora Dio è più grande del nostro cuore. E nessuno può sentirsi proprietario.
Inoltre, se noi pretendessimo di conoscere perfettamente ciò che Dio ci ha detto, saremmo tentati di imporre agli altri la nostra comprensione, come se fosse la sola vera.
Vuol dire lasciare la porta aperta a tutti gli integrismi, a tutti i fanatismi e relative intolleranze.
Per contro, riconoscere che noi non comprendiamo tutto, dispone ad un atteggiamento di umiltà che ci fa sentire davanti al Signore come mendicanti di luce.
Dio non ci parla per soddisfare la nostra curiosità intellettuale.
Egli vuole che, a partire dal nostro desiderio mai appagato, ci sentiamo sempre protesi alla scoperta del suo mistero.
In questo senso si dovrebbe interpretare l’invito a vegliare che Gesù non si stanca di raccomandare in queste liturgie di avvento.“Vegliate dunque” abbiamo ascoltato anche nel vangelo di questa domenica.
Ci chiederemo: perché vegliare? E successivamente: Come vegliare?Perché vegliare, vigilare, prestare attenzione?
Perché il Signore, che verrà alla fine dei tempi nello splendore della sua divinità, viene sempre in mezzo a noi, seppure in modo molto discreto.
È venuto a Betlemme nell’umiltà e nella povertà del nostra natura umana, e continua a venire con lo stesso stile di semplicità, non alla maniera dei “Grandi” della terra, attraverso le vicende che siamo chiamati a vivere.
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” ci ha confidato Gesù nell’Apocalisse.
Egli bussa delicatamente alla porta.
Ma ci sono in noi tante voci che ci distraggono, tante preoccupazioni, tanti progetti diversi per cui non ascoltiamo chi sta bussando alla nostra porta.
Si ripete quello che è avvenuto ai tempi di Noé e che Gesù ha denunciato nel Vangelo.
“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito”: che cosa c’era da rimproverare in questi comportamenti?
Non c’erano eccessi, né dissolutezze, né palesi ingiustizie.
Facevano cose che altrove, nella Bibbia vengono lodate.
Che male c’è nel seguire gli appetiti naturali del vivere?
Chi vuol fare l’angelo, ha detto giustamente qualcuno, si riduce a fare la bestia.
Ciò che viene condannato è quello stato di incoscienza in cui spesso ci si trova a vivere, E’ la mancanza di attenzione e di apertura verso qualcosa di sorprendente che deve ancora avvenire.
E’ vivere come se Dio non esistesse.
Si corre allora il rischio di morire senza aver vissuto.Maurice Zundel, grande mistico del ‘900, ha detto “Se non sei vivo al momento della morte, non lo sarai mai”.
Ma per essere trovati viventi al momento della morte, bisogna saper vegliare.
Ma come vegliare?
Vegliare vuol dire saper costruire, come ha fatto Noè, giorno dopo giorno un’arca che ci possa salvare da ogni possibile naufragio.
Vegliare è dunque una questione di fede e di speranza, di quella speranza di cui ci ha parlato il papa nell’ultima enciclica.
Vegliare è la ferma fiducia di essere portati, custoditi, protetti, salvati al di sopra dei pericoli e della stessa morte, dentro una sorta di arca di Noé.
Ma per vegliare veramente bisogna occuparsi anche della sorte di coloro,che, accanto a noi, dimostrano di vivere bene, senza darsi alcun pensiero di Dio e dell’aldilà.
Con il nostro spirito apologetico abbiamo pensato che queste persone , dopo un’esperienza cosi paganeggiante, dovessero accusare una specie di vuoto pauroso.
Ma onestamente dobbiamo riconoscere che sono tantissime le persone che nei nostri paesi e nelle nostre città vivono come i contemporanei di Noé, con una invidiabile serenità.
E allora sorge un problema: perché inquietare queste coscienze, perché complicare la loro vita con le nostre preoccupazioni di ordine religioso?
Parlare dunque o stare in silenzio?
Possono parlare coloro che, avendo gustato i doni di Dio, sanno che esiste una felicità insospettata, più meravigliosa di quella procurata dai piaceri della vita.
Si tratta perciò di sedurre i nostri “pagani” moderni irraggiando su di essi la gioia della nostra fede.
Dobbiamo saper mostrare loro che il giudice temuto da tante persone al termine della vita è anzitutto il buon pastore.
E quando lo si tiene per mano, non c’è nulla da temere, né la morte, né alcun altro male
sabato 24 novembre 2007
II Domenica di avvento
Malachia 3, 1-4
Ebrei 10, 35-39
Matteo 21, 1-9
La scena descritta nel vangelo merita uno sguardo non superficiale.
E’ una scena corale in cui si danno appuntamento gli uomini, le piante, le cose e, soprattutto, Dio.
Passa Gesù e la sua presenza crea come un polo di attrazione per cui dal villaggio vicino arriva un’asina con il suo puledro, dagli alberi piovono fronde sulla strada, dalle case escono persone ad acclamare e a stendere i loro mantelli sotto i passi di Gesù.
“Scioglieteli e conduceteli a me” aveva detto Gesù. a me quando si era posto il problema di cercare una cavalcatura.
Questo “scioglimento” sembra interessare tutto il mondo, quello animato e quello inanimato, nel momento in cui avviene il passaggio di Gesù.
Si è tentati di leggere la scena come un’anticipazione di quella signoria di Cristo che troverà la sua piena espressione nella vittoria pasquale.
Quella vittoria sarà frutto della morte in croce.
Questo trionfo di Cristo è anch’esso legato non alla forza, ma alla debolezza.
“Beati i miti perché erediteranno la terra” aveva detto Gesù.
Ora Gesù ne offre quasi la prova.
Dove sono i segni abituali del potere?
”Ecco, il tuo re viene a te mite”
E che cosa si propone di fare Gesù?
Un rivoluzionario o un demagogo avrebbe acceso gli animi, assecondando le attese e dispensando generose promesse.
Gesù non prende alcuna iniziativa per conquistare il favore della folla.
Profeta disarmato e disarmante, entra nella sua città e intanto sogna un’altra città, la Gerusalemme da edificare con pietre vive, “nel più alto dei cieli”.
Quello che è avvenuto allora, a pochi giorni dalla Pasqua, si ripropone oggi per noi.
Gesù è sempre in cammino per fare il suo ingresso nella nostra città.
La città, secondo una tradizione raccolta nella Bibbia, è un segno della presunzione degli uomini e per questo la sua origine viene attribuita a Caino.
Ma la città, in una visione più pacata e, si potrebbe dire, più evangelica, testimonia pure la dimensione sociale dell’uomo, la sua capacità di progettare, di organizzare, di creare in una trama di rapporti complessi e costruttivi.
Se è vero che Gesù viene nella nostra città, quali sono i problemi che attendono da lui una risposta e un aiuto?
Vale la pena di richiamare, sia pure sommariamente, i principali.
Nella famiglia: povertà di rapporti, fragilità affettive, frustrazioni nel compito educativo.
Nel mondo del lavoro: debolezza e perdita del proprio ruolo, esasperazione della efficienza e della competitività.
Nella società: sfiducia nelle istituzioni, assenza di grandi valori collettivi.
Sul piano esistenziale: paura di fronte alla vecchiaia e alla morte.
A volte tutte queste difficoltà le sentiamo pesare nella nostra vita in un modo così violento che, se mai ci capita di pregare, siamo tentati di ripetere lo stesso lamento che una volta don Michele Do raccolse dalla bocca di uno dei suoi parrocchiani: “Signore, quand’è che ti metterai una mano sulla coscienza?”.
Gesù non viene a comporre, a sistemare, ad aggiustare l’ordine esistente.
Gesù viene in mezzo a noi proprio per aiutarci ad affrontare le difficoltà in vista di un ordine nuovo.
Però bisogna subito essere molto chiari.
Il suo passaggio provoca una crisi perché si traduce in un giudizio.
Abbiamo ascoltato poco fa le parole del profeta Malachia: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?
Egli è come il fuoco del fonditore e la lisciva dei lavandai”.
Il fuoco brucia e così la lisciva dei lavandai.
Il passaggio dl Signore non è indolore.
Vediamo nel vangelo che, mentre la folla grida il proprio entusiasmo, “tutta la città fu in agitazione”.
A creare questo conflitto è la mitezza con cui Gesù si presenta sulla scena.
Gesu entra in città come un re mite, un re che viene nel segno della mitezza e della non violenza, un re che viene senza separare la madre dal suo puledro, nel segno della tenerezza e della delicatezza verso ogni creatura, anche animale.
La città non è preparata a questa novità radicale, chiusa com’è nella logica del potere con tutto il suo corredo di spregiudicatezze, di compromessi, di falsità, di presunzione.
La folla invece comprende che Gesù rappresentava la mitezza di Dio il quale entra nelle nostre città non per condannare, ma per salvare.
È bello pensare a un Dio che viene verso di noi, a un Dio instancabile camminatore, a un Dio più tenace e più grande dei nostri desideri, a un Dio che viene nonostante la nostra vita spenta.
Certo, per capire queste cose, occorre quella fede di cui ci parla l’autore della Lettera agli Ebrei: ”Il giusto vivrà di fede “.
E’ una fede che ci permette di non “indietreggiare”, ma di andare avanti con costanza, anche nelle situazioni di debolezza.
E’una fede che ci porta a incontrare Cristo nelle strade della nostra città e a gridare di gioia perché è lui che ci dà fiducia con la sua mitezza così vulnerabile,eppure, al tempo stesso, così luminosa e vigorosa.
mercoledì 21 novembre 2007
Festa della dedicazione
Baruc 3, 24-38
2 Timoteo 2, 19-22
Giovanni 10, 22-30
Anniversario della chiesa cattedrale.
2 Timoteo 2, 19-22
Giovanni 10, 22-30
Anniversario della chiesa cattedrale.
Anche a costo di apparire dissacrante, devo dire subito che la chiesa di pietra interessa fino a un certo punto, molto meno indubbiamente della chiesa di carne, la chiesa viva, fatta di pietre vive, che è la chiesa della fede.
La chiesa di pietra sembra evocare principalmente la dimensione della stabilità e della solidità.
Una chiesa che avesse come modello una di queste superbe costruzioni come il Duomo sarebbe una chiesa nostalgicamente rivolta al passato, ai tempi forti della cristianità, quando era possibile creare queste opere grandiose che esprimevano la fede di tutto un popolo.
Questa nostalgia è comprensibile, ma può essere paralizzante.
C’è il rischio di inseguire l’immagine di una chiesa statica, immobile, preoccupata unicamente della propria sopravvivenza.
Sarebbe una chiesa senza respiro, sempre sulla difensiva nei confronti di un mondo considerato come ostile.
Sarebbe una chiesa che dispensa il proprio insegnamento tradotto in certezze inoppugnabili, mortificando in tale modo gli interrogativi di ogni spirito di ricerca.
Sarebbe una chiesa preoccupata di salvare i riti del passato, come la messa in latino, mortificando in questo caso lo Spirito santo che è spirito di libertà e di creatività.
Sarebbe una chiesa tentata di misurare la propria vitalità sul numero dei praticanti, e di distinguere,o peggio di separare chi è dentro e chi è fuori.
Ma il pericolo maggiore è quello di sequestrare Dio, di tenerlo prigioniero.
Ora Gesù ha sempre difeso la libertà di Dio sottraendolo ad ogni tentativo di volerlo possedere in modo esclusivo, dentro precisi spazi stabiliti dall’uomo.
“Credimi, donna, - aveva detto alla samaritana – è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre (…). Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4, 21.24).
Oggi si sente la necessità di abbandonare questa immagine di chiesa statica, immobile, troppo preoccupata della propria sopravvivenza.
Davanti al mondo deve presentarsi con un’immagine diversa , come realtà viva e palpitante, che non si lascia racchiudere in alcuna costruzione, ma ama spazi aperti, percorsi da inventare, mete da superare.
Questa idea di movimento è suggerita in modo particolare dal vangelo dove incontriamo Gesù che passeggia lungo il portico di Salomone e ama definirsi come pastore buono.
Attraverso questa immagine la chiesa appare come una realtà viva, che si riunisce attorno alla presenza di Cristo, il quale, come pastore buono, la guida con amorosa trepidazione.
L’essenziale non sono dunque le costruzioni, per quanto siano belle le chiese romaniche o gotiche o anche quelle moderne.
L’essenziale sono gli esseri umani.
E’quello che don Michele Do, che molti di noi hanno avuto la fortuna di conoscere e di stimare per la sua grande sapienza evangelica, amava ricordare quando diceva: “Cristo non è venuto a portare l’uomo dentro il tempio, ma il tempio dentro l’uomo”.
Era un modo per richiamare quello che l’apostolo Paolo aveva affermato dicendo:“Voi siete il tempio di Dio” e, prima ancora, quello che ci è stato rivelato nelle prime pagine della Bibbia, là dove è detto che Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, infondendo il suo soffio divino.
Ogni creatura umana perciò non solo è immagine viva di Dio, ma è anche tempio. dimora: “è la tenda di Dio sulla terra”(A. Casati).
La passione di Cristo per ogni uomo e ogni donna si fondava proprio su questa meravigliosa verità.
E ogni discepolo di Cristo deve sentirsi chiamato a testimoniare il suo amore per ogni creatura sulle strade del mondo.
Ciascuno di noi infatti è mandato a evangelizzare nel senso letterale della parola, cioè a portare gioia , soprattutto a coloro che sono discriminati: i poveri, gli emarginati, le persone sfortunate.
L’annuncio è che Dio non discrimina nessuno, neppure i peccatori, bensì li accoglie così come sono, per puro amore.
Sarebbe grave se dessimo l’immagine di un Dio che ama solo alcuni, quelli che sono devoti, pazienti, esemplari in tutto, e non gli altri.
E come potrebbe essere credibile una chiesa che si dimostrasse indulgente con i potenti e fosse invece pronta a intervenire con sanzioni e proibizioni verso quelli che giudica irregolari?
Il Dio di Gesù Cristo è colui che accoglie i non accolti: è un Dio non delle sanzioni, ma della grazia.
Il vangelo di Gesù spazza via tutte le discriminazioni e le esclusioni.
E’ bello immaginare la chiesa come popolo di Dio in cammino, in cui ciascuno si senta accolto e sia pronto a fraternizzare cercando di superare le diversità.
Solo così la chiesa sarà come Gesù l’ha sognata.
domenica 18 novembre 2007
1^ Domenica di avvento
Isaia, 51, 4-6
Salmo 49
2 Tessalonicesi 2, 1-4.8-10.13-14
Matteo 24, 1-14..29-31..42
Il tempo di avvento, che oggi iniziamo, ci parla di una venuta (la parola avvento vuol dire appunto che qualcuno o qualcosa sta per venire) e conseguentemente della necessità di saper attendere e sperare.
Che cosa si profila all’orizzonte della nostra esistenza? Dove va la storia? Che cosa sarà di questo mondo?
E che cosa sarà di noi dopo che sarà chiusa questa nostra vicenda segnata da precisi limiti di tempo e di spazio?
Sono domande difficili da affrontare.
Si preferisce vivere senza pensarci.
Certo non mancano i futurologi i quali fanno previsioni per lo più allarmanti sul destino degli uomini e di questo nostro pianeta.
Ciò che manca è la coscienza collettiva, quel modo cioè di sentire comune che porta a guardare avanti e a dilatare la nostra speranza oltre i confini del presente.
Anche noi cristiani diamo l’impressione di avere smarrito la dimensione del futuro.
C’è una brevissima poesia di Sandro Penna che definisce molto bene la condizione vagheggiata da molti, credenti e non credenti, di fronte alle difficoltà della vita.
“Io – dice il poeta - vivere vorrei / addormentato / entro il dolce rumore / della vita”.
Il sogno comune sarebbe quello di abbandonarsi a un dolce stato di torpore che ci metta al riparo dalle asprezze e dalle tensioni che sempre ci accompagnano quando siamo costretti a fare delle scelte in modo consapevole.
Gesù oggi vuole farci uscire da questo stato di inconsapevolezza mettendoci davanti qualche immagine di ciò che si sta preparando.
Il quadro degli accadimenti che ci attendono è quanto mai allarmante.
Attraverso le parole di Gesù ci pare di assistere a un crollo generale che investe sia l’ordine cosmico, sia l’assetto sociale, sia il sistema dei valori morali e spirituali.
Per quattro volte Gesù parla di inganni e tradimenti, per quattro volte parla di guerre e di violenze.
Dobbiamo dunque coltivare un senso di paura per tutto quello che si profila come minaccia all’orizzonte del nostro destino?
Gesù non voleva certo predicare qualcosa che si risolvesse in uno stato di ansietà, anche perché, a pensarci bene, quello che Gesù assegna al futuro è già presente dentro la storia dell’uomo.
Ciò che Gesù voleva annunciare è un messaggio di salvezza.
“La mia salvezza durerà sempre” aveva già promesso Dio attraverso la voce del profeta Isaia.
E l’apostolo Paolo, ai cristiani di Tessalonica, scrive: “ Dio vi ha scelti come primizia di salvezza”.
Questa salvezza il Signore la mette in rapporto con il suo ritorno glorioso.
Perché temere se possiamo coltivare questa speranza di incontrarci con il Signore?
Se il Signore che attendiamo è quello che abbiamo conosciuto attraverso le pagine del vangelo, non c’è alcuna ragione di temere.
Chi più di lui ha saputo comunicare il gusto della libertà e offrire gesti di toccante tenerezza per suscitare fiducia nella vita presente e in quella futura?
Il Dio che fa paura non esiste. È una pura invenzione.
Il Signore è un amico che viene (i mistici del Medioevo anzi dicevano: è un amante).
Si tratta perciò di andargli incontro con il cuore colmo di fiducia e di gioiosa trepidazione.
Si comprende come la virtù dell’avvento sia la vigilanza.
“Vegliate” ci dice Gesù.
E la voce del profeta Isaia ci raggiunge con questo pressante invito: “Levate il capo”.
Bisogna saper alzare il capo, al di sopra dello scenario rattristante della nostra storia che sembra precipitare verso il basso, segnata com’è dall’inganno e dalla violenza, e tendere l’orecchio del cuore per cogliere i passi segreti del Signore che viene.
Il modo migliore di preparare questo incontro è quello di vivere con stupore i tanti incontri che il Signore già ci concede, disseminati lungo i percorsi della nostra esistenza.
Se è vero infatti che il Signore verrà, è altrettanto vero che il Signore già viene, viene incessantemente, quotidianamente, in modo discreto, dentro le nostre abituali consuetudini di vita.
Ogni giorno è tempo di avvento e tempo di incontro.
Tutto quello che ci capita è sacramento, perché racchiude e dona una presenza.
Nasce una domanda: c’è qualche situazione o qualche momento privilegiato in cui sia più facile avvertire la bellezza di questo incontro?
In altre parole: dove trovo il Signore, dove mi appare, dov’è la sua venuta?
Il Signore, che è amore, si mette, per così dire, nelle mani di quelli che si amano.
Prima di ogni religione e di ogni chiesa, sono gli esseri che si amano il sacramento della presenza di Dio.
Chi dona amore, dona Dio, o quanto meno un presentimento di quell’abbraccio con cui il Signore ci accoglierà per introdurci nel suo regno.
Vegliare, in attesa di Dio, come ci raccomanda Gesù nel vangelo, vuol dire intuire in ogni espressione di amore, fosse pure il più piccolo gesto di gentilezza e di delicatezza, il battito della presenza di Dio e anelare a un amore più grande, senza più i limiti che mortificano il nostro cuore e il nostro affetto.
La speranza più grande è che un giorno, quando il Signore ritornerà nella pienezza della sua gloria, anche i nostri affetti siano tutti trasfigurati per intensità, tenerezza, trasparenza e fiducia.
È importante sognare questo giorno.
Ma soprattutto importante prepararlo coltivando i momenti della più limpida amicizia in cui, ricevendo e donando, sia possibile confidarsi: ”Ecco, il Signore viene, anzi è già con noi”.
domenica 4 novembre 2007
XXX1 Domenica del tempo ordinario
Sapienza 11, 22-12,2
2 Tessalonicesi 1, 11-2,2
Luca 19, 1-10
Incontriamo oggi nel vangelo un personaggio singolare, Zaccheo.
Basta averlo incontrato una volta per custodire nella memoria la sua immagine e la sua storia.
Era piccolo di statura, ma questa sua scarsa prestanza fisica non gli aveva impedito di guadagnare moltissimo.
Se i pubblicani erano invidiati e anche detestati per i loro troppo facili guadagni nel riscuotere le tasse per conto dei Romani, si può facilmente capire quanto dovesse essere florida la condizione di Zaccheo, che dei pubblicani era il capo riconosciuto.
Dalla piccolezza della sua statura è stato poi favorito il giorno in cui, non potendo accostarsi a Gesù che attraversava la città di Gerico per la folla che aveva fatto muro davanti a lui, pensò di arrampicarsi su un sicomoro per seguire dall’alto il passaggio di Gesù.
Possiamo qui aprire una parentesi: qui c’è uno che cerca di avvicinarsi a Gesù e trova un ostacolo.
Da chi viene impedito?
Dalla massa osannante che si stringe attorno a Gesù.
Non potrebbe essere – la domanda è provocatoria – che certe imponenti manifestazioni religiose più che avvicinare a Dio, rappresentano un ingombro per chi lo cerca veramente?
Torniamo ora a Zaccheo al quale il fatto di essere piccolo è servito ad aggirare l’ostacolo.
Una volta conquistata quella favorevole posizione che conosciamo, è facile immaginare i sentimenti e le emozioni che deve aver provato.
Anzitutto la soddisfazione di avere conquistato la cima dell’albero con l’agilità di un ragazzino, soddisfazione che compensava largamente qualche ammiccamento malevolo che tra la folla gli pareva di cogliere nei suoi confronti.
E poi c’era sempre quell’inquietudine profonda che lo mordeva da tempo e che l’aveva portato a prendere quella decisione strana, di aspettare il passaggio di Gesù appollaiato su una pianta di sicomoro.
Si sarebbe accorto Gesù, passando, della sua presenza e della sua ardente attesa di uno sguardo, almeno, che lo liberasse dalla sua penosa solitudine e gli portasse in dono un poco di pace?
Dio, attraverso Gesù, si è ricordato di Zaccheo.
Il nome“Zaccheo” significa proprio questo:”Dio si ricorda”.
Apparentemente l’iniziativa è di Zaccheo, che brucia dal desiderio di vedere Gesù, ma non sarebbe successo niente se Gesù non avesse alzato lo sguardo.
E’ importante sostare un istante a contemplare questi due sguardi che si incrociano.
C’è un verbo che apre e chiude l’episodio di Zaccheo: è il verbo “cercare”.
Di Zaccheo è detto : “cercava di vedere Gesù”.
Di Gesù è detto: “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto”.
“Sulla strada di Gerico, che è la strada della vita, possono incrociarsi queste due ricerche, quella di Dio e quella dell’uomo: un Dio inquieto e un uomo inquieto. La salvezza è in questo verbo, o se volete, in questa inquietudine del cercare” (A. Casati)-
A partire dallo sguardo di Gesù su Zaccheo, tutto ormai prende uno sviluppo rapidissimo, nel segno di una grande gioia.
Che Zaccheo scenda subito dall’albero, perché la grazia è per oggi, non per domani!
E’ per oggi che Gesù si autoinvita nella sua casa.
Tanto peggio per coloro che in disparte disapprovano e vanno mormorando: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”.
Gesù questa volta non esita a dare scandalo.
C’è infatti uno scandalo da evitare, ma, secondo il vangelo, c’è uno scandalo doveroso, quando si tratta di accogliere i peccatori, perché scandalosa è la misericordia di Dio.
E che questo scandalo sia fecondo di risultati sorprendenti lo dimostra il comportamento di Zaccheo.
Senza essere sollecitato da Gesù, decide di restituire quello che aveva ingiustamente guadagnato, ben al di là delle esigenze fissate dalla legge.
La misericordia era senza misura, la conversione lo sarà pure.
L’amore trascina nella logica della sovrabbondanza e della dismisura.
Zaccheo,che rimane felicemente sorpreso della generosità di Gesù, prova a sua volta il desiderio di procurare gioia.
La casa di Zaccheo diventa non più la casa dell’appropriazione egoistica, ma la casa della condivisione e della riconciliazione.
Diventa la casa del miracolo.
Sì, perché Gesù può finalmente superare lo sconforto che l’aveva portato a dire:
“Quanto è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio.
E'più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco enrare nel regno di Dio!" (Lc 18, 24-25).
Qui Gesù scommette addirittura sul ricco, che dovrebbe essere la carta perdente.
E il miracolo avviene.
Zaccheo non vede più gli altri come individui da sfruttare, ma li vede come fratelli.
E impara per la prima volta a coniugare il verbo “condividere”, a usare le mani non solo per prendere, carpire, strappare, tenere, ma per dare.
La roba, i beni, il denaro non sono più oggetto di conquista, e neppure “proprietà privata” intoccabile, ma diventano sacramento di fraternità e di amicizia.
A causa delle ricchezze accumulate, Zaccheo era uno scomunicato, un separato.
Ora, nel segno della condivisione, diventa l’uomo dell’incontro.
Per questo Ambrogio, riflettendo anche su questa pagina di vangelo, potrà dire: “Non c’è colpa nell’essere ricchi, ma nel non sapere usare le proprie ricchezze”.
Si diceva prima che la casa di Zaccheo era diventata la casa del miracolo.
Da quel giorno le chiese, anche le più gloriose cattedrali, non sono che l’umile casa di Zaccheo dove peccatori e santi si trovano fraternamente con Dio.
La Chiesa non è fatta per i santi, ma per “salvare ciò che era perduto”.
Ora, Zaccheo può portare il suo nome vero: “Dio si ricorda”.
Qui Gesù scommette addirittura sul ricco, che dovrebbe essere la carta perdente.
E il miracolo avviene.
Zaccheo non vede più gli altri come individui da sfruttare, ma li vede come fratelli.
E impara per la prima volta a coniugare il verbo “condividere”, a usare le mani non solo per prendere, carpire, strappare, tenere, ma per dare.
La roba, i beni, il denaro non sono più oggetto di conquista, e neppure “proprietà privata” intoccabile, ma diventano sacramento di fraternità e di amicizia.
A causa delle ricchezze accumulate, Zaccheo era uno scomunicato, un separato.
Ora, nel segno della condivisione, diventa l’uomo dell’incontro.
Per questo Ambrogio, riflettendo anche su questa pagina di vangelo, potrà dire: “Non c’è colpa nell’essere ricchi, ma nel non sapere usare le proprie ricchezze”.
Si diceva prima che la casa di Zaccheo era diventata la casa del miracolo.
Da quel giorno le chiese, anche le più gloriose cattedrali, non sono che l’umile casa di Zaccheo dove peccatori e santi si trovano fraternamente con Dio.
La Chiesa non è fatta per i santi, ma per “salvare ciò che era perduto”.
Ora, Zaccheo può portare il suo nome vero: “Dio si ricorda”.
Tutti i santi
Apocalisse 7, 2..14
Salmo 23
1 Giovanni 3, 1-3
Matto 5, 1-12
Chi è il santo?
Ho aperto un dizionario e ho trovato questa definizione: “santo è colui che conduce una vita irreprensibile, in tutto conforme alle leggi della morale e della religione”.
Ho chiuso il dizionario e mi sono detto: “Questo discorso non fa per me. E’ troppo alto, troppo arduo da realizzare “.
Ho letto allora le beatitudini, e di nuovo ho avvertito il solco profondo che separa ciò che sono da ciò che dovrei essere:“Non sarò mai felice come promettono le beatitudini, non potrò mai sperare una ricompensa nei cieli”
Infine mi sono messo a osservare attentamene il comportamento di Gesù nei suoi incontri con uomini e donne sulle strade della Palestina.
Nessuna delle persone incontrate corrispondeva alla definizione del dizionario.
Ho visto attorno a Gesù malati gravi, altri posseduti da spiriti immondi, ho visto pubblicani, prostitute, donne adultere, e pure pagani e soldati romani.
Anche gli apostoli erano ben lontani dall’ideale di santità che Gesù aveva proclamato sul monte delle beatitudini.
Ora Gesù, incontrando questa gente, non pone mai alcuna condizione.
Non dice mai: “Comincia a pentirti dei tuoi peccati, a convertirti e a conformare la tua vita alle leggi della morale e della religione.
E’sempre lui che fa il primo passo, che tende la mano, che va a mangiare con loro.
Perché agisce così?
Perché Gesù è la pura trasparenza della santità di Dio, che è amore, soltanto amore.
Per questo la santità di Dio è contagiosa.
Come il sorriso di un amico rischiara il nostro volto, così la santità di Dio è come un raggio di luce e di bellezza sul volto di coloro che Dio chiama a diventare suoi figli: “noi fin d’ora –scrive Giovanni – siamo figli di Dio”.
Santi sono perciò tutti coloro che, in unione con Cristo, il santo per eccellenza, diventano riflesso puro e meraviglioso della sovrumana, incomparabile bellezza che c’è in Dio.
Come è possibile riconoscere i santi che sono tra noi?
Dimentichiamo pure i criteri di riconoscimento che hanno sempre goduto di un certo privilegio nella sensibilità popolare, come i miracoli, le visioni, le stimmate , ecc.
Affidiamoci piuttosto alle letture di questa liturgia le quali ci possono orientare nel riconoscere i tratti fondamentali della santità.
Il primo, ce lo dice il vangelo, è quello della povertà: “beati i poveri in spirito”.
Si potrebbe anche dire: “Beati i poveri di cuore”.
Il cuore povero è quello che la salvezza la attende solo da Dio, a differenza del cuore soddisfatto che pensa di bastare a se stesso.
Questa povertà è un’attitudine interiore che può essere favorita da molte situazioni.
Ci si sente poveri quando si è deboli e disarmati (sono i miti di cui parla il vangelo) o si patisce lo scandalo dell’ingiustizia o si è perseguitati o si è colpiti da un lutto (”quelli che piangono”dice il vangelo).
Poveri di cuore sono quelli che fanno delle loro lacrime un grido, una protesta, un appello, una preghiera.
Poveri di cuore sono tutti coloro che mettono la loro causa nelle mani di Dio.
Questi poveri di spirito, questi poveri di cuore sono presenze luminose che esercitano un fascino particolare.
Mentre gli orgogliosi, i soddisfatti ci feriscono perché sono opachi e rimandano a se stessi, i poveri ci illuminano, ci purificano, tracciano un cammino di luce nella storia, ci conducono verso la sorgente di ogni bene e di ogni speranza.
Il santo – è un altro tratto fondamentale – è colui che possiede il segreto di una strana gioia.
“Beati” dice Gesù. Felici: voi conoscete la felicità.
Come è possibile?
Noi la felicità la vediamo solo nel passato, quando ricordando siamo portati a idealizzare oppure nel futuro, quando immaginando siamo portati a rappresentarci immagini di sogno, come dei miraggi.
Ma quanti sono quelli che hanno il coraggio di affermare che sono felici oggi, felici di una felicità che sentono come destinata a durare?
Sono felici quei cristiani che si comportano come se tutto quello che fanno fosse un’imposta da pagare a Dio?
Se per essere cristiani si deve pagare a Dio l’imposta della morale o della preghiera o del culto, dove è la gioia?
Qui non c’è gioia perché non c’è santità.
Che se fossimo un poco santi…
Allora capiremmo che Dio non è un essere lontano, straniero e temibile, ma è un Padre che chiama ciascuno con il nome dolcissimo di figlio.
Capiremmo che come figli di Dio non dovremmo avere paura di nulla.
Saremmo anzi testimoni di una segreta, incredibile felicità.
Questa felicità la possiamo provare già ora, e d’altra parte crediamo che nella sua pienezza la conosceremo un giorno, quando si avvererà quello che la liturgia dei defunti augura al momento del commiato:
“Ti sia dato di contemplare
la dolcezza del volto gioioso di Cristo Gesù”.
Da queste riflessioni forse abbiamo ricavato l’impressione che i santi siano pochi.
Ma è giunto il momento di rincuorarci.
In realtà il numero dei santi è ben al di là di quello che noi possiamo immaginare.
Solo che per riconoscerli bisogna affinare lo sguardo, perché i veri santi amano una certa condizione di clandestinità..
I veri santi sono umili, non fanno rumore, non sanno neppure cosa voglia dire il culto della personalità, tanto ne sono estranei.
Bernanos diceva che i santi “hanno il genio dell’amore”
E’vero, a patto di vedere questo amore senza alcun alone di grandezza umana, ma praticato in quella quotidianità dell’esistenza che richiede una bontà disinteressata, coraggiosa, paziente e una grande , incrollabile speranza.
Oggi è la festa dei santi in cielo e dei santi che sono sulla terra, di tutte quelle persone la cui esistenza è un sorriso per altre persone.
Alcuni di questi santi anonimi agli occhi del mondo noi li conosciamo bene: sono i nostri genitori e altri famigliari che ci hanno amati, sono educatori e sacerdoti che ci hanno fatto conoscere Gesù con la loro fede limpida e gioiosa, sono tante altre persone che abbiamo visto sempre pronte a servire con la passione della giustizia e della pace.
Non dimentichiamoli in questo giorno, evochiamo i loro nomi con rispetto e gratitudine, preghiamoli. Anche se i loro nomi non figurano nel calendario dei santi.
Oggi è la loro festa ed è anche la nostra festa.
Beati noi se oggi senza saperlo - non oseremmo nemmeno pensarlo – mentre festeggiamo i santi di ieri e di oggi, ci troviamo a festeggiare noi stessi, almeno per quel poco di nostalgia della santità che lo Spirito tiene vivo dentro di noi.
domenica 28 ottobre 2007
XXX Domenica del tempo ordinario
Siracide 35, 12-14.16-18
Salmo 33
2 Timoteo 4, 6-8.16.18
Luca 18, 9-14
Due uomini entrarono in una chiesa a pregare.
Uno era divorziato, alcolizzato, in attesa di giudizio per truffa aggravata.
L’altro era un membro molto stimato di una commissione diocesana che si occupava dei problemi della nuova evangelizzazione.
Il primo uscì di chiesa giustificato, cioè perdonato.
Il secondo invece…
Quello che sto dicendo – l’avete capito benissimo – è una provocazione.
Ma vorrei che fosse chiaro che la provocazione non è mia, ma di Gesù.
Perché Gesù, raccontando la parabola del fariseo e del pubblicano, non ha detto nulla di diverso.
Accettiamo dunque la provocazione e cerchiamo di capire.
Perché il fariseo uscì dal tempio non giustificato?
La prima risposta che si è tentati di dare è molto superficiale, ma può servire come primo approccio alla questione.
E’ una risposta che nasce da questa osservazione immediata: “Ma come è possibile essere così stolti da perdere il senso del ridicolo?”.
Il fariseo infatti è un uomo che manca totalmente del senso del ridicolo.
E’ un uomo senza stile. Guardiamolo.
Lo vediamo in un atteggiamento statuario: la testa alta, lo sguardo fiero.
E’ una statua che contempla se stessa. E’un modello che si ammira.
E’ anche un uomo in preghiera, ma che nel pregare non fa che ascoltarsi.
In linguaggio popolaresco si direbbe: "E’ uno che si prega addosso”.
Un personaggio simile, così spudoratamente narcisista, è penoso e insopportabile.
Capita anche oggi di incontrare persone che guastano la loro possibile esemplarità con il gusto della ostentazione.
Non c’è bisogno d’avere letto il vangelo per capire che l’onestà senza il senso del pudore e della discrezione è qualcosa di indisponente.
Ce lo dice la coscienza, il buon senso, un principio elementare di moralità.
Di fronte a certe forme di santità che pretendono l’aureola prima del tempo, verrebbe voglia di pregare così: “Signore, fa’ che non diventi mai un santo come il fariseo.
Preferisco stare dall’altra parte, in compagnia di certa gente che potrà avere delle colpe, ma almeno sa riconoscerle coltivando un doveroso senso di umiltà”.
Se questa è la prima impressione che lascia il fariseo, il suo comportamento, a una analisi più attenta, suggerisce altre considerazioni che definiscono meglio la sua posizione morale.
E’ vero: è perfetto in tutto, quello che dice non potrebbe mai essere contestato, ma ci sono due gravi errori che pesano a suo carico.
Il primo è quello di stare avanti a Dio senza lasciarsi giudicare da Dio.
E’ lui che giudica se stesso. Dio è chiamato solo a ratificare il suo giudizio.
Dove è il riconoscimento della misericordia di Dio e della sua tenerezza?
Il fariseo non ha bisogno di un Dio misericordioso, ma solo di un Dio giusto.
Visto che lui è in regola con Dio, Dio deve essere in regola con lui e riconoscergli quella salvezza che lui si è meritato.
Quarta è una colpa grave, perché cancella dal volto di Dio il lineamento che più gli è caro, quello della pietà.
C’è un altro errore, altrettanto grave.
Il fariseo definisce e costruisce la sua superiorità morale attraverso il confronto con gli altri.
Invece di confrontarsi con Dio, si confronta con il pubblicano.
Se mancasse il pubblicano, come potrebbe celebrare se stesso?
E’ così facile giustificarsi sulla pelle degli altri.
Ci si consola dei propri errori osservando quelli degli altri
Ci si sente onesti perché troviamo qualcuno che è più disonesto di noi.
E una volta che ci si crede superiori, si è pronti al disprezzo.
Il vangelo a questo proposito è molto chiaro: “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
Il cammino che si segue è questo: l’altro ti permette di coltivare un senso di superiorità e questo senso di superiorità a sua volta ti porta a disprezzare l’altro.
Questo è particolarmente evidente nel campo della politica.
Il fariseo, impegnato in politica, cerca di liquidare gli altri, cioè gli avversari, con il disprezzo, che può assumere le forme del compatimento, della calunnia, della diffamazione sollevando i più perfidi sospetti.
Ma diamo ora uno sguardo al pubblicano della parabola.
Non va dimenticato che egli riscuoteva le tasse per conto di Romani, quindi era un collaborazionista. Non solo.
Poiché come tutti i suoi colleghi doveva essersi arricchito maggiorando le tasse a propri vantaggio meritandosi pure la fama di essere ladro.
Ora lo vediamo fare appello alla pietà del Signore, ma c’è qualcosa che non ci convince.
Troppo comodo battersi il petto. Non sarebbe meglio se decidesse di rimborsare il mal tolto e di cambiare mestiere?
Ecco perché c’è stato chi ha inventato una coda scherzosa alla parabola.
Un penitente come il pubblicano, nell’atto di lasciare la chiesa, verrebbe agguantato da un prete e trascinato a viva forza verso il confessionale: è lì che deve vuotare il sacco e accettare poi la dovuta penitenza.
Ma a dare il senso della parabola è il personaggio principale che non è né il fariseo né il pubblicano, ma colui nella cui casa il fariseo e il pubblicano si trovano a pregare.
E’Dio il personaggio principale, un Dio folle che ci sorprende riservando il suo amore alle pecore perdute del suo gregge: agli esclusi, ai marginali, ai peccatori.
Che cosa ci chiede per attuare questo suo desiderio?
Semplicemente un po’ di umiltà, che rappresenta il varco attraverso il quale può versare nella nostra vita la sua infinita misericordia.
“La preghiera dell’umile penetra le nubi” ci ha detto il Siracide.
Per salire al cielo bisogna necessariamente essere leggeri e l’umiltà serve proprio a dare leggerezza alla nostra preghiera per farla arrivare a destinazione.
Vale la pena di sottolineare che l’umiltà non ha nulla in comune con la gravità e la seriosità tipiche di tanti devoti, soprattutto del mondo ecclesiastico.
L’umiltà è un modo sorridente di guardare alla propria vita e si apparenta con una punta di umorismo, di autoironia, che serve ad alleggerire la pesantezza del personaggio che ciascuno amerebbe coltivare.
In questo senso vanno intese le parole di Gesù: “Chi si umilia sarà esaltato”: chi avendo la coscienza dei propri limiti sa ridere di se stesso, costui sarà esaltato.
Ed ora vogliamo chiudere queste semplici riflessioni con una breve preghiera:
“Signore, siamo venuti nella tua casa a pregare.Fa’ che ritorniamo alle nostre case con la gioiosa coscienza di essere da te gratuitamente salvati, con l’ineffabile stupore di sentirci da te immeritatamente amati”.
Salmo 33
2 Timoteo 4, 6-8.16.18
Luca 18, 9-14
Due uomini entrarono in una chiesa a pregare.
Uno era divorziato, alcolizzato, in attesa di giudizio per truffa aggravata.
L’altro era un membro molto stimato di una commissione diocesana che si occupava dei problemi della nuova evangelizzazione.
Il primo uscì di chiesa giustificato, cioè perdonato.
Il secondo invece…
Quello che sto dicendo – l’avete capito benissimo – è una provocazione.
Ma vorrei che fosse chiaro che la provocazione non è mia, ma di Gesù.
Perché Gesù, raccontando la parabola del fariseo e del pubblicano, non ha detto nulla di diverso.
Accettiamo dunque la provocazione e cerchiamo di capire.
Perché il fariseo uscì dal tempio non giustificato?
La prima risposta che si è tentati di dare è molto superficiale, ma può servire come primo approccio alla questione.
E’ una risposta che nasce da questa osservazione immediata: “Ma come è possibile essere così stolti da perdere il senso del ridicolo?”.
Il fariseo infatti è un uomo che manca totalmente del senso del ridicolo.
E’ un uomo senza stile. Guardiamolo.
Lo vediamo in un atteggiamento statuario: la testa alta, lo sguardo fiero.
E’ una statua che contempla se stessa. E’un modello che si ammira.
E’ anche un uomo in preghiera, ma che nel pregare non fa che ascoltarsi.
In linguaggio popolaresco si direbbe: "E’ uno che si prega addosso”.
Un personaggio simile, così spudoratamente narcisista, è penoso e insopportabile.
Capita anche oggi di incontrare persone che guastano la loro possibile esemplarità con il gusto della ostentazione.
Non c’è bisogno d’avere letto il vangelo per capire che l’onestà senza il senso del pudore e della discrezione è qualcosa di indisponente.
Ce lo dice la coscienza, il buon senso, un principio elementare di moralità.
Di fronte a certe forme di santità che pretendono l’aureola prima del tempo, verrebbe voglia di pregare così: “Signore, fa’ che non diventi mai un santo come il fariseo.
Preferisco stare dall’altra parte, in compagnia di certa gente che potrà avere delle colpe, ma almeno sa riconoscerle coltivando un doveroso senso di umiltà”.
Se questa è la prima impressione che lascia il fariseo, il suo comportamento, a una analisi più attenta, suggerisce altre considerazioni che definiscono meglio la sua posizione morale.
E’ vero: è perfetto in tutto, quello che dice non potrebbe mai essere contestato, ma ci sono due gravi errori che pesano a suo carico.
Il primo è quello di stare avanti a Dio senza lasciarsi giudicare da Dio.
E’ lui che giudica se stesso. Dio è chiamato solo a ratificare il suo giudizio.
Dove è il riconoscimento della misericordia di Dio e della sua tenerezza?
Il fariseo non ha bisogno di un Dio misericordioso, ma solo di un Dio giusto.
Visto che lui è in regola con Dio, Dio deve essere in regola con lui e riconoscergli quella salvezza che lui si è meritato.
Quarta è una colpa grave, perché cancella dal volto di Dio il lineamento che più gli è caro, quello della pietà.
C’è un altro errore, altrettanto grave.
Il fariseo definisce e costruisce la sua superiorità morale attraverso il confronto con gli altri.
Invece di confrontarsi con Dio, si confronta con il pubblicano.
Se mancasse il pubblicano, come potrebbe celebrare se stesso?
E’ così facile giustificarsi sulla pelle degli altri.
Ci si consola dei propri errori osservando quelli degli altri
Ci si sente onesti perché troviamo qualcuno che è più disonesto di noi.
E una volta che ci si crede superiori, si è pronti al disprezzo.
Il vangelo a questo proposito è molto chiaro: “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
Il cammino che si segue è questo: l’altro ti permette di coltivare un senso di superiorità e questo senso di superiorità a sua volta ti porta a disprezzare l’altro.
Questo è particolarmente evidente nel campo della politica.
Il fariseo, impegnato in politica, cerca di liquidare gli altri, cioè gli avversari, con il disprezzo, che può assumere le forme del compatimento, della calunnia, della diffamazione sollevando i più perfidi sospetti.
Ma diamo ora uno sguardo al pubblicano della parabola.
Non va dimenticato che egli riscuoteva le tasse per conto di Romani, quindi era un collaborazionista. Non solo.
Poiché come tutti i suoi colleghi doveva essersi arricchito maggiorando le tasse a propri vantaggio meritandosi pure la fama di essere ladro.
Ora lo vediamo fare appello alla pietà del Signore, ma c’è qualcosa che non ci convince.
Troppo comodo battersi il petto. Non sarebbe meglio se decidesse di rimborsare il mal tolto e di cambiare mestiere?
Ecco perché c’è stato chi ha inventato una coda scherzosa alla parabola.
Un penitente come il pubblicano, nell’atto di lasciare la chiesa, verrebbe agguantato da un prete e trascinato a viva forza verso il confessionale: è lì che deve vuotare il sacco e accettare poi la dovuta penitenza.
Ma a dare il senso della parabola è il personaggio principale che non è né il fariseo né il pubblicano, ma colui nella cui casa il fariseo e il pubblicano si trovano a pregare.
E’Dio il personaggio principale, un Dio folle che ci sorprende riservando il suo amore alle pecore perdute del suo gregge: agli esclusi, ai marginali, ai peccatori.
Che cosa ci chiede per attuare questo suo desiderio?
Semplicemente un po’ di umiltà, che rappresenta il varco attraverso il quale può versare nella nostra vita la sua infinita misericordia.
“La preghiera dell’umile penetra le nubi” ci ha detto il Siracide.
Per salire al cielo bisogna necessariamente essere leggeri e l’umiltà serve proprio a dare leggerezza alla nostra preghiera per farla arrivare a destinazione.
Vale la pena di sottolineare che l’umiltà non ha nulla in comune con la gravità e la seriosità tipiche di tanti devoti, soprattutto del mondo ecclesiastico.
L’umiltà è un modo sorridente di guardare alla propria vita e si apparenta con una punta di umorismo, di autoironia, che serve ad alleggerire la pesantezza del personaggio che ciascuno amerebbe coltivare.
In questo senso vanno intese le parole di Gesù: “Chi si umilia sarà esaltato”: chi avendo la coscienza dei propri limiti sa ridere di se stesso, costui sarà esaltato.
Ed ora vogliamo chiudere queste semplici riflessioni con una breve preghiera:
“Signore, siamo venuti nella tua casa a pregare.Fa’ che ritorniamo alle nostre case con la gioiosa coscienza di essere da te gratuitamente salvati, con l’ineffabile stupore di sentirci da te immeritatamente amati”.
mercoledì 24 ottobre 2007
XXIX Domenica del tempo ordinario
XXIX Domenica del tempo ordinario
Esodo 17, 6-13
Salmo 120
2 Timoteo 3, 14- 4,2
Luca 18, 1-8
“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Queste parole di Gesù vengono spesso citate con una intonazione di lamento da quanti osservano l’affievolirsi del senso religioso e la progressiva secolarizzazione della nostra società.
Come se Gesù alludesse proprio al nostro tempo.
Ma Gesù con questa interrogazione voleva forse semplicemente indicare che la vera fede non è facile.
Certo, c’è una fede facile.
È possibile infatti dire: “Credo in Dio” senza alcun problema.
E’ possibile ancora affermare: “Credo a tutto ciò che la chiesa mi insegna: la creazione, la rivelazione, l’incarnazione, la risurrezione” senza che alcun dubbio venga ad attraversare queste certezze.
Questa è una fede facile, mentre è difficile tentare la vera avventura della fede.
Credere in Dio è un’impresa difficile.
Riconoscere di essere abitati dal mistero di Dio è da vertigine.
Oggi si parla di crisi di fede.
Ma Gesù ne parlava già allora.
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano sui percorsi della propria fede?
Per sapere se abbiamo la fede, bisogna vedere se sappiamo pregare.
Gesù intrattiene i discepoli “sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”.
Ci sono stati cristiani che, nei primi della chiesa, hanno preso alla lettera queste parole e si sono ritirati nella solitudine per poter praticare una preghiera ininterrotta.
Penso a S. Antonio che ha condotto una vita eremitica nel deserto egiziano e a S. Pacomio che invece ha scelto la vita di comunità, sempre nel deserto egizio.
Noi al deserto non ci andremo, certamente, e però, quando ci capita di riflettere sulla necessità di pregare senza interruzione, pensiamo di dover moltiplicare almeno qualche devozione privata.
Ma qui ci troviamo ad affrontare un altro ammonimento di Gesù apparentemente opposto al primo.
“Pregando – ha insegnato Gesù nel Discorso della montagna - non moltiplicate parole come i pagani i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7).
Già il pregare senza interruzione fa problema, perché non riusciamo a capire esattamente quali debbano essere le modalità della nostra preghiera.
Ma ancora più ci mette in crisi la seconda nota richiamata dal vangelo: “senza scoraggiarsi”.
Come è possibile non patire delusioni e stanchezze quando ci si accorge che la nostra preghiera, rivolta verso il cielo con tanta fiducia, ricade su di noi senza avere ottenuto nulla di ciò che avevamo sperato?
Fino a quando dovremmo aspettarci un segno della benevolenza di Dio?
Noi non abbiamo il tempo di aspettare all’infinito, tanto più che viviamo in una cultura la quale ha fatto dell’efficienza e dell’immediatezza le sue note distintive.
La scienza e la tecnica ci hanno portato credere che l’uomo può tutto.
Perché dunque perdere tempo prezioso a pregare, quando la preghiera non serve a nulla ?
Ma la difficoltà maggiore per chi vuole pregare è data dallo scandalo dell’ingiustizia che sta sotto i nostri occhi e che sembra resistere ad ogni forma di preghiera.
Sotto questo profilo la parabola narrata da Gesù è molto espressiva.
In scena c’è una vedova, come poteva essere ai tempi di Gesù.
Una vedova senza assistenza, senza garanzie, senza alcun sostegno giuridico.
Una donna abbandonata alla sua solitudine.
La vedova rappresenta la mancanza, il bisogno, l’assenza.
Di fronte a lei, un giudice senza coscienza che non teme né Dio nè gli uomini.
È una situazione emblematica, che si ripropone anche oggi in forme diverse.
Il compito del giudice dovrebbe essere quello di difendere chi è più debole.
Ma in quella città, come in molte società, l’ingiustizia diventa diritto.
E così capita spesso di vedere che grandi colpevoli sono assolti perché potenti, mentre chi è debole non riesce a farsi riconoscere il proprio sacrosanto diritto.
Quando casi come questi si ripetono, quando sono popoli interi a patire la legge del più forte, lo scandalo è serio.
Don Michele Do, che molti di noi hanno conosciuto come un coraggioso testimone del vangelo, ricordava d’aver raccolto da un contadino questo lamento rivolto a Dio: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Quale risposta ci viene dal vangelo a queste nostre difficoltà sul cammino della fede?
Il vangelo ci dice anzitutto che non bisogna confondere il silenzio di Dio con la sua assenza.
Il silenzio di Dio non è mai vuoto.
Questo silenzio è abitato da una presenza: una presenza non da temere, ma da invocare.
Quando dal fondo della nostra tristezza chiediamo aiuto a qualcuno che sta sopra di noi, non ci rivolgiamo a una divinità capricciosa e arbitraria, ma a un Dio che ama lasciarsi vincere dalla preghiera dell’uomo.
Immergendoci nel mistero dell’amore, proviamo allora un’immensa tenerezza per tutti gli esseri, un desiderio universale di comunione: diventiamo vulnerabili a tutto ciò che tocca l’umanità.
Viene a proposito – credo – la citazione di un vecchio detto latino (si trova in una commedia di Terenzio) che dice: “Niente di ciò che appartiene all’uomo mi è estraneo”
È bello immaginare una solidarietà che si affida alla preghiera: ad una preghiera che coinvolga non solo le nostre facoltà interiori, ma anche il nostro corpo.
Penso alle braccia alzate di Mosè che intercede per i suoi.
Quale storia è quella delle nostre mani! Esse conoscono tutta la nostra vita.
E quando due mani si aprono per pregare, è tutta la santità di una persona che esprime una fiduciosa attesa nei confronti di Dio.
A volte ci capita di avvertire un aiuto inatteso, che ci riempie di stupore.
Non potrebbe essere che qualcuno abbia aperto le mani nel gesto dell’intercessione e che la sua preghiera abbia raggiunto proprio la nostra fragile esistenza sostenendola nel cammino della fede?
Quando sono io a godere di queste invenzioni della grazia, mi piace ripensare alle mani che ho visto protendersi nella condivisione dell’eucaristia e mi è stato concesso di passare dalle mani allo sguardo e dallo sguardo, talvolta, al sorriso.
Pregate sempre, senza stancarvi, ci ha raccomandato Gesù.
Se si è abitati dal mistero di Dio, la preghiera non è più sentita come un dovere, ma acquista la leggerezza e la felicità del respiro.
Nella preghiera due respiri vengono a coincidere, come in un bacio: il respiro nostro, che esprime l’anelito verso il superamento dei limiti dell’esistenza, e il respiro di Dio, il soffio dello Spirito Santo, che è Spirito di amore.
Una tale preghiera, come potrebbe cessare, visto che l’amore non cessa mai?
E saremo testimoni di quella fede che Gesù si ripromette di trovare al suo ritorno.
Non di una fede che si esaurisce nella recita del credo, ma di una fede che sommuove positivamente tutta l’esistenza per un legame nuovo con Dio e con tutte le persone che incontriamo nella luce di Dio.
Esodo 17, 6-13
Salmo 120
2 Timoteo 3, 14- 4,2
Luca 18, 1-8
“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Queste parole di Gesù vengono spesso citate con una intonazione di lamento da quanti osservano l’affievolirsi del senso religioso e la progressiva secolarizzazione della nostra società.
Come se Gesù alludesse proprio al nostro tempo.
Ma Gesù con questa interrogazione voleva forse semplicemente indicare che la vera fede non è facile.
Certo, c’è una fede facile.
È possibile infatti dire: “Credo in Dio” senza alcun problema.
E’ possibile ancora affermare: “Credo a tutto ciò che la chiesa mi insegna: la creazione, la rivelazione, l’incarnazione, la risurrezione” senza che alcun dubbio venga ad attraversare queste certezze.
Questa è una fede facile, mentre è difficile tentare la vera avventura della fede.
Credere in Dio è un’impresa difficile.
Riconoscere di essere abitati dal mistero di Dio è da vertigine.
Oggi si parla di crisi di fede.
Ma Gesù ne parlava già allora.
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano sui percorsi della propria fede?
Per sapere se abbiamo la fede, bisogna vedere se sappiamo pregare.
Gesù intrattiene i discepoli “sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”.
Ci sono stati cristiani che, nei primi della chiesa, hanno preso alla lettera queste parole e si sono ritirati nella solitudine per poter praticare una preghiera ininterrotta.
Penso a S. Antonio che ha condotto una vita eremitica nel deserto egiziano e a S. Pacomio che invece ha scelto la vita di comunità, sempre nel deserto egizio.
Noi al deserto non ci andremo, certamente, e però, quando ci capita di riflettere sulla necessità di pregare senza interruzione, pensiamo di dover moltiplicare almeno qualche devozione privata.
Ma qui ci troviamo ad affrontare un altro ammonimento di Gesù apparentemente opposto al primo.
“Pregando – ha insegnato Gesù nel Discorso della montagna - non moltiplicate parole come i pagani i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7).
Già il pregare senza interruzione fa problema, perché non riusciamo a capire esattamente quali debbano essere le modalità della nostra preghiera.
Ma ancora più ci mette in crisi la seconda nota richiamata dal vangelo: “senza scoraggiarsi”.
Come è possibile non patire delusioni e stanchezze quando ci si accorge che la nostra preghiera, rivolta verso il cielo con tanta fiducia, ricade su di noi senza avere ottenuto nulla di ciò che avevamo sperato?
Fino a quando dovremmo aspettarci un segno della benevolenza di Dio?
Noi non abbiamo il tempo di aspettare all’infinito, tanto più che viviamo in una cultura la quale ha fatto dell’efficienza e dell’immediatezza le sue note distintive.
La scienza e la tecnica ci hanno portato credere che l’uomo può tutto.
Perché dunque perdere tempo prezioso a pregare, quando la preghiera non serve a nulla ?
Ma la difficoltà maggiore per chi vuole pregare è data dallo scandalo dell’ingiustizia che sta sotto i nostri occhi e che sembra resistere ad ogni forma di preghiera.
Sotto questo profilo la parabola narrata da Gesù è molto espressiva.
In scena c’è una vedova, come poteva essere ai tempi di Gesù.
Una vedova senza assistenza, senza garanzie, senza alcun sostegno giuridico.
Una donna abbandonata alla sua solitudine.
La vedova rappresenta la mancanza, il bisogno, l’assenza.
Di fronte a lei, un giudice senza coscienza che non teme né Dio nè gli uomini.
È una situazione emblematica, che si ripropone anche oggi in forme diverse.
Il compito del giudice dovrebbe essere quello di difendere chi è più debole.
Ma in quella città, come in molte società, l’ingiustizia diventa diritto.
E così capita spesso di vedere che grandi colpevoli sono assolti perché potenti, mentre chi è debole non riesce a farsi riconoscere il proprio sacrosanto diritto.
Quando casi come questi si ripetono, quando sono popoli interi a patire la legge del più forte, lo scandalo è serio.
Don Michele Do, che molti di noi hanno conosciuto come un coraggioso testimone del vangelo, ricordava d’aver raccolto da un contadino questo lamento rivolto a Dio: “Signore, quand’è che ti metti una mano sulla coscienza?”.
Quale risposta ci viene dal vangelo a queste nostre difficoltà sul cammino della fede?
Il vangelo ci dice anzitutto che non bisogna confondere il silenzio di Dio con la sua assenza.
Il silenzio di Dio non è mai vuoto.
Questo silenzio è abitato da una presenza: una presenza non da temere, ma da invocare.
Quando dal fondo della nostra tristezza chiediamo aiuto a qualcuno che sta sopra di noi, non ci rivolgiamo a una divinità capricciosa e arbitraria, ma a un Dio che ama lasciarsi vincere dalla preghiera dell’uomo.
Immergendoci nel mistero dell’amore, proviamo allora un’immensa tenerezza per tutti gli esseri, un desiderio universale di comunione: diventiamo vulnerabili a tutto ciò che tocca l’umanità.
Viene a proposito – credo – la citazione di un vecchio detto latino (si trova in una commedia di Terenzio) che dice: “Niente di ciò che appartiene all’uomo mi è estraneo”
È bello immaginare una solidarietà che si affida alla preghiera: ad una preghiera che coinvolga non solo le nostre facoltà interiori, ma anche il nostro corpo.
Penso alle braccia alzate di Mosè che intercede per i suoi.
Quale storia è quella delle nostre mani! Esse conoscono tutta la nostra vita.
E quando due mani si aprono per pregare, è tutta la santità di una persona che esprime una fiduciosa attesa nei confronti di Dio.
A volte ci capita di avvertire un aiuto inatteso, che ci riempie di stupore.
Non potrebbe essere che qualcuno abbia aperto le mani nel gesto dell’intercessione e che la sua preghiera abbia raggiunto proprio la nostra fragile esistenza sostenendola nel cammino della fede?
Quando sono io a godere di queste invenzioni della grazia, mi piace ripensare alle mani che ho visto protendersi nella condivisione dell’eucaristia e mi è stato concesso di passare dalle mani allo sguardo e dallo sguardo, talvolta, al sorriso.
Pregate sempre, senza stancarvi, ci ha raccomandato Gesù.
Se si è abitati dal mistero di Dio, la preghiera non è più sentita come un dovere, ma acquista la leggerezza e la felicità del respiro.
Nella preghiera due respiri vengono a coincidere, come in un bacio: il respiro nostro, che esprime l’anelito verso il superamento dei limiti dell’esistenza, e il respiro di Dio, il soffio dello Spirito Santo, che è Spirito di amore.
Una tale preghiera, come potrebbe cessare, visto che l’amore non cessa mai?
E saremo testimoni di quella fede che Gesù si ripromette di trovare al suo ritorno.
Non di una fede che si esaurisce nella recita del credo, ma di una fede che sommuove positivamente tutta l’esistenza per un legame nuovo con Dio e con tutte le persone che incontriamo nella luce di Dio.
sabato 13 ottobre 2007
XXVIII Domenica del tempo ordinario
Luca 17,11-19
In questo racconto, l’elemento narrativo che immediatamente riusciamo a interpretare è senza dubbio il ringraziamento che il samaritano, dopo il miracolo, sente il bisogno di esprimere a Gesù.
Grazie è una piccola parola che però ha una grande forza significativa e creativa.
Tutti i genitori si preoccupano di insegnare ai loro bambini, fin da piccoli, a dire per favore e grazie.
Questo fa parte di una elementare buona educazione.
Ma queste piccole parole sono in realtà cariche di un senso che il bambino deve a poco a poco scoprire.
E il senso è questo.
Dicendo grazie riconosciamo che nessuno di noi può bastare a se stesso.
Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Non potendo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di ricevere e dunque di domandare.
Inoltre, dicendo grazie, riconosco che l’altro si è mostrato benevolo verso di me.
È come dire ad una persona:”Io credo in te. Io spero in te. Io mi sento voluto bene”.
In fondo queste piccole parole, perfino banali a forza di essere usate senza che ci si pensi, esprimono la dimensione sociale dell’essere umano.
Una comunità umana, tanto più una comunità cristiana, si costruisce attraverso queste relazioni, questi incontri in cui ciascuno riconosce i valori più alti e puri dell’esistenza: la capacità di ammirazione, di fiducia, di gratitudine, di gratuità nel praticare l’amore.
E’ importante dire grazie perché questo è il modo migliore per intuire che tutto è grazia, per risalire a colui che, come Padre, è sempre il primo a donare, a perdonare, ad amare.
Grazie, come diceva Raimondo Lullo, un mistico del XIII secolo, per il semplice fatto che esiste come Padre: “La mia mia gioia e la mia allegrezza vengono dal pensiero che tu esisti”.
Oggi Gesù ci invita a ricordarci di questo nella nostra relazione con Dio.
I dieci lebbrosi sono venuti da lui riconoscendo in lui un maestro, un inviato da Dio.
Ed essi osano chiedere a lui ciò che nessun uomo avrebbe potuto dare in quel tempo: la guarigione dalla lebbra.
Chiedono un favore che supera le forze umane.
In verità è a Dio che si rivolgono, attraverso Gesù.
Ma uno solo ritorna sui suoi passi, a dire grazie.
“E gli altri nove , dove sono?” si chiede Gesù.
C’è forse nelle sue parole una nota, umanissima, di delusione.
Non dimentichiamo che Gesù era in cammino verso Gerusalemme dove sarebbe stato condannato a morire sulla croce.
Perché non pensare che anche lui sentisse il bisogno di essere consolato dalla gratitudine delle persone che andava beneficando?
Anche i consolatori hanno bisogno di essere consolati, anche Dio.
Ma forse la ragione della tristezza di Gesù va cercata altrove.
In fondo, a lui sarebbe bastato il grazie di uno solo.
Se si è rammaricato, era per il fatto che gli altri nove si fossero accontentati della guarigione privandosi della impareggiabile felicità di dire grazie.
Chi si dimostra incapace di ringraziare, non fa un torto al benefattore, ma principalmente a se stesso.
Purtroppo c’è molta gente che ha perso l’abitudine, sempre che l’abbia avuta prima, di ringraziare.
Come se tutto fosse dovuto.
C’è da aver paura di certe persone (e ciascuno di noi ricorda d’aver fatto qualche conoscenza di questo genere) che non sanno mai dire grazie.
“Un cane riconoscente vale meglio di un uomo ingrato”, dice un proverbio.
Ma non vogliamo rattristarci più del necessario osservando la meschinità di certi comportamenti.
Riprendiamo il racconto del vangelo e dimenticando i nove che non sono tornati (forse si immaginavano di avere diritto alla guarigione perché giudei), guardiamo al samaritano, che è l’unico che sente il bisogno di dire grazie.
Questo straniero è l’unico che riconosce che la sua guarigione è un dono gratuito della bontà del Signore.
Era venuto con tutta la sua povertà a chiedere,ritorna con tutta la sua gratitudine per riconoscere che Dio ha risposto alla sua domanda.
“Mi piace immaginare (utilizzo qui una suggestiva immaginazione di A. Pronzato) che quell’uno, di fronte alla amarezza manifestata da Gesù, abbia detto: “Ma io vengo a nome di tutti… Hanno incaricato me di esprimere la riconoscenza”.
Lo so che non sta scritto nel vangelo.
Ritengo tuttavia che non sia proibito inventare qualcosa.
Anche perché la parte dell’uno che rende grazie a nome di tutti la posso pur sempre assumere io…
Però mi piacerebbe che tutti, anche quelli che non hanno il dono della fede, sentissero qualche volta, magari contemplando un tramonto, il bisogno di dire grazie a qualcuno che non conoscono ancora”.
E’ quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie. Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Qualche volta mi sorprendo a pensare (è ancora A. Pronzato che così si confida) che la fede potrebbe cominciare con un “grazie” appena sussurrato timidamente, pur senza un destinatario preciso, e la preghiera potrebbe nascere semplicemente dal bisogno di dire grazie a qualcuno (la lettera maiuscola, non c’è fretta, verrà messa dopo…),
In questo racconto, l’elemento narrativo che immediatamente riusciamo a interpretare è senza dubbio il ringraziamento che il samaritano, dopo il miracolo, sente il bisogno di esprimere a Gesù.
Grazie è una piccola parola che però ha una grande forza significativa e creativa.
Tutti i genitori si preoccupano di insegnare ai loro bambini, fin da piccoli, a dire per favore e grazie.
Questo fa parte di una elementare buona educazione.
Ma queste piccole parole sono in realtà cariche di un senso che il bambino deve a poco a poco scoprire.
E il senso è questo.
Dicendo grazie riconosciamo che nessuno di noi può bastare a se stesso.
Tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Non potendo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di ricevere e dunque di domandare.
Inoltre, dicendo grazie, riconosco che l’altro si è mostrato benevolo verso di me.
È come dire ad una persona:”Io credo in te. Io spero in te. Io mi sento voluto bene”.
In fondo queste piccole parole, perfino banali a forza di essere usate senza che ci si pensi, esprimono la dimensione sociale dell’essere umano.
Una comunità umana, tanto più una comunità cristiana, si costruisce attraverso queste relazioni, questi incontri in cui ciascuno riconosce i valori più alti e puri dell’esistenza: la capacità di ammirazione, di fiducia, di gratitudine, di gratuità nel praticare l’amore.
E’ importante dire grazie perché questo è il modo migliore per intuire che tutto è grazia, per risalire a colui che, come Padre, è sempre il primo a donare, a perdonare, ad amare.
Grazie, come diceva Raimondo Lullo, un mistico del XIII secolo, per il semplice fatto che esiste come Padre: “La mia mia gioia e la mia allegrezza vengono dal pensiero che tu esisti”.
Oggi Gesù ci invita a ricordarci di questo nella nostra relazione con Dio.
I dieci lebbrosi sono venuti da lui riconoscendo in lui un maestro, un inviato da Dio.
Ed essi osano chiedere a lui ciò che nessun uomo avrebbe potuto dare in quel tempo: la guarigione dalla lebbra.
Chiedono un favore che supera le forze umane.
In verità è a Dio che si rivolgono, attraverso Gesù.
Ma uno solo ritorna sui suoi passi, a dire grazie.
“E gli altri nove , dove sono?” si chiede Gesù.
C’è forse nelle sue parole una nota, umanissima, di delusione.
Non dimentichiamo che Gesù era in cammino verso Gerusalemme dove sarebbe stato condannato a morire sulla croce.
Perché non pensare che anche lui sentisse il bisogno di essere consolato dalla gratitudine delle persone che andava beneficando?
Anche i consolatori hanno bisogno di essere consolati, anche Dio.
Ma forse la ragione della tristezza di Gesù va cercata altrove.
In fondo, a lui sarebbe bastato il grazie di uno solo.
Se si è rammaricato, era per il fatto che gli altri nove si fossero accontentati della guarigione privandosi della impareggiabile felicità di dire grazie.
Chi si dimostra incapace di ringraziare, non fa un torto al benefattore, ma principalmente a se stesso.
Purtroppo c’è molta gente che ha perso l’abitudine, sempre che l’abbia avuta prima, di ringraziare.
Come se tutto fosse dovuto.
C’è da aver paura di certe persone (e ciascuno di noi ricorda d’aver fatto qualche conoscenza di questo genere) che non sanno mai dire grazie.
“Un cane riconoscente vale meglio di un uomo ingrato”, dice un proverbio.
Ma non vogliamo rattristarci più del necessario osservando la meschinità di certi comportamenti.
Riprendiamo il racconto del vangelo e dimenticando i nove che non sono tornati (forse si immaginavano di avere diritto alla guarigione perché giudei), guardiamo al samaritano, che è l’unico che sente il bisogno di dire grazie.
Questo straniero è l’unico che riconosce che la sua guarigione è un dono gratuito della bontà del Signore.
Era venuto con tutta la sua povertà a chiedere,ritorna con tutta la sua gratitudine per riconoscere che Dio ha risposto alla sua domanda.
“Mi piace immaginare (utilizzo qui una suggestiva immaginazione di A. Pronzato) che quell’uno, di fronte alla amarezza manifestata da Gesù, abbia detto: “Ma io vengo a nome di tutti… Hanno incaricato me di esprimere la riconoscenza”.
Lo so che non sta scritto nel vangelo.
Ritengo tuttavia che non sia proibito inventare qualcosa.
Anche perché la parte dell’uno che rende grazie a nome di tutti la posso pur sempre assumere io…
Però mi piacerebbe che tutti, anche quelli che non hanno il dono della fede, sentissero qualche volta, magari contemplando un tramonto, il bisogno di dire grazie a qualcuno che non conoscono ancora”.
E’ quello che Elias Canetti ci ha rivelato con questa sua toccante confessione:
“La cosa più dura per chi non crede in Dio: non avere nessuno a cui poter dire grazie. Più ancora che per le proprie miserie si ha bisogno di un Dio per esprimere gratitudine”.
Qualche volta mi sorprendo a pensare (è ancora A. Pronzato che così si confida) che la fede potrebbe cominciare con un “grazie” appena sussurrato timidamente, pur senza un destinatario preciso, e la preghiera potrebbe nascere semplicemente dal bisogno di dire grazie a qualcuno (la lettera maiuscola, non c’è fretta, verrà messa dopo…),
sabato 6 ottobre 2007
XXVII Domenica del tempo ordinario
Luca 17, 5-10
“Aumenta la nostra fede”
E’ meravigliosa questa preghiera.
Pregare perché si accresca in noi la fede vuol dire riconoscere che la fede è un dono e che questo dono non può mai diventare un possesso definitivo, ma ha sempre bisogno di essere rinnovato.
Non si finirebbe di fare l’elogio di questa preghiera.
Eppure, così come è formulata, questa preghiera può nascondere qualche sottinteso che va corretto.
E questo lo diciamo per due motivi.
Il primo motivo sta nel verbo “aumenta”.
È un verbo che suggerisce una dimensione quantitativa, quindi misurabile, accertabile.
Ma la fede non si può misurare.
Si possono misurare i fenomeni religiosi: le devozioni, le vocazioni al sacerdozio, i battesimi amministrati in una parrocchia, le bibbie vendute in un anno…
Ma qui siamo nel campo della religione, non ancora della fede.
Fede e religione non coincidono.
Basti pensare che ci può essere una pratica religiosa non sostenuta dalla fede.
C’è poi un secondo possibile sottinteso da correggere.
Se la fede è misurabile, allora può nascere la presunzione che ci porta a
dire: “Io ho la fede”.
Ma nessuno può dire: “Io ho la fede”.
Noi non siamo possessori. Siamo, modestamente, dei cercatori.
Non siamo degli “arrivati”; siamo dei partenti, dei principianti.
Certo, noi ameremmo vivere di certezze, avere risposte sicure per ogni problema.
Sulla porta di una chiesa ho trovato questa scritta: “Vieni! Qui troverai le risposte”.
Ma la vera fede non consiste nel possedere certezze.
Il cristiano non è l’uomo dei punti esclamativi, ma è l’uomo dei punti interrogativi, della interrogazione incessante.
In questa direzione ci orientano le parole stesse di Gesù: “Se aveste fede quanto un granellino di senape…”.
Gli apostoli chiedono una fede visibile, Gesù fa capire che la vera fede appartiene a un altro ordine, a quello delle cose invisibili.
Il granellino di senapa era considerato come il più piccolo di tutti i semi: così minuscolo che proverbialmente designava tutto ciò che è pressoché imprendibile.
Con questa immagine Gesù voleva far capire che la fede è significata più dalla mancanza che dalla pienezza.
La fede è come una fiamma discreta che ti accende lo sguardo, una piccola musica che risuona nel tuo cuore.
Chi si accorge? La fede ha la leggerezza di un bambino.
Noi abbiamo per lo più la mentalità dell’uomo adulto.
E l’uomo adulto è colui che è portato a calcolare, ad addizionare, ad accumulare.
Perciò l’uomo adulto preferisce la religione alla fede.
Perché la religione – lo si diceva già prima - si può quantificare (“Ho ascoltato tutte le messe di precetto, ho fatto la carità che dovevo, ho rispettato tutti i primi nove venerdì del mese….”), mentre la fede si sottrae ad ogni calcolo.
Leggera è la fede, è un niente di cui non ci possiamo gloriare.
Ma quando c’è questo niente, quale forza è capace di esprimere: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”.
L’immagine usata da Gesù è senza dubbio strana: che senso ha vedere un albero trapiantato nel mare?
Ma ho trovato una spiegazione che mi ha reso luminosa questa parabola.
“Questo albero sono io. Questo albero è ciascuno di noi…
Sradicato dalla fede, strappato alla terra delle evidenze troppo marcate, dei recinti da sempre frequentati, l’albero si pianta nel mare, simbolo dell’immenso.
La fede mi consegna all’infinito del mistero di Dio”(Bernard Feillet).
Volendo dare a questa intuizione un’articolazione più concreta,
potremmo dire che la fede ha il potere di strapparmi alle abitudini profondamente radicate nella mia vita, abitudini che portano ad assecondare i ricatti dell’egoismo, i pregiudizi, le resistenze quando si tratta di praticare l’accoglienza, di perdonare, di amare…
La fede, dopo aver vinto queste resistenze, ci immerge nell’oceano immenso della pietà di Dio, nella straripante immensità del suo amore.
E se, in questa opera di conversione, ci pare di aver ottenuto qualche risultato significativo, soprattutto in ordine ai grandi valori della riconciliazione e della fraternità, se, ad esempio, siamo riusciti a perdonare le offese, a dimenticare i torti ricevuti, a rispondere alla violenza con la dolcezza, dobbiamo essere pronti non a vantarci, ma a dire: “Siamo servitori inutili”.
Di che cosa possiamo vantarci, quando ci muoviamo nell’ordine della grazia?
Tutto è grazia, tutto è dono di Dio.
Purtroppo nella chiesa sono ancora molte le persone malate di protagonismo, convinte della propria insostituibilità, sempre pronte a ricordare a tutti i propri meriti.
Persone ingombranti e persino indisponenti per la loro smania di voler apparire.
Gesù ama invece le persone leggere, che si prendono alla leggera, che sanno un poco volare al di sopra gli altri, senza rendersi conto, come Francesco che in certi momenti sentiva il bisogno di cantare e di danzare.
Un proverbio scozzese dice: “Gli angeli sanno volare perché prendono se stessi alla leggera”.
“Siamo servi inutili” dobbiamo ripeterci.
E, come chiesa, siamo “una banda di buoni a nulla” (Maillot).
Questo lo diciamo non per deprimerci, ma per gioire del fatto che, nonostante tutto, Dio vuole avere bisogno di noi.
Un giorno ci accoglierà forse con queste parole: “Venite a me, voi, buoni a nulla!”
Ma lo dirà con un sorriso, con tutta la simpatia riservata a chi non si vanta di nulla, ma si presenta con la povertà dei propri mezzi e con la ricchezza della propria fiducia.
sabato 29 settembre 2007
XXVI Domenica del tempo ordinario
Amos 1a. 4-7
Salmo 145
1 Timoteo 6, 11-15
Luca 16, 19-31
Dal racconto che abbiamo letto prendiamo tre elementi che ci serviranno come traccia per la nostra riflessione.
Parleremo del “nome”, del “grande abisso”, della “parola di Mosè e dei profeti”.
“ Un mendicante di nome Lazzaro” si legge nella parabola.
Questo mendicante non ha niente: è solo, abbandonato, ignorato.
Però ha un nome, anzi è ricco del suo nome, perché Lazzaro vuol dire: “Dio aiuta”.
Il ricco invece è senza nome.
”C’era un uomo ricco” dice la parabola: un essere anonimo.
E’ un particolare non casuale, ma intenzionale.
Ed è un particolare importante.
Nella cultura semitica infatti il nome esprimeva l’identità profonda di una persona, la sua verità, la sua storia.
Perché il ricco che, senza dubbio, era più conosciuto di Lazzaro, non ha un nome?
Perché è un uomo senza storia e senza dignità.
Potremmo dire, senza uno spessore umano.
Non tanto perché ama i lauti banchetti e i vestiti ricercati.
Non dimentichiamo che anche il padre del figlio prodigo ha fatto uccidere il vitello grasso e ha dato una festa con musica e danza.
E non dimentichiamo che il figlio è stato rivestito delle vesti più belle, con l’anello al dito.
Ciò che invece definisce negativamente la sua esistenza è il fatto che questo banchettare lautamente con il vestire di porpora e bisso era diventato la sua regola di vita.
“Quotidianamente” osserva il vangelo.
Qual è la sua filosofia della vita, o la sua religione,o la sua fede?
Il suo credo coincide con quello che esibisce e che consuma.
Fosse almeno cattivo…
Sarebbe il segno di una personalità, sia pure malata.
Ma qui non c’è personalità.
Qui c’è il vuoto.
Rappresenta tutte la esistenze molli, inerti, grevi, pesanti del loro vuoto.
Esistenze fondate sulle apparenze fatue, sullo sperpero insensato.
Esistenze che vivono dell’effimero e sono votate all’effimero.
Un giorno il ricco morì e fu sepolto.
Soltanto di lui, non del povero, si dice che fu sepolto.
Come se fosse vissuto unicamente in funzione di questo momento, per essere interrato.
Vogliamo immaginare la scena?
Un bel discorso del rabbino, commovente, le condoglianze dalle famiglie dei cinque fratelli e fiori, tanti fiori…
Un funerale brillante.
Ancora una volta il trionfo dell’apparenza a mascherare il vuoto di un’esistenza.
Forse non è sbagliato pensare che di personaggi simili ne esistono anche oggi, soprattutto oggi, in questa nostra società dei consumi e dell’immagine.
E se fossimo anche noi in qualche misura tra questi?
L’altro elemento utile per la nostra riflessione è il “grande abisso”: “Tra noi e voi è stabilito un grande abisso”.
Lo stesso abisso esisteva già prima tra il ricco e Lazzaro.
Quanti abissi si scavano continuamente!
Abissi tra i paesi ricchi e i paesi poveri, abissi tra quelli che dettano le leggi dell’economia e quelli che sono costretti a subirle, abissi tra quelli che godono di mille raccomandazioni e quelli che devono avere una grande pazienza per tutto.
Abissi che separano persone che pure vivono sotto lo stesso tetto e si trovano alla stessa tavola.
La prossimità fisica in questi casi rende ancora più drammatica la distanza affettiva e spirituale.
Forse un abisso c‘è anche dentro di noi a separare un io che fa la parte di Lazzaro e un altro io che interpreta la parte del ricco senza nome.
C’è, in altre parole, un io povero, fragile, che invoca, per vivere, il pane della verità e dell’amore e c’è un io soddisfatto, dissipato, troppo intento a rimirare se stesso per accorgersi di chi sta bussando alla porta.
C’è bisogno di ponti gettati su tutti questi abissi per avvicinare il ricco e il povero, chi spreca e chi non ha nulla, il nostro io che geme e quello stordito che non sa ascoltare.
Chi ci darà la forza per operare questo miracolo?
Qui entra in gioco il terzo elemento della parabola: “Hanno Mosé e i profeti”.
È una risposta che forse ci delude.
Ameremmo, come il ricco della parabola, un aiuto più decisivo.
Se tornasse, per esempio, qualcuno dall’aldilà, come tutto sarebbe più facile.
Ma Gesù non è disposto ad assecondare la nostra domanda.
I miracoli più spettacolari, i richiami più solenni non servono: non hanno mai cambiato niente nel mondo.
Ciò che conta, è l’ascolto della parola di Dio.
Certo, c’è ascolto e ascolto.
Anche il ricco, si può pensare, ogni sabato in sinagoga ascoltava Mosè e i profeti.
E forse, prima di ogni banchetto, si concedeva la lettura di un brano della scrittura.
Ma non c’era in lui un vero ascolto.
Le orecchie erano aperte, ma il cuore era sordo.
È possibile dunque ascoltare senza mai incontrarsi né con Dio né con Lazzaro: senza mai convertirsi.
Occorre allora un altro tipo di ascolto.
Un mio amico prete usa frequentemente un’espressione molto efficace: bisogna - dice- macinare la parola.
:Mi pare di capire che cosa voglia dire bisogna triturarla, assaporarla, metabolizzarla, così che diventi in noi carne, passione, vita.
E poiché sappiamo che la parola si è fatta carne in Gesù, bisogna che si stabilisca tra noi e Gesù un rapporto così stretto da poter ripetere tutto quello che lui ha compiuto. Allora può nascere la passione di lanciare ponti sopra tutti gli abissi, come ha fatto lui, per raggiungere chi è dimenticato, mortificato, chiuso nella sua solitudine.
Non si tratta di promettere soltanto un capovolgimento di situazioni in una vita futura. I poveri sono stanchi di discorsi paternalistici che non fanno altro che perpetuare situazioni di scandalosa ingiustizia.
Tutto verrebbe rimandato all’aldilà.
Basta avere un po’ di pazienza. Allora ci sarà lo scambio delle parti.
I ricchi all’inferno e i poveri in paradiso.
E così giustizia sarà fatta.
No, Gesù non è venuto a predicare questa rassegnazione, ma a renderci partecipi della sua indignazione contro ogni ingiustizia.
È adesso che bisogna raddrizzare le cose storte, come del resto ammoniva il profeta Amos lanciando i suoi “guai!” contro gli spensierati e i bontemponi del suo tempo. Certo, per Gesù c’è una parola di salvezza anche per i ricchi,dalla vita sprecata e insignificante, a patto che, recuperata la dignità della persona, possano ritrovare il nome perduto in cui, come nel nome di Lazzaro, sia custodito questo messaggio di speranza: “Dio salva”.
Salmo 145
1 Timoteo 6, 11-15
Luca 16, 19-31
Dal racconto che abbiamo letto prendiamo tre elementi che ci serviranno come traccia per la nostra riflessione.
Parleremo del “nome”, del “grande abisso”, della “parola di Mosè e dei profeti”.
“ Un mendicante di nome Lazzaro” si legge nella parabola.
Questo mendicante non ha niente: è solo, abbandonato, ignorato.
Però ha un nome, anzi è ricco del suo nome, perché Lazzaro vuol dire: “Dio aiuta”.
Il ricco invece è senza nome.
”C’era un uomo ricco” dice la parabola: un essere anonimo.
E’ un particolare non casuale, ma intenzionale.
Ed è un particolare importante.
Nella cultura semitica infatti il nome esprimeva l’identità profonda di una persona, la sua verità, la sua storia.
Perché il ricco che, senza dubbio, era più conosciuto di Lazzaro, non ha un nome?
Perché è un uomo senza storia e senza dignità.
Potremmo dire, senza uno spessore umano.
Non tanto perché ama i lauti banchetti e i vestiti ricercati.
Non dimentichiamo che anche il padre del figlio prodigo ha fatto uccidere il vitello grasso e ha dato una festa con musica e danza.
E non dimentichiamo che il figlio è stato rivestito delle vesti più belle, con l’anello al dito.
Ciò che invece definisce negativamente la sua esistenza è il fatto che questo banchettare lautamente con il vestire di porpora e bisso era diventato la sua regola di vita.
“Quotidianamente” osserva il vangelo.
Qual è la sua filosofia della vita, o la sua religione,o la sua fede?
Il suo credo coincide con quello che esibisce e che consuma.
Fosse almeno cattivo…
Sarebbe il segno di una personalità, sia pure malata.
Ma qui non c’è personalità.
Qui c’è il vuoto.
Rappresenta tutte la esistenze molli, inerti, grevi, pesanti del loro vuoto.
Esistenze fondate sulle apparenze fatue, sullo sperpero insensato.
Esistenze che vivono dell’effimero e sono votate all’effimero.
Un giorno il ricco morì e fu sepolto.
Soltanto di lui, non del povero, si dice che fu sepolto.
Come se fosse vissuto unicamente in funzione di questo momento, per essere interrato.
Vogliamo immaginare la scena?
Un bel discorso del rabbino, commovente, le condoglianze dalle famiglie dei cinque fratelli e fiori, tanti fiori…
Un funerale brillante.
Ancora una volta il trionfo dell’apparenza a mascherare il vuoto di un’esistenza.
Forse non è sbagliato pensare che di personaggi simili ne esistono anche oggi, soprattutto oggi, in questa nostra società dei consumi e dell’immagine.
E se fossimo anche noi in qualche misura tra questi?
L’altro elemento utile per la nostra riflessione è il “grande abisso”: “Tra noi e voi è stabilito un grande abisso”.
Lo stesso abisso esisteva già prima tra il ricco e Lazzaro.
Quanti abissi si scavano continuamente!
Abissi tra i paesi ricchi e i paesi poveri, abissi tra quelli che dettano le leggi dell’economia e quelli che sono costretti a subirle, abissi tra quelli che godono di mille raccomandazioni e quelli che devono avere una grande pazienza per tutto.
Abissi che separano persone che pure vivono sotto lo stesso tetto e si trovano alla stessa tavola.
La prossimità fisica in questi casi rende ancora più drammatica la distanza affettiva e spirituale.
Forse un abisso c‘è anche dentro di noi a separare un io che fa la parte di Lazzaro e un altro io che interpreta la parte del ricco senza nome.
C’è, in altre parole, un io povero, fragile, che invoca, per vivere, il pane della verità e dell’amore e c’è un io soddisfatto, dissipato, troppo intento a rimirare se stesso per accorgersi di chi sta bussando alla porta.
C’è bisogno di ponti gettati su tutti questi abissi per avvicinare il ricco e il povero, chi spreca e chi non ha nulla, il nostro io che geme e quello stordito che non sa ascoltare.
Chi ci darà la forza per operare questo miracolo?
Qui entra in gioco il terzo elemento della parabola: “Hanno Mosé e i profeti”.
È una risposta che forse ci delude.
Ameremmo, come il ricco della parabola, un aiuto più decisivo.
Se tornasse, per esempio, qualcuno dall’aldilà, come tutto sarebbe più facile.
Ma Gesù non è disposto ad assecondare la nostra domanda.
I miracoli più spettacolari, i richiami più solenni non servono: non hanno mai cambiato niente nel mondo.
Ciò che conta, è l’ascolto della parola di Dio.
Certo, c’è ascolto e ascolto.
Anche il ricco, si può pensare, ogni sabato in sinagoga ascoltava Mosè e i profeti.
E forse, prima di ogni banchetto, si concedeva la lettura di un brano della scrittura.
Ma non c’era in lui un vero ascolto.
Le orecchie erano aperte, ma il cuore era sordo.
È possibile dunque ascoltare senza mai incontrarsi né con Dio né con Lazzaro: senza mai convertirsi.
Occorre allora un altro tipo di ascolto.
Un mio amico prete usa frequentemente un’espressione molto efficace: bisogna - dice- macinare la parola.
:Mi pare di capire che cosa voglia dire bisogna triturarla, assaporarla, metabolizzarla, così che diventi in noi carne, passione, vita.
E poiché sappiamo che la parola si è fatta carne in Gesù, bisogna che si stabilisca tra noi e Gesù un rapporto così stretto da poter ripetere tutto quello che lui ha compiuto. Allora può nascere la passione di lanciare ponti sopra tutti gli abissi, come ha fatto lui, per raggiungere chi è dimenticato, mortificato, chiuso nella sua solitudine.
Non si tratta di promettere soltanto un capovolgimento di situazioni in una vita futura. I poveri sono stanchi di discorsi paternalistici che non fanno altro che perpetuare situazioni di scandalosa ingiustizia.
Tutto verrebbe rimandato all’aldilà.
Basta avere un po’ di pazienza. Allora ci sarà lo scambio delle parti.
I ricchi all’inferno e i poveri in paradiso.
E così giustizia sarà fatta.
No, Gesù non è venuto a predicare questa rassegnazione, ma a renderci partecipi della sua indignazione contro ogni ingiustizia.
È adesso che bisogna raddrizzare le cose storte, come del resto ammoniva il profeta Amos lanciando i suoi “guai!” contro gli spensierati e i bontemponi del suo tempo. Certo, per Gesù c’è una parola di salvezza anche per i ricchi,dalla vita sprecata e insignificante, a patto che, recuperata la dignità della persona, possano ritrovare il nome perduto in cui, come nel nome di Lazzaro, sia custodito questo messaggio di speranza: “Dio salva”.
domenica 23 settembre 2007
XXV Domenica del tempo ordinario
Amos 8, 4-7
Salmo 112
2 Timoteo 2, 1-8
Luca 16, 1-13
“Non potete servire a Dio e a mammona”
Mammona è la personificazione della ricchezza.
La parola, che appartiene al dialetto aramaico, ha la stessa radice dell’ebraico amen e pertanto sta a significare ciò è stabile e fermo.
Mammona rappresenta la ricchezza come un mito, come qualcosa di assoluto, quasi fosse una divinità.
Mammona si pone perciò in contrasto con Dio per cui è necessario scegliere: o Dio o mammona.
Sia chiaro: Gesù non condanna la ricchezza in sé e, in generale, i beni materiali, ma l’uso perverso che se ne può fare.
E questo succede quando la ricchezza esercita un fascino così totalizzante ed esclusivo da occupare le coscienze individuali e collettive come il valore supremo,
In questo caso, invece di essere a servizio dell’uomo, esercita sull’uomo una tirannia distruttiva.
In nome di questo dio terribile che è il dio denaro, quanti disordini spaventosi siamo costretti a registrare su questo nostro pianeta: guerre, droga, mafia, prostituzione, sfruttamento
Questo dio denaro è capace di distruggere tutto: coppie, famiglie, relazioni, istituzioni
Il potere devastante del denaro è efficacemente illustrato dalla denuncia che ne fa il profeta Amos.
Qui sono presi di mira soprattutto i commercianti disonesti che ricorrono a tutti gli accorgimenti possibili per aumentare i loro guadagni.
A questo modo i poveri diventano sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi
Ma anche il vangelo con la parabola strana dell’amministratore infedele fa capire a quali situazioni di estremo pericolo può condurre l’attaccamento smodato ai beni materiali.
Il problema è quello di liberare l’uomo dalla servitù nei confronti di questo idolo vorace che è il denaro, di desacralizzarlo in modo che esso non rappresenti più una divinità (mammona appunto) contrapposta a Dio, ma sia ricondotto alla sua funzione di strumento finalizzato alla crescita ordinata dell’uomo nel rispetto della giustizia e della convivenza sociale.
Le letture ci danno indicazioni molto utili perché possiamo attuare questa conversione.
Anzitutto bisogna coltivare una grande passione per la giustizia.
Troppe volte ci limitiamo a porre domande sulla giustizia al “Dio giusto”.
Troppo comodo chiedersi:” Perché Dio permette certe cose?”.
Dovemmo invece capovolgere la domanda e chiederci: “Perché noi tolleriamo questo stato di cose?”.
Sarà forse perché, poco o tanto, abbiamo tutti delle compromissioni o delle complicità con situazioni ingiuste o anche perché ci siamo formati un’idea sbagliata delle nostre responsabilità come cristiani nel mondo.
Non basta infatti “badare ai fatti propri”, o curare gli interessi del proprio gruppo o difendere i diritti della chiesa.
Primari sono i diritti del vangelo che coincidono con i diritti della giustizia.
La passione per la giustizia dovrebbe diventare in noi inquietudine, rimorso, coraggio di dire parole che scottano, come ha fatto i profeta Amos, che non si è limitato a una denuncia generica, ma ha saputo dare del ladro al ladro chiamando le cose e le persone con il loro nome.
Per coltivare la passione per la giustizia, c’è bisogno anche di modelli.
E c’è da augurasi che la chiesa, nel voluminoso catalogo dei santi, voglia trovare una visibilità sempre maggiore per “i martiri per la giustizia” che non mancano nel nostro tempo.
Penso a mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato mentre stava celebrando la messa, penso ai preti uccisi dalla mafia e con loro anche a tante nobili figure di laici osteggiati e uccisi perché hanno avuto il coraggio di protestare contro gli abusi del potere.
Paolo raccomanda di pregare per tutti quelli che stanno al potere perché possano trascorrere una vita calma e tranquilla.
Noi saremmo tentati di pregare perché i detentori del potere abbiano una vita difficile e poco tranquilla.
Ma non si tratta di abbracciare il malcontento oggi diffuso nella società italiana.
Si tratta piuttosto di fare opera di discernimento per onorare chi veramente agisce secondo le norme della lealtà e della onestà, per il bene della comunità, e per condannare chi invece si lascia governare dalla logica degli interessi privati, anche se mascherata da pubbliche e assidue professioni di fedeltà nei confronti della chiesa.
Ma passiamo ora alla .parabola narrata nel vangelo.
È una parabola imbarazzante e perfino scandalosa, visto che Gesù sembra lodare il comportamento di quell’amministratore infedele.
Ma a noi interessa cogliere l’esortazione con cui Gesù conclude la parabola: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”.
Si parlava all’inizio della necessità di desacralizzare il dio denaro che ci schiavizza, ci aliena, se diventa il valore supremo del nostro esistere.
E già avevamo trovato nelle prime due letture indicazioni molto utili per realizzare questa conversione.
Ma ora Gesù intende darci la lezione essenziale riguardante il buon uso della ricchezza.
Fatevi degli amici! usate i vostri beni come strumento di condivisione e d’amicizia!.
Spalancate le vostre mani nel gesto del dono, regalate un po’ di luce, di gioia e di speranza a chi è povero e sofferente.
Sarà il migliore investimento che avrete fatto delle vostre ricchezze, perché collocate nella banca del cielo.
A questo modo vi sarete fatti degli amici che un giorno parleranno bene di voi, presso l’Amico che vi attende.
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